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Il concetto di ikigai, la sua genealogia storica e filosofica, e il suo significato nella contemporaneità. Dall’analisi di Platone, Aristotele, Heidegger e Kamiya fino alla dimensione relazionale con il concetto di aïda, l’articolo esplora come l’ikigai possa ancora orientare la vita in un’epoca segnata dall’individualismo e dal frastuono digitale.

Il termine ikigai si compone di due elementi, iki (“vivere”) e gai (“valore, effetto”), che già nella loro giustapposizione suggeriscono un rapporto fra l’esistenza e ciò che la rende significativa. Non si tratta dunque di un semplice sinonimo di “vita” né di un concetto che indichi un ideale astratto, ma di una parola che allude al legame concreto fra il vivere e il suo valore. Questa specificità si può riconoscere fin dalle prime attestazioni, risalenti al periodo Heian (794–1185), quando la parola ricorre in contesti che descrivono la bellezza di un paesaggio, l’intensità di un incontro, la delicatezza di un gesto quotidiano. In queste occorrenze l’ikigai appare come qualcosa di vicino al piacere sensibile e alla gratitudine per il mondo, ma senza ridursi a un semplice stato emotivo: è un orientamento verso la vita che nasce dall’esperienza concreta e che permette di apprezzarne la continuità. 

Con l’epoca Edo (1603–1868) l’orizzonte si modifica. Il termine comincia a intrecciarsi con valori sociali e comunitari: la lealtà, l’onore, la reputazione, l’appartenenza a un gruppo. L’ikigai non si colloca più soltanto nello spazio interiore della percezione individuale, ma si definisce attraverso ciò che viene riconosciuto all’interno della comunità. Questo passaggio non segna un abbandono della dimensione estetica originaria, bensì un ampliamento: ciò che rende la vita degna non è soltanto la bellezza di un momento, ma anche il suo radicamento in un orizzonte di relazioni. 

Nel Novecento, con Mieko Kamiya, la nozione assume un ulteriore spessore. La sua prospettiva psicologica e clinica introduce la distinzione fra fonti immediate di ikigai — gli interessi, i legami, le attività che sostengono il quotidiano — e un ikigai profondo, più raro e decisivo, che permette di mantenere un senso di continuità anche nelle condizioni di sofferenza estrema, avvicinandosi al pensiero di Viktor Frankl. Qui il termine acquista un carattere esistenziale: non indica più soltanto ciò che è piacevole o ciò che è riconosciuto dagli altri, ma diventa ciò che tiene la vita insieme quando altrimenti rischierebbe di sgretolarsi. Kamiya osserva come questo livello più profondo si leghi spesso alla percezione di essere necessari per qualcuno, di avere un posto nella trama relazionale che unisce le persone [1]. 

Questa genealogia, che unisce il dato estetico, quello sociale e quello esistenziale, permette di comprendere perché l’ikigai non possa essere ridotto a un unico schema definitorio. Proprio per questa ragione, è interessante porlo in dialogo con concetti che appartengono alla tradizione filosofica occidentale, mettendo in luce le somiglianze e le divergenze che emergono. 

In Platone, ad esempio, incontriamo la figura del daimon socratico, una voce interiore che non suggerisce azioni positive ma trattiene dal compiere il male (Apologia, 31c–32d). Il daimon non è un sentimento, né un calcolo, ma un vincolo: si presenta come qualcosa che proviene da altrove e che orienta la condotta. Rispetto a questo, l’ikigai appare più discreto: non comanda, non vieta, ma sostiene. Tuttavia, entrambi mostrano un tratto comune, ovvero che il senso della vita non nasce da una decisione puramente arbitraria, bensì da un orientamento che eccede la pura volontà individuale e che richiede di essere ascoltato piuttosto che imposto [2]. 

Con Aristotele il confronto assume un’altra forma. L’eudaimonia, la vita buona di cui parla l’Etica Nicomachea, non coincide con un piacere transitorio ma con l’attività dell’anima secondo virtù, una fioritura che richiede tempo, coerenza e razionalità (I, 1095a–1097b). Qui il criterio è universale, ancorato a una concezione della natura umana che permette di stabilire cosa significhi vivere bene. L’ikigai, invece, non offre un parametro oggettivo: ciò che costituisce ikigai per una persona non ha valore normativo per un’altra. Questo non significa che le due prospettive siano incompatibili. Entrambe riconoscono che il senso della vita si gioca nella relazione: per Aristotele nella polis, per l’ikigai nella rete quotidiana di legami e responsabilità. Ciò che varia è la pretesa di universalità: Aristotele stabilisce una misura valida per tutti, l’ikigai registra la molteplicità delle forme di vita senza pretendere di gerarchizzarle [3]. 

Il pensiero di Heidegger offre un’altra possibilità di lettura. Quando parla di Bauen Wohnen Denken (“Costruire Abitare Pensare”, 1951) e della Gelassenheit (“Abbandono”, 1955), Heidegger descrive l’esistenza autentica come un modo di abitare che non consiste nel dominio, ma nella cura, nel custodire, nel lasciar essere. Anche l’ikigai può essere interpretato in questa direzione: non come un progetto di realizzazione grandiosa, ma come la capacità di abitare il mondo in modo che la vita continui a risultare degna. L’affinità non sta tanto in un’analogia diretta, quanto nel fatto che entrambi i concetti fanno emergere un orizzonte dell’esistenza in cui l’essenziale non è il controllo, ma la cura [4]. 

