Ho passato trent'anni a progettare sistemi, gestire processi, portare ordine nella complessità. Ufficiale dell'Aeronautica in gioventù, poi project manager, consulente, formatore. Ho attraversato organizzazioni pubbliche e private, visto funzionare o implodere decine di strutture, imparato che il metodo serve solo se sa adattarsi al disordine reale.

Scrivo su Stultifera Navis perché credo che il pensiero organizzativo non possa essere separato dal pensiero critico. Troppo spesso il management si riduce a ripetizione di formule vuote, e la riflessione filosofica resta sospesa in aria senza toccare il mondo concreto. Io cerco di tenere insieme rigore operativo e profondità di analisi: capire come funzionano le organizzazioni, perché falliscono, cosa significa davvero "governare" processi fatti di persone, non solo di procedure.

Non ho modelli da vendere né verità da difendere. Mi interessa osservare, smontare, ricostruire. Vedere cosa resta in piedi quando togli le retoriche.

Qui scrivo di metodo e caos, di governance e resistenza, di come si naviga la complessità senza fingere che sia semplice. Se cerchi ricette preconfezionate, non è il posto giusto. Se ti interessa capire come stanno davvero le cose, forse sì.


Il lavoro, la distanza e la dignità

Ho scritto queste righe pensando al silenzio di chi lavora davvero: chi interviene quando tutto si ferma, e chi tiene in moto ciò che non si vede. Viviamo in un tempo che confonde la fatica con la visibilità, la presenza con il controllo, il valore con il denaro. Eppure, il senso del lavoro resta lo stesso: prendersi cura del mondo. A chi lo fa ogni giorno — su un’autostrada, in un ospedale, in una centrale operativa o dietro un monitor acceso in un piccolo paese italiano — va la mia gratitudine.

Milano, non bella ma un tipo.

Milano sembra bella. Ma è un inganno gentile, come certi volti che affascinano non per armonia ma per carattere. È una città piena di difetti: rumorosa, impaziente, spesso arrogante. E non è nemmeno particolarmente simpatica. Eppure ha una qualità rara: non ti permette di addormentarti. Le altre città italiane, con la loro calma e i loro monumenti immobili, finiscono per sembrare musei di sé stesse. Milano no: anche quando ti sfianca, anche quando ti fa rimpiangere un posto dove si respira davvero, ti costringe a restare vivo.

Architetture della paura tra case, corpi e profili digitali.

Ogni città parla con la propria paura. Lo fa in silenzio, nei dettagli che riempiono lo spazio urbano: sbarre alle finestre, cancelli chiusi, telecamere che scrutano, cartelli che ammoniscono. Questi segni, spesso invisibili per abitudine, non proteggono soltanto beni materiali. Difendono identità fragili, confini morali, la sensazione di appartenere a un ordine ancora comprensibile. Sono sintomi di un’epoca in cui la sicurezza è diventata linguaggio, e il linguaggio stesso una forma di sicurezza.

L’eco e la risonanza. Sulla vanità digitale e la miseria del pensiero riflesso.

Tutti parlano, pochi ascoltano e quasi nessuno pensa. Sui social, l’intelligenza non serve: basta l’algoritmo giusto. Ogni citazione diventa trampolino, ogni riflessione pretesto, ogni nome un appiglio per scalare la gerarchia dell’attenzione. Dove un tempo si cercava il dialogo, oggi si collezionano “visualizzazioni” come trofei. E il sapere, ridotto a sfondo decorativo, serve solo a lucidare l’ego. Questo testo non è un lamento: è un piccolo esperimento antropologico sulla vanità digitale, quella che ci rende meschini non perché cattivi, ma perché disperati all’idea di non essere visti.

Le nuove tabulae: quando il documento diventa digitale davvero

Ciò che io scrivo non può essere “inventato” da un’intelligenza artificiale, perché è il prodotto di un percorso tecnico e cognitivo reale, accumulato nel tempo... In Italia si parla molto di intelligenza artificiale nella pubblica amministrazione, ma troppo poco di intelligenza umana. Abbiamo archivi, norme e strumenti maturi da anni, eppure continuiamo a stampare file nati digitali come se la carta fosse garanzia di verità. La vera innovazione è liberare la PA dal culto della procedura. Le nuove tabulae non sono più tavolette di cera ma piattaforme digitali: per trasformarle in strumenti di fiducia serve meno tecnologia e più lucidità, meno automazione e più pensiero critico.

Il culto dell’incompetenza artificiale. Ovvero: perché paghiamo per strumenti che ci fanno lavorare di più.

