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Tutti parlano, pochi ascoltano e quasi nessuno pensa.

Sui social, l’intelligenza non serve: basta l’algoritmo giusto. Ogni citazione diventa trampolino, ogni riflessione pretesto, ogni nome un appiglio per scalare la gerarchia dell’attenzione. Dove un tempo si cercava il dialogo, oggi si collezionano “visualizzazioni” come trofei. E il sapere, ridotto a sfondo decorativo, serve solo a lucidare l’ego. Questo testo non è un lamento: è un piccolo esperimento antropologico sulla vanità digitale, quella che ci rende meschini non perché cattivi, ma perché disperati all’idea di non essere visti.


C’è un professore molto stimato, chiamiamolo Fulgenzio Taldetali.

È una figura che, per la sola autorevolezza del nome, muove commenti e condivisioni. Alcuni giorni fa ho scritto un articolo in cui citavo un suo libro, dentro un ragionamento più ampio sulla conoscenza nell’epoca digitale. Ho poi condiviso il link su una piattaforma professionale. Nel giro di ventiquattro ore il post è passato da zero a oltre 27.000 visualizzazioni, arrivando a più di 16.000 persone, secondo il pannello delle statistiche. Non credo sia dipeso soltanto dal valore del mio testo; è verosimile che l’innesco sia stato l’evocazione di un nome che gli algoritmi riconoscono come magnete di attenzione. In molti hanno rilanciato il post, per lo più non per discutere le idee: cercavano uno specchio.

e se fossimo tutti solo e soltanto alla ricerca di uno specchio?

Questo non è un incidente isolato.

È un pattern umano prima ancora che digitale. Da almeno settant’anni la sociologia descrive il bisogno di “mettere in scena” una certa immagine di sé. Erving Goffman spiegava le interazioni quotidiane come una rappresentazione teatrale: c’è una ribalta, un retroscena e una regia dell’apparire. I social hanno trasformato questa intuizione in infrastruttura: ogni profilo è un palcoscenico tascabile, sempre acceso. La letteratura su impression management e self-presentation conferma quanto siano centrali, online, le strategie per controllare l’immagine che gli altri si fanno di noi.

Altrettanto antica è la tendenza al confronto sociale.

Leon Festinger lo formalizza nel 1954: quando mancano misure oggettive, valutiamo noi stessi paragonandoci agli altri. Sui network questo processo diventa cronico, perché scorrono davanti a noi vite selezionate al meglio: se desidero sembrare competente, la scorciatoia è accostarmi a chi è riconosciuto tale o, meglio ancora, mettere a tema la sua figura per intercettarne il riflesso. È un meccanismo prevedibile: upward comparison (guardare verso chi sta “più in alto”) e bisogno di ridurre l’incertezza identitaria si fondono in tattiche di visibilità.

Poi c’è l’economia dell’attenzione. Herbert Simon lo ha detto in modo lapidario: se l’attenzione è il bene raro, tutto viene riorganizzato per catturarla e trattenerla. I feed non privilegiano ciò che è vero, ma ciò che mantiene gli occhi sullo schermo. E dato che l’attenzione si misura, gli algoritmi la inseguono: like, commenti, condivisioni, tempo di visualizzazione. Il contenuto che aggancia emozioni e identità viene promosso. È razionale dal punto di vista del sistema, ma non coincide con la qualità epistemica.

Negli ultimi anni, studi indipendenti hanno classificato gli effetti di questa ottimizzazione. Audit e ricerche sperimentali mostrano che l’ordinamento basato sull’engagement tende ad amplificare i contenuti emotivamente carichi — in particolare quelli segnati da rabbia, disprezzo e ostilità verso il “fuori-gruppo”. È qui che la dinamica umana e la logica dell’algoritmo si incastrano: il bisogno di apparire morali o informati si traduce in messaggi più accesi, perché premiati dal ranking. Non stupisce che contenuti così formulati “performino” meglio, anche se spesso lasciano gli utenti meno soddisfatti.

In questo contesto, si incastra perfettamente il desiderio di riconoscimento morale. I filosofi Justin Tosi e Brandon Warmke chiamano moral grandstanding l’uso del discorso pubblico per auto-promuoversi moralmente. Non si tratta di discutere valori, ma di mostrarsi dalla parte giusta, massimizzando l’impressione di virtù. I social, con il loro conto alla rovescia di like e commenti, fungono da misuratore. È una dinamica nota: si lavora sul registro etico perché garantisce interazioni rapide e una reputazione “spendibile”.

Che c’entra tutto questo con quello che ho osservato?

