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“Tutta l’umanità è un solo volume. Quando un uomo muore, il suo capitolo non viene strappato dal libro ma tradotto in una lingua più bella, ed ogni capitolo deve essere tradotto in questo modo. Dio si avvale di diversi traduttori. Alcuni brani vengono tradotti dall'età, altri dalla malattia, alcuni dalla guerra, altri dalla giustizia, ma la mano di Dio raccoglierà di nuovo in volume i nostri fogli sparsi per la biblioteca  in cui ogni libro resterà aperto l’uno per l’altro.”

Tutta l’umanità è un solo volume. Quando un uomo muore, il suo capitolo non viene strappato dal libro ma tradotto in una lingua più bella, ed ogni capitolo deve essere tradotto in questo modo.” - John Donne

 


Nel 2007, lo scrittore americano Jonathan Lethem pubblica sulla rivista Harper’s un saggio intitolato Estasi dell’influenza. Il testo ha dato il titolo alla raccolta di testi di non-fiction pubblicata dall’autore nel 2011. Il saggio parla, in poche parole, del rapporto fra tradizione e innovazione. Lo scrittore, quell’esempio supremo di creatività che, chiuso nel suo studio come Proust nella sua famosa stanza foderata di sughero, evoca con l’aiuto di una penna e di un foglio bianco (o di una macchina da scrivere o di un pc) interi mondi estraendoli dal nulla, sembra l’esempio perfetto di libertà creativa ed espressiva. Eppure, le cose non stanno proprio così.

la nostra condizione è più vicina all’estasi o all’angoscia?

Il saggio di Lethem, svelo subito il trucco che diventa evidente al lettore poco a poco e viene chiarito solo con la “confessione” finale dell'autore, è costruito attraverso un montaggio di citazioni pressoché letterali, salvo qualche adattamento o aggiustamento stilistico, di brani tratti da altri autori. Il titolo stesso è la ripresa, a segno invertito, di un famoso saggio del critico letterario Harold Bloom, intitolato L’angoscia dell’influenza. Bloom sostiene che ogni poeta, quando si accinge a scrivere, si confronta non tanto con il mondo (esterno o interno, oggetti o sentimenti), quanto con gli altri poeti che hanno scritto prima di lui. L’angoscia dell’influenza è quel sentimento specifico che nasce quando, prendendo in mano la penna, vediamo sorgere dal foglio bianco non l’infinita ricchezza di un'invenzione creativa, ma i volti e le parole di coloro che hanno scritto prima di noi e che, con il loro esempio e il loro lavoro, ci hanno fatto venir voglia a nostra volta di scrivere.

Rovesciando di segno il titolo di Bloom, Lethem compie forse una delle mosse che il critico aveva definito nel suo libro: il clinamen, quel movimento per cui confermiamo il gesto dell’autore che ci ha ispirato per poi praticare, arrivati a un certo punto, una specie di deviazione o uno scarto. Come dire, il nostro predecessore ci ha influenzati ma non del tutto. Dopo aver riconosciuto che ci ha aperto una strada e averla percorsa con intenzione, proseguendo il cammino a un certo punto decidiamo di inserire una svolta. Con una specie di movimento di distruzione del predecessore che ne conferma allo stesso tempo il valore, ci troviamo a dire: “quello o quella che ha scritto prima di me ha detto un sacco di cose giuste, ma c’è una cosa che io penso di poter dire meglio”.

Scorrere le infinite foto che non guarderemo mai sul nostro cellulare che sensazione ci dà?

Qual è il clinamen che Lethem introduce? Credo sia proprio il passaggio da una dimensione ansiogena a una estatica cioè l’idea che se fino a un po’ di tempo fa (Bloom scrive nel 1973) il passato, quel gigantesco archivio fatto di cose che altre persone hanno detto, scritto, fatto, incombeva su di noi come una specie di enorme scaffale sempre pronto a caderci sulla testa, ora le cose sembrano essere cambiate. Il passato e l’archivio sembrano essere soprattutto un gigantesco repertorio di dati e informazioni al quale possiamo attingere in modo più o meno libero.

