Il termine intelligence indica l’insieme delle attività finalizzate alla raccolta, analisi e interpretazione di informazioni rilevanti per prendere decisioni strategiche. L’aggettivo “offensiva” cambia la prospettiva: non si tratta di proteggere ciò che si possiede (intelligence difensiva), ma di ottenere in anticipo ciò che serve, per agire prima degli altri. È un approccio proattivo, nato in ambito militare per preparare operazioni e neutralizzare minacce, ma che oggi trova applicazioni in contesti civili e aziendali.
L’intelligence offensiva non è spionaggio illegale né intrusione nei sistemi altrui: lavora, nella sua forma lecita, su informazioni accessibili — anche se non immediatamente visibili — usando tecniche, strumenti e capacità di collegare fonti diverse. La differenza con una semplice ricerca sta nel metodo: definizione chiara degli obiettivi, uso di fonti diversificate, verifica incrociata, contestualizzazione dei dati.
In un’azienda può significare anticipare le mosse della concorrenza o valutare un potenziale partner prima di un accordo. Nel giornalismo investigativo, serve per verificare fatti e individuare prove documentali. Nel settore legale e antifrode, per scoprire asset nascosti o ricostruire schemi complessi di transazioni.
La traiettoria professionale di Philippe Dylewski spiega molto del taglio pratico del libro. Laureato in psicologia clinica a Lovanio, lavora nel settore sociale e poi nel recruiting, arrivando a dirigere un’azienda con tre sedi e venti dipendenti. Dopo quindici anni cambia vita, intraprende la formazione per diventare detective privato e nel 2009 pubblica Confessions d’un privé, un manuale operativo sulle tecniche investigative. Seguiranno titoli di satira e narrativa, fino alla creazione, durante la pandemia, della rete internazionale stillmissing.eu per la ricerca di persone scomparse. Il manuale attuale è la rielaborazione e l’aggiornamento di quel primo lavoro, affinato da anni di esperienza sul campo.
Dylewski smonta il fascino romanzesco dell’intelligence, riducendolo a ciò che serve davvero: metodo e disciplina. Google Hacking, analisi forense di immagini, verifica di identità digitali, navigazione mirata nella dark web: sono strumenti potenti, ma l’elemento decisivo resta il fattore umano. Un buon analista non accumula dati: li filtra, li ordina, li interpreta, riducendo il rumore di fondo fino a far emergere un quadro chiaro.
Ecco il vero valore dell’intelligence offensiva: trasformare ciò che è potenzialmente conoscibile in conoscenza utile. La tecnologia è solo un mezzo; l’abilità sta nel sapere dove guardare, cosa ignorare e come collegare i punti.
Quando servivo in Aeronautica Militare, l’accesso a certe informazioni era sempre legato a un principio semplice: sapere cosa cercare, prima ancora di sapere dove cercarlo. Molti pensano che l’intelligence sia un esercizio di forza tecnologica; in realtà, gran parte del lavoro si fa con strumenti accessibili a tutti, se si ha il metodo giusto. Alcune tecniche che ricordo, adattate a contesti civili e pienamente legali, restano ancora oggi attuali:
- Analisi di fonti aperte (OSINT): saper individuare nei siti ufficiali, nei bollettini e nelle pubblicazioni pubbliche le informazioni rilevanti, anche quando sono sepolte in allegati o note a piè di pagina.
- Verifica incrociata di dati: confrontare versioni diverse della stessa informazione per rilevare discrepanze, variazioni o omissioni strategiche.
- Raccolta contestuale di immagini: non solo osservare la foto, ma analizzarne il contesto, i dettagli di sfondo, gli oggetti presenti, i segni ambientali.
- Ricerca mirata in archivi digitali: usare motori di ricerca interni a biblioteche, registri o enti pubblici per trovare documenti che non compaiono su Google.
Queste pratiche, apprese in un contesto militare, si sono rivelate utili anche fuori dall’uniforme. La tecnologia è cambiata, ma la logica resta identica: più della quantità di dati, conta la capacità di interpretarli e collegarli.