A volte il pensiero critico non serve a distinguere il vero dal falso, ma il lecito dal dicibile. In certe aziende — come in certi tempi — si misura la fedeltà di un dipendente non dal lavoro che fa, ma da ciò che evita di pensare. Mi è capitato, anni fa, di firmare un contratto che vietava di scrivere articoli sull’open source. Un modo elegante per ricordarmi che la libertà di pensiero è sempre proprietaria. Da allora ho imparato a riconoscere la stessa logica ovunque: nelle piattaforme che ti chiedono di “ottimizzare il tempo”, negli algoritmi che pretendono di “aiutarti a pensare”. Questo saggio nasce da lì — da quella piccola amputazione volontaria — e dall’intuizione che l’intelligenza artificiale, oggi, ripropone su scala planetaria lo stesso meccanismo: ti offre libertà solo se resti dentro la sua gabbia semantica.

Il sesso non è binario. Dati biologici, responsabilità sociali, e parole giuste.

Per secoli abbiamo creduto che bastasse un microscopio per definire una persona. XX voleva dire “femmina”, XY “maschio”: due colonne, due destini. Un paradigma comodo, ma insufficiente. La biologia reale – quella che osserva processi, non etichette – ci restituisce un quadro più articolato. Il sesso è un processo che si costruisce in fasi (cromosomi → gonadi → ormoni → cervello → pubertà), e il genere è una dimensione vissuta che intreccia linguaggi, relazioni e istituzioni.

Ontologie plurali e scienze cognitive: verso una tassonomia dinamica della mente

La cognitive ontology non riguarda solo la corrispondenza tra mente e cervello: è una questione epistemologica. Quali sono le entità ammissibili in una teoria della cognizione? Gli sviluppi della neurofisiologia, della filosofia della mente e della 4E Cognition hanno introdotto una visione pluralista, in cui le funzioni mentali sono processi distribuiti, dinamici e contestuali. Questo articolo analizza il passaggio da una tassonomia statica a una ontologia processuale della mente, dove le categorie cognitive tradizionali vengono ridefinite come strumenti descrittivi, non come essenze. Una prospettiva che connette neuroscienze, intelligenza artificiale e filosofia della conoscenza.

La crisi delle mappe mentali

Ogni teoria scientifica implica un’ontologia: un modo di delimitare ciò che esiste. Le scienze cognitive hanno costruito la propria mappa mentale su concetti come memoria, attenzione e linguaggio, ma la rivoluzione neuroscientifica ha incrinato queste categorie. I dati di neuroimaging mostrano che processi considerati distinti attivano regioni cerebrali simili, e viceversa. Nasce così la cognitive ontology: un tentativo di ricostruire dal basso la tassonomia della mente, partendo dai pattern neurali e non dai concetti psicologici. Questo articolo ripercorre la genesi del dibattito, dalle intuizioni di Price e Friston fino alle posizioni più revisioniste di Poldrack e Churchland.

Memoria d’impresa: dall’album di famiglia a motore di conoscenza

In molte aziende italiane l’idea di creare un museo o un archivio storico d’impresa nasce dal basso, da chi ha intuito che il patrimonio documentale e materiale può diventare una risorsa strategica. Ma spesso queste intuizioni vengono intercettate dai livelli dirigenziali superiori, che ne fanno strumenti di rappresentanza piuttosto che occasioni di conoscenza condivisa. È una dinamica nota: nelle strutture organizzative più rigide, l’innovazione culturale fatica a essere riconosciuta perché non produce risultati immediatamente misurabili. Eppure, proprio lì si nasconde una delle leve più potenti per costruire il futuro.

Come si fa (davvero) un invito per una call

Nel mondo del project management italiano si può ottenere una certificazione con una manciata di corsi, un po’ di fortuna e qualche aperitivo di networking. Ma la capacità di organizzare una call efficace resta, per molti, una competenza mancante. Eppure si tratta di un gesto semplice, quasi elementare: fissare un incontro, scrivere un invito, dichiarare un obiettivo. Nonostante questo, continuano ad arrivare inviti senza scopo e senza agenda.

Egregio chi?

Le parole che scegliamo dicono molto sul modo in cui pensiamo le persone a cui ci rivolgiamo. La lingua burocratica sopravvive perché rassicura: permette di scrivere senza esporsi, di comunicare senza comunicare davvero. Ma ogni parola svuotata di significato è una piccola rinuncia alla precisione, e quindi alla cura. Recuperare il senso delle parole non significa solo curare la forma: significa prendersi la responsabilità di ciò che si dice. Una lingua precisa non è solo elegante, è anche giusta.

Auto-Tune del pensiero. Apparire o essere?