Il testo di Lethem è anche una messa in crisi dell’idea stessa di creatività o almeno dell’idea di creatività che va per la maggiore. Quando nella prima pagina del saggio appare un romanzo in cui un uomo di mezza età va a vivere in una stanza in affitto e si innamora perdutamente della figlia adolescente della proprietaria, per poi rimanere solo e disperato quando lei muore, siamo certi di trovarci di fronte a Lolita di Nabokov, salvo poi scoprire che si tratta della trama di un romanzo scritto dal tedesco Heinz Von Lichberg nel 1916, ovvero quarant’anni prima di Nabokov. Possiamo parlare di plagio? Forse Nabokov aveva semplicemente avuto notizia del libro di Lichberg e se n’era dimenticato, salvo poi ripescare la vicenda da qualche angolo della memoria, dimenticandosi che quel ricordo non era suo, bensì il ricordo di qualcosa che aveva letto.

Questo fenomeno si chiama Criptomnesia, una sorta di ricordo non riconosciuto come tale. Lethem poi prosegue facendo altri esempi, citando ad esempio Bob Dylan. Dylan riempie le sue canzoni di citazioni, prendendo brani della Bibbia, frasi tratte da film, storie provenienti dalla cronaca nera. Da Shakespeare a Fitzgerald, dalle canzoni folk all’immaginario dei cantanti neri. Tutta la carriera di Dylan (come d’altronde quella di Elvis o dei Led Zeppelin) può essere considerata come una ripetizione alterata di elementi presi altrove. Questo rende Dylan (o Elvis o gli Zeppelin) meno originale?

Chiaro che non intendo rispondere a queste domande, e non posso che invitare a leggere il testo di Lethem (anzi il testo “Non di Lethem”), ma mi sembra che questi esempi ci possano portare a riflettere su quello che sta succedendo con ChatGPT e l’intelligenza artificiale. I casi sono molto diversi, ma seconda me non basta questo. Occorre capire in che senso sono diversi.

Io propongo un piccolo scarto (vedete come funziona? salgo sulle spalle di Lethem omaggiandolo, ma appena posso infilo il mio clinamen, come per dire “bravo Jonathan, ma io sono meglio”): quello che cambia è il rapporto con la memoria e l’archivio. Se il caso di Nabokov ha forse a che vedere con una forma di criptomnesia, oggi ci troviamo in uno scenario che potremmo chiamare ipermnesia: una memoria potenziata ed eccessiva, consegnata ovviamente alle macchine.

Il più famoso testo dedicato all’ipermnesia non è un saggio di psicologia o neuroscienze, ma un racconto di J.L Borges, intitolato “Funes el memorioso”. L’inizio è, appunto, memorabile: “Lo ricordo (io non ho diritto di pronunciare questo verbo sacro; un uomo solo, sulla terra, ebbe questo diritto, e quest’uomo è morto)...” L’uomo è Ireneo Funes, condannato dal peso di una specie di memoria assoluta: “Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini di una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d’un libro che aveva visto una sola volta e con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho”. Ovviamente, questo dono è una maledizione, che condanna Funes all’isolamento assoluto, al buio, al tentativo di smettere di percepire per non accrescere l’infinito numero di ricordi che lo affliggono.

L’ipermnesia, in senso sociale e non psicologico, rappresenta lo sfondo delle riflessioni del critico musicale inglese Simon Reynolds che ha dedicato un libro del 2011, Retromania, ad analizzare lo specifico rapporto con il passato della cultura pop. Perché è interessante parlare del pop? Perché, dagli anni sessanta in poi, la cultura pop è stata, per definizione, la cultura del presente. Il criterio di rilevanza di un nuovo cantante o di un nuovo artista coincideva con la capacità di produrre qualcosa di diverso, almeno in parte, da ciò che era stato fatto prima. 