Molto. Se cito Fulgenzio Taldetali, non solo evoco un’autorità; offro a molti un’occasione per esibirsi: condividere il mio link cambiando il centro della discussione (dal contenuto alla figura), o scrivere un nuovo testo “critico” nei miei confronti, tipo l'analisi del testo che si insegna alle scuole medie...

Non è un comportamento sempre in malafede; è spesso un riflesso condizionato da incentivi chiari. Si ottiene visibilità a basso costo: ci si appoggia su un tema già caldo, si usa un nome che funziona come leva, si produce un giudizio breve e netto. È efficace, e l’algoritmo lo premia. Ma per la conoscenza è un impoverimento: la critica vale se costruisce, non se succhia energia da ciò che altri hanno già elaborato.

La psicologia dei tratti aggiunge un elemento di sfondo.

Meta-analisi e revisioni sistematiche rilevano correlazioni — modeste ma reali — fra uso intensivo dei social e tratti narcisistici, in particolare quelli “grandiosi”. Ciò non significa che “i social rendano narcisisti” in senso meccanico; indica invece che piattaforme basate su auto-rappresentazione e feedback quantitativi attirano e rinforzano stili motivazionali centrati su autopromozione e ricerca di ammirazione. Ancora una volta: il punto non è patologizzare gli utenti, ma riconoscere che certi ambienti incentivano certi comportamenti.

A questo si somma un’inerzia architetturale: quando le piattaforme hanno sperimentato feed cronologici, l’engagement è calato; gli utenti hanno interagito meno. Questo spiega perché i gestori difendono i feed algoritmici: sono semplicemente più efficaci nel trattenere l’attenzione. La scelta di disporre i contenuti in base alle reazioni, però, crea un’ecologia dove prospera il “parassitismo intellettuale”: meglio appoggiarsi a un contenuto già pronto, solido, un nome, una polemica, un simbolo, che prendersi il rischio di elaborarne uno nuovo.

Da qui la “linkedinizzazione” di spazi nati per pensare.

Alcuni autori, pur di scrivere qualcosa, pubblicano testi privi di reale contributo, che vivono di riflesso: criticano, reinterpretano, smontano, ma senza aggiungere comprensione. In termini goffmaniani, è recita di ribalta senza retroscena; in termini di confronto sociale, è una scorciatoia ascensionale; in termini economici, è caccia all'attenzione; in termini morali, è grandstanding. Nulla di nuovo sotto il sole, con una differenza: la velocità e la scala. Prima servivano mesi per far circolare un’idea mediocre; oggi bastano ore, se cavalca il "post giusto".

Che fare, allora?

Non moralizzare gli altri — sarebbe l’ennesima performance — ma ritarare le nostre pratiche.

Primo: separare visibilità e valore. La visibilità è una metrica di distribuzione, non un criterio di verità. La buona conoscenza non è necessariamente “virale”, e la viralità non è una prova.

Secondo: ricompensare il contributo. Nei nostri spazi editoriali possiamo stabilire regole semplici: chi critica porta anche un frammento di costruzione; chi cita dimostra di aver letto a fondo; chi cavalca un nome ne indaga i limiti, non soltanto l’ombra.

Terzo: curare l’ecologia degli incentivi, adottando pratiche che rendano meno remunerativo l’aggancio opportunistico — per esempio moderazioni che privilegiano argomentazioni e rimandi bibliografici, non le fiammate emotive. La ricerca mostra che l’algoritmo amplifica l’ostilità e la moralizzazione; noi possiamo disinnescare a monte la “domanda” di quel tipo di combustibile altamente infiammabile.

In altre parole: restituire dignità al tempo lungo della lettura e della scrittura. Non tacere per ritirarci, ma tacere quando non abbiamo ancora qualcosa da aggiungere. Non inseguire il riflesso, ma cercare la risonanza: quel punto in cui un’idea incontrando un’altra produce una terza cosa, inattesa, verificabile, utile. Le piattaforme non cambieranno presto; possiamo però cambiare il modo in cui le abitiamo. Goffman ci ricorda che non siamo solo attori, ma anche registi delle nostre scene; Festinger che il confronto può motivarci verso meglio, se non diventa ossessione; Simon che l’attenzione va amministrata come un bene raro. Il resto è disciplina: leggere prima di rispondere, pensare prima di pubblicare, contribuire prima di criticare.

Così la “nave della conoscenza” resta ciò che deve essere: non una passerella di auto-rappresentazioni, ma un cantiere. Non un ecosistema di predazione, ma un laboratorio comune. E chi vorrà salire a bordo dovrà portare qualcosa che pesi: non un’eco, ma un’idea.


