Mattino. Colori soffusi, odori intensi, fiori che galleggiano sull’acqua, teli bagnati, pelle scura, occhi neri, sguardi che ti attraversano, maestosi, terribili, eterni: Benares!
Sono seduto su una scalinata di pietra, gradini antichi, consumati dal tempo, levigati da milioni di passaggi. Guardo il Gange, ancora in India, vent’anni dopo.
Non è cambiato nulla. L’India è un ventre profondo che avvolge ogni cosa. Duecento anni di dominazione inglese, cosa è rimasto? Le rotaie dei treni? Certo, ma sopra quelle interminabili sbarre di ferro tutto si muove come sempre, si nasce e si muore, si ama e si soffre in modo completamente diverso dal nostro. Il ventre profondo digerisce tutto, come la foresta. Tutto scompare e tutto rinasce, sempre uguale e sempre diverso. Labirinto, spirale senza fine, rito immutabile ed eterno. I turisti, oggi come ieri, sono un inutile orpello, un piccolo accidente. I barconi scivolano piano, stracolmi di pellegrini, sari colorati si riflettono nell’acqua. Tutto si muove lento tra i vapori delle prime ore del mattino. Gli uomini e le donne continuano le loro abluzioni millenarie, non c’è distinzione di sesso, i corpi s’immergono nelle acque sacre, le mani si levano al cielo: “Ganga Ma ki jai!”.
Sono di passaggio, in viaggio per lavoro. Ho lasciato i miei abiti da manager in hotel. Ho indossato un paio di pantaloni di tela chiara e una maglietta. Basteranno questi semplici indumenti? Basterà questa deviazione di pochi giorni per rivivere la magia di allora?
Dicembre 1980. A Roma ci aspettava Salvatore, un amico comune originario di un paese dell’Irpinia. Ci stringemmo in sei nella sua piccola casa. Mancava una settimana a Natale. Allora l’India era poco più che un sogno: la favola di Mowgli e di Rikki Tikki Tavi nei libri dell’infanzia; Oriente per definizione nell’immaginario di un gruppo di giovani cultori dello yoga. Erano anni di ricerca, la voglia di viaggiare e sperimentare era forte. Ci accompagnava una grande passione e una sorta d’ingenuo candore. La sera prima della partenza ripercorremmo sulla carta l’itinerario del nostro viaggio lungo il Gange – da Benares fino alle sorgenti – e riordinammo il materiale comune. A un certo punto Salvatore, che non poteva partire con noi, cambiò argomento e ci raccontò del terremoto. Non era passato ancora un mese e quella terribile scossa se la portava ancora dentro.
Il giorno seguente una Nuova Delhi brulicante di vita, immersa nel suo traffico febbrile, accolse i nostri sguardi stupiti. Non accadde nulla di particolare durante i primi giorni. Avevamo l’ambizione di incontrare l’India nella sua dimensione quotidiana, evitando i luoghi frequentati dal turismo e i facili esotismi. Ma l’India non riservava per noi nulla di “quotidiano” e già la visita a Old Delhi ci sconvolse. Decidemmo allora di rompere gli indugi e partimmo per Benares. La città santa sul Gange, meta dei pellegrinaggi di milioni di induisti, il luogo dove si celebra il rito di passaggio tra la vita e la morte, non ammette compromessi, è India profonda. E là, in quel luogo senza tempo, il nostro viaggio iniziò a mutare. Io abbandonai presto la macchina fotografica, vissuta colpevolmente come inutile orpello, e presi a girare con lapis e taccuino alla maniera dei vecchi viaggiatori. Cominciammo anche a dividerci: Luigi, il più vecchio del gruppo, restava spesso in albergo perché aveva bisogno di tempo per pensare; Ermanno, che pure a casa era un solitario, aveva ripreso le sue abitudini, così sempre più spesso mi ritrovavo in compagnia di Sofia e Giuseppe. Sulla carta erano una coppia ma, forse per le stranezze di quegli anni, non volevano darlo a vedere. Giuseppe, alto, magro, con una folta barba, era un asceta. Calmo, silenzioso, riflessivo, incurante del cibo e del sonno. Sofia, piccola, esile, curiosa, aveva un’energia inesauribile e una disponibilità disarmante verso gli altri. Insieme amavamo perderci nei vicoli più nascosti di Benares, fare incontri casuali, attingere a un caleidoscopio di vite che rendeva vano ogni tentativo di ricomposizione. Passarono così, in quell’atmosfera insieme magica e terribile, dieci giorni. Partimmo quindi alla volta di Rishikesh.