Reynolds parla della nowness del pop, il rapporto tra cultura pop e tempo presente. Si potrebbe tradurre con attualità, con "orità" o "adessità". In poche parole, a lungo il pop è stato inseparabile dalla sua capacità di mettersi in relazione con la propria epoca e di contribuire a definirla. Difficile pensare a un racconto sugli anni sessanta o sui movimenti di protesta in America o sull'edonismo degli anni ottanta senza pensare ai Beatles, a Bob Dylan o, poniamo, ai Duran Duran. Ora, lo strano effetto a cui assistiamo è quello di una cultura pop che sembra fluttuare attraverso il tempo, senza connettersi in modo diretto al senso dell'"Adesso". La nowness del pop, intesa come sua qualità primaria, corre attraverso un tunnel temporale. Essere pop, oggi, vuol dire riprendere il carattere iconico di Madonna (Lady Gaga), suonare come nella New York della fine degli anni settanta (Strokes), riattivare il garage blues (White Stripes), rispolverare il pop di coppia degli anni sessanta (le innumerevoli configurazioni del tipo duo lei-lui, da She & Him a Cat's Eyes). Persino riprendere il testimone di Crosby Stills Nash & Young e della West Coast (Fleet Foxes) o di oscure esplorazioni della tradizione folk (Devendra Banhart o Joanna Newsom). Non si tratta di semplici pastiche da parte di artisti che saltano da un genere all'altro in una sorta di deriva postmoderna che corre attraverso una miriade di temporalità musicali. Abbiamo davanti agli occhi delle fissazioni su determinate epoche passate del pop, piccole nevrosi in forma di canzone. Retromania è in fondo un viaggio in questa strana temporalità a due strati: sempre uno strato passato che appare sotto l'attuale, producendo una percezione sfalsata, leggermente spaesante. Da qui l'idea che mi rimane con più forza, leggendo il libro: che ci sia una sorta di storia sotterranea del pop, fatta di affioramenti e cancellazioni, diversa da quella – più rettilinea – che siamo abituati a sentirci raccontare. 

La Retromania è questo effetto per cui la produzione del nuovo diventa in modo esplicito un prendere posizione rispetto al passato. Solo che, e qui sta il vero interesse della riflessione di Reynolds anche per chi non si occupa di musica pop, il passato che viene evocato in modo retromaniaco non è quello lontano (come Lucio Corsi che si ispira al glam rock degli anni ‘70, per capirci): il tempo della citazione si è assottigliato, fino a farci diventare nostalgici del tempo appena trascorso. Pensiamo, per fare esempi molto diversi, alle pagine social che ricordano con nostalgia gli anni 2000 o gli anni 2010, alla proliferazione di boxset commemorativi in vinile di dischi storici o a una serie di grande successo come Stranger Things, che ricrea degli anni ‘80 ideali (e mai davvero esistiti) o, ancora, agli hipster che citano il grunge. 

La Retromania assomiglia a un’accelerazione di questo fenomeno: una memoria che si contrae sempre di più fino a diventare una specie di ricordo del presente. Non archiviamo una cosa perché è interessante rispetto all’insieme delle cose reputate interessanti del passato, la archiviamo per un motivo ben diverso: semplicemente perché possiamo farlo. L’esempio, fin troppo banale, è quello di chi scatta foto o registra video nel corso di un evento (ad esempio un concerto). Non siamo in contatto con il presente dell’evento, ma con una specie di pulsione mnemonica che ci distanzia da quello che viviamo. Non vogliamo dimenticarci nulla di un’esperienza che, paradossalmente, non stiamo facendo (perché siamo impegnati a registrarla). Cioè, con l’ausilio dei nostri device, creiamo un doppio mnemonico che ci assicura di fissare il ricordo. La Retromania è una specie di effetto Funes, ma è un Funes rovesciato: invece di essere l’uomo che non può dimenticare siamo gli uomini e le donne che hanno paura di dimenticare, quindi ci dotiamo di una memoria artificiale (non dimentichiamo che ogni archiviazione è una protesi, una biblioteca o un libro sono dei dispositivi di storage delle informazioni). 

Inserire un prompt su Chat Gpt per chiedergli, ad esempio, di parlare dei paragoni tra Funes el memorioso e le neuroscienze come ci fa sentire?