Le fonti qui elencate servono a offrire il mio quadro teorico ed empirico, utile spero per comprendere le dinamiche psicologiche e sociali evocate nel testo. Gli studi citati provengono da ambiti diversi — sociologia, psicologia, economia comportamentale e media studies — e convergono nell’illustrare come il bisogno umano di riconoscimento, unito agli incentivi algoritmici, possa trasformare la comunicazione digitale in uno spazio di rappresentazione più che di conoscenza.


Per approfondire

Goffman, Erving (1956).
The Presentation of Self in Everyday Life. Edinburgh: University of Edinburgh, Social Sciences Research Centre.
Opera fondamentale della sociologia moderna: Goffman descrive la vita sociale come un palcoscenico dove gli individui mettono in scena ruoli e identità, anticipando le dinamiche di auto-rappresentazione oggi amplificate dai social media.

Festinger, Leon (1954).
A Theory of Social Comparison Processes. Human Relations, 7(2), 117–140.
L’articolo che fonda la “teoria del confronto sociale”: le persone valutano se stesse paragonandosi agli altri, un meccanismo che online si traduce nella ricerca di conferme e riconoscimento.

Simon, Herbert A. (1971).
Designing Organizations for an Information-Rich World. In M. Greenberger (ed.), Computers, Communications, and the Public Interest. Baltimore: Johns Hopkins Press.
Simon introduce il concetto di “attenzione come risorsa scarsa” in un mondo saturo d’informazioni: la base teorica dell’attuale economia dell’attenzione.

Tosi, Justin & Warmke, Brandon (2016).
Moral Grandstanding. Philosophy & Public Affairs, 44(3), 197–217.
Saggio che definisce il “moral grandstanding”: l’uso del linguaggio morale per auto-promuoversi pubblicamente, fenomeno esploso con i social network.

Marwick, Alice E. & Boyd, Danah (2011).
To See and Be Seen: Celebrity Practice on Twitter. Convergence, 17(2), 139–158.
Studio pionieristico sulle pratiche di “auto-celebrità” online: gli autori mostrano come gli utenti costruiscano e gestiscano la propria visibilità come farebbe una figura pubblica.

Vazire, Simine & Gosling, Samuel D. (2004).
e-Perceptions: Personality Impressions Based on Personal Websites. Journal of Personality and Social Psychology, 87(1), 123–132.
Ricerca che dimostra come gli utenti si formino giudizi di personalità a partire dalla presentazione digitale altrui — anticipando gli effetti psicologici dei social.

Casale, Silvia, Fioravanti, Giulia & Rugai, Laura (2016).
Grandiose and Vulnerable Narcissism: Which Dimensions Predict Facebook Use and Self-Presentation? Computers in Human Behavior, 65, 423–431.
Analisi empirica italiana sul legame fra narcisismo (nelle sue due forme principali) e uso dei social per la costruzione dell’immagine personale.

Brady, William J., Wills, Julian A., Jost, John T., Tucker, Joshua A., & Van Bavel, Jay J. (2017).
Emotion Shapes the Diffusion of Moralized Content in Social Networks. PNAS, 114(28), 7313–7318.
Studio sperimentale che mostra come le emozioni — soprattutto rabbia e indignazione — facilitino la diffusione dei contenuti moralizzati, creando circoli viziosi di visibilità.

Pew Research Center (2021).
How Algorithms Shape What We See on Social Media.
Report indipendente che spiega come gli algoritmi determinino la visibilità dei contenuti sui social, con un impatto diretto sulla percezione della realtà informativa.

Meta Research (2022).
Feed Algorithmic Ranking and User Well-Being: Internal Review Summary.
Sintesi ufficiale delle ricerche interne di Meta sui feed algoritmici e sul benessere degli utenti, che confermano la centralità dell’engagement come criterio di ranking.

Haidt, Jonathan & Rose-Stockwell, Tobias (2022).
The Dark Psychology of Social Networks. The Atlantic.
Analisi divulgativa di grande impatto sui meccanismi psicologici che alimentano polarizzazione e dipendenza da visibilità nei social network.

Fuchs, Christian (2021).
Social Media: A Critical Introduction. 3rd edition. London: Sage Publications.
Manuale accademico di riferimento che analizza in chiave critica l’economia politica dei social media e la loro influenza sui processi di comunicazione e potere.

Twenge, Jean M. & Campbell, W. Keith (2018).
The Narcissism Epidemic: Living in the Age of Entitlement. New York: Atria Books.
Libro divulgativo basato su studi longitudinali: documenta l’aumento del narcisismo e la correlazione con l’uso intensivo delle piattaforme digitali.


Pubblicato il 29 ottobre 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / etiam capillus unus habet umbram suam