Nel campo dell’audio professionale esiste un software chiamato Pro Tools, lo stesso ambiente digitale in cui nascono molte produzioni musicali contemporanee. È uno strumento che può servire tanto a modellare una voce quanto a filtrare il rumore, rendendo più chiare le frequenze di un suono. In ambito tecnico, viene impiegato anche per scopi di analisi acustica, come la pulizia e la separazione delle voci in registrazioni ambientali effettuate dalle Forze dell'Ordine. La differenza non sta nel programma, ma nell’intenzione di chi lo usa. Nel primo caso, la macchina serve a rivelare meglio la realtà; nel secondo, a coprirla con un effetto di perfezione. Pro Tools, usato bene, chiarisce ciò che il rumore nasconde. L’Auto-Tune, usato male, cancella ciò che la voce autentica potrebbe dire. È la stessa linea sottile che separa l’intelligenza artificiale come strumento di comprensione da quella usata come trucco cognitivo. Tutto dipende da come si sceglie di ruotare la manopola: verso la verità o verso l’effetto artificiale.

Amicizie impermanenti: anatomia di un legame che cambia

L’amicizia è tra le esperienze più celebrate dell’esistenza umana, eppure tra le più fraintese. La immaginiamo stabile, eterna, immune al tempo e ai mutamenti, ma la realtà racconta un’altra storia: i legami cambiano, si trasformano, si dissolvono e talvolta rinascono. La celebre massima latina — «In rebus secundis multi amici sunt; in adversis veros amicos cognoscimus» — ci ricorda che la prova della verità arriva solo nelle difficoltà. Accettare l’impermanenza dell’amicizia significa liberarci dall’illusione dell’assoluto e imparare a riconoscerne la bellezza fragile e mutevole, in ogni sua forma, senza temere la fine come fallimento ma accogliendola come parte del ciclo vitale.

Il potere degli oggetti: quando la materia diventa memoria

Viviamo circondati da oggetti. Li usiamo ogni giorno senza pensarci: tazze, vestiti, penne, libri. Altri li custodiamo con cura, come se contenessero un pezzo di noi. Alcuni ci sopravvivono e finiscono in un museo; altri spariscono e restano soltanto nei racconti. Ma dietro questa presenza silenziosa si nasconde qualcosa di molto più profondo: gli oggetti non sono semplici strumenti né meri sfondi della vita umana. Sono presenze attive, capaci di trattenere il tempo, condensare significati, raccontare storie e partecipare alla costruzione della memoria collettiva.

Non confondiamo la rapidità del ragionamento con l’intelligenza

L’abitudine a premiare chi risponde in fretta, chi semplifica senza esitazione, ha finito per farci dimenticare che il pensiero autentico è un atto lento, complesso, spesso contraddittorio. Non nasce da riflessi automatici, ma dal coraggio di interrogare le possibilità, di sbagliare strada, di sostare nel dubbio. Questa riflessione — nata tra i banchi di una biblioteca senza Internet e maturata osservando i limiti delle cosiddette intelligenze artificiali — è un invito a restituire alla mente il tempo che le spetta.

Scopo e coscienza: due strade per interrogare il senso dell’universo

A volte sono i libri a ritrovare noi, non il contrario. Sistemando le scatole di uno dei miei tanti traslochi per lavoro, mi sono imbattuto in un volume che non ricordavo nemmeno di possedere. "Lo scopo di tutto" di Stanley Jaki era rimasto sepolto per anni, dimenticato fra carte e scaffali, eppure il suo riemergere oggi mi è sembrato carico di significato. Quelle pagine, dove scienza, filosofia e teologia si intrecciano per interrogare il destino dell’universo, mi hanno spinto a scrivere queste righe, mettendole in dialogo con un’altra lettura recente: un libro di Federico Faggin, diverso per impostazione ma animato dalla stessa, inesauribile domanda di senso.

Il capitale invisibile

Quando pensiamo all’economia, la mente corre subito a immagini concrete: fabbriche brulicanti di operai, catene di montaggio che non si fermano mai, bilanci e merci che cambiano mani. Tutto questo esiste ancora, ma oggi il cuore pulsante della ricchezza si trova altrove, in un luogo meno visibile e più profondo. È la conoscenza. Invisibile come l’aria, eppure indispensabile come l’ossigeno, la conoscenza è ciò che rende possibili le invenzioni, le imprese, le rivoluzioni tecnologiche. Senza di essa, nessun capitale finanziario, nessuna risorsa naturale, nessuna macchina avrebbe valore.

Project Manager Hacker in tempi di scosse

Questo articolo dialoga idealmente con il libro Project Management Emergente, che ho letto e da cui ho tratto molti spunti per ripensare il ruolo del project manager nell’epoca dell’incertezza. Le riflessioni di quel volume, unite alle idee di Ulrich Hermanns sul “quarto shock”, tracciano insieme un nuovo orizzonte per la disciplina.