Ci attendevano due giorni e due notti in treno. Ancora non sapevamo che il viaggio in India è esodo, migrazione. Nelle stazioni gremite di folla l’assalto ai treni è una pagina da cinegiornale d’altri tempi. È impossibile evitare il contatto fisico, isolarsi, bisogna immergersi nella marea umana, lasciarsi trasportare. All’inizio lo sbandamento è lieve, ma col tempo il povero “Io” occidentale vacilla, incapace di ritrovare il suo centro. Il richiamo è potente, ancestrale, la massa indistinta attira la sua preda e l’individuo, piano piano, si dissolve. In nessun luogo come in India l’uno è il tutto e il tutto è l’uno. Risalendo verso le montagne il Gange abbandona la carnalità viscerale di Benares, la luce si fa strada, l’acqua disegna bellissime anse color verde bottiglia, l’aria è pulita. Rishikesh, per i viaggiatori cresciuti tra le pagine di Siddharta e de I vagabondi del Dharma è tra i luoghi più amati; antico centro spirituale, accoglie monasteri, scuole di yoga e Sadhu che vagano per le strade. Il pellegrinaggio dei Beatles, nel 1968, all’aschram di Maharishi Mahesh Yogy, consacrò questo luogo nell’immaginario di una generazione alla ricerca di una nuova spiritualità, e la “meditazione trascendentale” sembrava la risposta. Poco importa che la cronaca di quel viaggio narri particolari tutt’altro che edificanti, i miti sopravvivono incuranti dei fatti. Il periodo che trascorremmo a Rishikesh fu il più tranquillo e sereno del nostro viaggio. Alloggiavamo in un piccolo resort vicino al fiume. Durante il giorno facevamo lunghe passeggiate con soste improvvisate negli ashram ma anche nelle case, incontrando gente curiosa e ospitale, mischiando spiritualità e vita domestica. Ci raccontarono che tra gli eremiti che vivevano sulle montagne c’erano anche degli occidentali. Appartenevano a una “avanguardia spirituale”, disposta alle scelte più radicali, arrivata sul finire degli anni Sessanta. Alcuni di loro, passato un certo periodo, ripresero la vita normale, qualcuno pare fosse impazzito, di altri col tempo si persero le tracce, come testimoniavano le foto ingiallite spedite dai parenti appese ai muri dei diversi consolati. Prima di partire andammo a trovare una donna tedesca che viveva da molti anni in una grotta sulle colline, Sofia si diede molto da fare per organizzare quell’incontro. Di quella visita ricordo il suo sguardo, due occhi chiarissimi persi nel nulla, e la grata di protezione all’ingresso della grotta: “perché di notte passano le tigri.”
L’acqua del Gange scorre lenta e inesorabile. Nel flusso della corrente si formano con regolarità piccoli gorghi. Il respiro del fiume è calmo, ipnotico, assorbe i miei pensieri. Uno sciame di voci mi distoglie dal flusso dei ricordi. È una famiglia che sfila al mio fianco, sopra le loro teste intravedo una barella di tela. Laggiù, in riva al fiume, sembra tutto pronto. Sono benestanti, hanno legna a sufficienza per non lasciare i poveri resti in pasto ai coccodrilli. La pira di legno viene accesa, m’incanto ad ammirare le fiamme, ma ai primi sbuffi di fumo il mio sguardo torna all’antico viaggio: un vecchio bus sgangherato si arrampica a fatica sulle rampe scavate nel fianco della montagna. Centinaia di metri più in basso scorre il fiume. La vecchia corriera si sporge paurosamente nel vuoto a ogni tornante, di tanto in tanto s’intravede, giù in fondo, la carcassa di un mezzo meccanico: “ci vuole fede per salire la montagna.”
In India la fisiologia umana, quella spirituale e del territorio si compenetrano, si confondono. Coerenti a questa visione risalivamo il fiume, come lungo il cammino dei chakra, verso forme sempre più sottili di energia, e ci apprestavamo all’ultimo balzo. In inverno nessuna delle tre sacre sorgenti è raggiungibile, ma noi decidemmo di spingerci comunque fino a Joshimat perché là avremmo potuto ammirare il Nanda Devi, la montagna sacra da cui nasce il Gange. Partimmo da Rishikesh alle primissime luci dell’alba con un autobus carico all’inverosimile. Gli abitanti dei villaggi sulle montagne risalgono alle loro case trasportando ogni ben di dio: caprette, anatre e galline. Durante le soste uno di noi a turno doveva salire sul tetto per controllare che gli zaini non sparissero. Molti degli indiani che intraprendono questi viaggi non sono abituati ai mezzi meccanici e quasi tutti stanno male. Ma non fanno tante storie, aprono il finestrino, quando ci riescono, e liberano lo stomaco, poi con la manica della giacca si puliscono la bocca e tornano a parlare col vicino. A sera, quando il sole era ormai tramontato e il nostro bus percorreva gli ultimi chilometri, tirai fuori dallo zaino una pila frontale e, dopo averla indossata, cominciai ad armeggiare tra le mie cose. Per me si trattava di un gesto naturale, ma un attimo dopo mi trovai circondato dagli ultimi passeggeri di quel viaggio che mi osservavano estasiati come se avessero visto un extraterrestre. Ciascuno di loro pretese di indossare a turno la magica lampada, per esplorare, tra le urla festanti dei compagni, gli angoli più riposti di quella sgangherata corriera. Intanto, a ogni curva, un liquido innominabile scorreva tra i nostri piedi.