A questo punto diventa importante soffermarsi sulla dimensione dell’alterità. Kamiya aveva notato che l’ikigai profondo si lega spesso al sentirsi necessari agli altri: il senso della vita vacilla quando la rete di relazioni si spezza. Questa osservazione può essere messa in dialogo con il concetto di aïda elaborato da Bin Kimura. Aïda significa “tra” e non indica soltanto una distanza spaziale, ma la condizione generativa in cui l’io e l’altro si costituiscono insieme. L’identità non precede la relazione, ma nasce da essa. Se si accoglie questo punto, allora l’ikigai non può più essere interpretato come attributo di un individuo isolato, bensì come un fenomeno che prende forma nello spazio intersoggettivo. Ciò che tiene la vita insieme non è solo una convinzione interiore, ma il riconoscimento che avviene fra sé e gli altri [5]. 

Questo spostamento di prospettiva consente anche di leggere criticamente le appropriazioni contemporanee del termine. Laddove l’ikigai viene trasformato in strumento di auto-ottimizzazione o in ricetta motivazionale, il suo nucleo relazionale scompare e il concetto perde la sua specificità. La filosofia può servire qui come esercizio di cautela: ricordare che l’ikigai non si dà senza una trama di relazioni e senza condizioni materiali che lo rendano possibile. Non basta parlare di motivazioni interiori; bisogna interrogarsi su quali strutture sociali e istituzionali permettano di coltivare realmente un senso della vita. 

 

Conclusione

In questo percorso l’ikigai si è rivelato come una nozione polifonica, capace di attraversare i secoli senza fissarsi in una definizione unica, ma mantenendo una costante: la connessione fra vita e relazione, fra esistenza e senso. Il confronto con Platone, Aristotele, Heidegger e Kimura ha mostrato che in tradizioni diverse torna un medesimo nucleo problematico: la vita diventa degna non quando è posseduta, ma quando è orientata, custodita, condivisa. L’ikigai, infatti, non è riducibile al daimon di Platone, né alla teleologia aristotelica, né alla concezione heideggeriana dell’abitare, tuttavia nel confronto emergono risonanze importanti: in tutti i casi, il senso della vita appare come qualcosa che non si esaurisce nell’individuo isolato, ma che nasce da un orientamento, da una relazione, da un intreccio. È in questo punto che il concetto giapponese mantiene la sua originalità: l’ikigai non ambisce a universalità, non formula una legge, non propone un sistema, ma custodisce ciò che rende la vita, di volta in volta, degna di essere vissuta. È una saggezza che non si manifesta nei gesti eroici, bensì nelle trame quotidiane, là dove l’io si riconosce nel “tra” con l’altro. 

Resta allora da chiedersi cosa significhi questo nella contemporaneità. Viviamo in un tempo in cui la parola “senso” è spesso sostituita da logiche di produttività e di efficienza, e l’ascolto interiore viene sommerso da un flusso continuo di stimoli. La connessione digitale permanente produce una condizione in cui tutto è comunicazione, ma poco rimane esperienza di incontro autentico; la precarietà lavorativa dissolve la continuità che Aristotele riteneva essenziale per la fioritura di una vita; l’isolamento sociale, che pure si consuma spesso in mezzo alla folla o nei circuiti virtuali, corrode quella rete di riconoscimento che per Kamiya era la radice dell’ikigai profondo. 

Se il daimon socratico, l’eudaimonia aristotelica e l’ikigai giapponese rimandano tutti a un orientamento che eccede la volontà individuale, la domanda che ci tocca oggi non è soltanto quale orientamento segua la nostra epoca, ma se siamo ancora capaci di riconoscerlo. In un mondo dominato dall’individualismo e dai solipsismi digitali, dove l’io tende a chiudersi su sé stesso e a misconoscere la trama di relazioni che lo costituisce, come può l’ikigai manifestarsi? Forse la questione decisiva non è creare nuove fonti di senso, ma accorgersi se il frastuono contemporaneo ci consente di udire quelle voci che non urlano, ma che indicano con discrezione ciò che orienta l’esistenza, e se siamo capaci di riconoscerle nella relazione con gli altri, lì dove l’orientamento autentico prende forma. 

 

Note e riferimenti 

[1] Mieko Kamiya, Ikigai ni tsuite, Tokyo, 1966. 
[2] Platone, Apologia di Socrate, 31c–32d. 
[3] Aristotele, Etica Nicomachea, I, 1095a–1097b. 
[4] Martin Heidegger, Bauen Wohnen Denken (1951); Gelassenheit (1955). 
[5] Bin Kimura, Aida no hito (1988) (Tra. Per una fenomenologia dell'incontro -2013-); cfr. studi sulla psichiatria fenomenologica giapponese.

Pubblicato il 10 settembre 2025