Insomma, vorremmo essere Funes, senza l’angoscia della memoria assoluta, ma deleghiamo in questo modo l’esperienza a una protesi digitale che, per così dire, fa esperienza per noi. Questa esperienza delegata a un “altro”, l’archivio, che fa le cose per noi, assomiglia a quella che il filosofo Slavoj Žižek chiama “interpassività”. L’archivio digitale funziona come le ruote da preghiera buddiste che vengono fatte girare perché, in un certo senso, preghino al nostro posto. Che rapporto abbiamo col passato nel momento in cui una macchina è in grado di ricrearlo in modo quasi identico? Ecco allora che il tema dell’archivio, della memoria e del plagio rimanda in modo molto profondo al nostro posto nel mondo. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale ci dovrebbe far riflettere su queste cose: la potenza di calcolo rende Funes un dilettante, ma allo stesso tempo gli effetti sul nostro modo di stare nel mondo e nella cultura rimanda a sentimenti ben noti a chi ha ragionato su queste cose. Propongo quindi qualche domanda: la nostra condizione è più vicina all’estasi o all’angoscia? Scorrere le infinite foto che non guarderemo mai sul nostro cellulare che sensazione ci dà? Inserire un prompt su Chat Gpt per chiedergli, ad esempio, di parlare dei paragoni tra Funes el memorioso e le neuroscienze come ci fa sentire? Domande semplici che ci portano forse a risposte complesse. 

Chiudo su un altro passaggio borgesiano. Nella raccolta Finzioni, la stessa da cui è tratto il racconto su Funes, lo scrittore argentino inserisce quello che forse è il suo testo più vertiginoso: “Pierre Menard, autore del Chisciotte”. Si racconta di un autore francese immaginario, Pierre Menard, che ha scritto un libro che non è altro che la copia identica del capolavoro di Cervantes. Solo che il fatto che la copia identica, il plagio menardiano, venga dopo il “primo” Don Chisciotte, fa sì che, paradossalmente, la copia sia molto più interessante dell’originale: i libri sono identici, ma il secondo è “infinitamente” più ricco, perché si nutre, in modo parassitario, degli effetti che il testo originale ha generato. Scrive Borges: “Menard (forse senza volerlo) ha arricchito mediante una tecnica nuova l’arte incerta e rudimentale della lettura: la tecnica dell’anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee”. Quindi vediamo come la domanda “chi è l’autore di un testo che imita o copia un testo precedente?” sconfini nella metafisica: “Dedicò i suoi scrupoli e le sue veglie a ripetere in un idioma estraneo un libro preesistente”. 

Ed ecco il senso del mio esergo iniziale, che copia quello di Lethem con una variazione. Lo scrittore americano lo prende non da un libro di John Donne, ma dal film 84 Charing Cross Road che aveva visto in passato. John Donne è, tra l’altro, uno dei grandi autori borgesiani. Quindi vediamo cosa succede se ripeto la citazione che ho rubato a Lethem che l’ha rubata a un film che l’ha presa a John Donne (e che forse Borges ha inserito da qualche parte). Mi limito a metterci anche le righe che Lethem non cita e che trovo in rete.

“Tutta l’umanità è un solo volume. Quando un uomo muore, il suo capitolo non viene strappato dal libro ma tradotto in una lingua più bella, ed ogni capitolo deve essere tradotto in questo modo. Dio si avvale di diversi traduttori. Alcuni brani vengono tradotti dall'età, altri dalla malattia, alcuni dalla guerra, altri dalla giustizia, ma la mano di Dio raccoglierà di nuovo in volume i nostri fogli sparsi per la biblioteca  in cui ogni libro resterà aperto l’uno per l’altro.” 

La traduzione è sia la morte che la salvezza dalla morte.


 

Riferimenti bibliografici

  • Lethem, L’estasi dell’influenza. Non-fiction, etc. (2011), Bompiani, Milano 2013.
  • Reynolds, Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato (2011), Minimum Fax, Roma 2022.
  • J.L. Borges, Finzioni (1944), Einaudi, Torino 1985.

 

 

 

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Pubblicato il 05 giugno 2025

Nicola Gaiarin

Nicola Gaiarin / HR & Strategic Development Consultant | nel board di DOF Consulting

nicola.gaiarin@libero.it http://www.dofcounseling.com/team/training-consultant/nicola-gaiarin/