Joshimat, piccolo avamposto umano d’alta montagna, era allora poco frequentato dal turismo. In inverno non c’erano neppure i pellegrini diretti a Badrinath. Trovammo a fatica alloggio in una casa. La notte faceva freddissimo. Dormivamo vicini, avvolti da coperte di lana simili a tappeti, più ruvide di sacchi di juta. Nei giorni che seguirono utilizzammo ogni mezzo disponibile per spingerci in alto ad ammirare il Nanda Devi e le altre cime del Garwal, belle e inaccessibili nel blu perfetto del cielo invernale. Durante uno di questi tragitti conoscemmo Amal, un giovane intraprendente che aspirava alla professione di guida. Ci propose una gita, in una zona remota e poco battuta, per incontrare i “Baba”, saggi eremiti che vivono in grotte isolate sulle montagne. Si trattava di un’escursione molto impegnativa che avrebbe richiesto un paio di giorni di preparazione. Amal non mentiva. Ermanno e Luigi, che decisero di declinare l’invito, si risparmiarono cinque ore di buche in auto, più altrettante ore di sentiero.
Raggiungemmo le grotte dei Baba all’imbrunire. Un segnale luminoso fu la prima cosa che scorgemmo uscendo dal fitto della vegetazione: un uomo, avvolto in una pesante coperta di lana, ci attendeva ai bordi di una radura dondolando stancamente una lampada a petrolio. Non disse nulla, si limitò a indicarci la direzione con un cenno del capo. Lo seguimmo facendoci strada tra ciuffi d’erba alta spazzati dal vento. Sul lato opposto, alle pendici di un versante più ripido, s’intravedeva il bagliore dei fuochi. Giunti in prossimità delle grotte ci arrampicammo su un ripido sentiero che conduceva direttamente verso un ingresso: uno stretto tunnel scavato nella roccia nel quale bisognava procedere piegati per non battere la testa. Una volta all’interno la nostra guida ci fece sedere su un vecchio tappeto posto al centro della sala. Finalmente rilassato cominciai a guardarmi attorno e solo gli sguardi, prima esterrefatti poi ammiccanti, di Sofia e Giovanni mi convinsero di non essere vittima di allucinazioni: la volta della grotta brulicava di migliaia di scarafaggi che inspiegabilmente non scendevano mai a terra. Ma non ci fu tempo per la meraviglia perché un attimo dopo da un ambiente adiacente entrarono tre persone che si sedettero di fronte a noi. Amal scambiò qualche parola sottovoce con uno di loro. Quello che a giudicare dall’atteggiamento sembrava essere il loro capo si sedette al centro. Era un uomo decisamente alto per essere un indiano, con una folta barba e lunghi capelli raccolti in una sorta di turbante. I suoi gesti erano lenti, misurati, composti. Il suo sguardo, per quanto intenso e rilassato, non si lasciava mai andare a un vero sorriso. Impossibile attribuirgli un’età. Venne servito del tè che bevemmo avidamente per la sete e la stanchezza accumulata. La conversazione si avviò molto lentamente. Solo l’uomo al centro prese la parola. Ci chiese del nostro viaggio e della nostra provenienza. Volle conoscere le nostre impressioni su Rishikesh e Benares. Parlammo poi del Sole, della Luna e del Grande Fiume. Ci sembrò una persona di buona cultura che in un periodo della sua vita aveva sicuramente viaggiato. Ma nessuno di noi avrebbe potuto immaginare la domanda che ci rivolse sul finire di quell’incontro: “Ho saputo di un terremoto recente nel sud Italia, è vero?” E noi con una certa meraviglia confermammo la notizia.
Il sole ormai alto tinge le scalinate dei Ghat di una luce dorata. Non ricordo da quanto tempo sono fermo seduto a gambe incrociate su questo gradino di pietra. Qualcuno forse penserà a me come a uno dei tanti sciocchi occidentali in cerca di qualche misteriosa fonte di conoscenza. Potrebbe avere ragione, in fondo anch’io cosa sto cercando? Devo andare. Domani ho un aereo per Singapore, e poi credo che sia bene non illudersi, il sapore del viaggio non è più quello di allora.
Quella notte, quando uscimmo dalla grotta dei Baba, era spuntata la luna. Disegnava un orlo di luce azzurrina sulle nevi perenni del Garwal. Il resto del cielo era un mare di stelle. Non so cosa videro i miei compagni ma io, complici la stanchezza e lo spaesamento, trattenni a stento le lacrime per lo stupore e pensai a Ciàula, il protagonista della novella di Pirandello, che uscito fuori dalla miniera scopre la luna. Molte volte mi sono chiesto in che modo arrivò fino a lassù, in quel luogo remoto e fuori dal tempo, la notizia del terremoto in Irpinia che datava non più di due mesi. Ma nessuno di noi formulò allora quella domanda, nessuno volle infrangere quel piccolo mistero. Ci incamminammo veloci in discesa, seguendo il sentiero che s’immergeva nel fitto della foresta. Tutto si dissolse nel silenzio dei nostri passi, nel buio profondo e immobile di quella notte lontana, nel cuore dell’India magica e millenaria.