Dall’industria cinematografica americana ai paradigmi coloniali britannici, fino al nazionalismo teologico israeliano, si è imposto un modello identitario basato sull’affermazione, sulla linearità narrativa, sulla legittimazione della forza. Ogni devianza viene presentata come errore da correggere, ogni contraddizione come minaccia da disinnescare. E ogni visione alternativa — mediterranea, asiatica, africana — come segno di arretratezza o debolezza morale.
Ma il Mediterraneo conosce un’altra grammatica. Qui l’identità è storicamente porosa, instabile, multipla. Non si costruisce attraverso la conquista, ma attraverso la sovrapposizione. Non attraverso la coerenza, ma attraverso la capacità di sostenere tensioni irrisolte.
I lavori di Vera Michlin‑Shapir (Fluid Russia) e Pal Kolstø (Strategic Uses of Nationalism) confermano che l’identità non è una moneta da spendere sul mercato globale della riconoscibilità, ma un processo aperto, una relazione sempre rinegoziata con ciò che ci precede e ci attraversa.
Rivendicare questa complessità — da italiani, da europei mediterranei — non è un gesto nostalgico. È un atto critico. E forse, in tempi di uniformazione aggressiva, è anche un gesto politico.
In Occidente, e in particolare nell’Europa che ha rinunciato a pensare se stessa, l’identità è stata colonizzata da una narrazione. Non da un sistema teorico, ma da una serie di immagini, modelli, trame reiterate che hanno preso il posto della riflessione. L’industria culturale angloamericana — dal cinema hollywoodiano alla manualistica motivazionale — ha esportato una visione dell’“io” come conquista, come affermazione, come sintesi coerente.
L’identità, in questa prospettiva, è una linea ascendente: si “diventa sé stessi” attraverso scelte nette, coerenza narrativa, superamento degli ostacoli. Ogni contraddizione va risolta. Ogni rottura va trasformata in progresso. Persino il dolore diventa funzionale: serve a rafforzare la trama del protagonista.
Ma le cose non stanno così. Almeno, non in Europa. Non per chi è cresciuto dentro una storia segnata da fratture, da stratificazioni culturali, da memorie che non si ricompongono in una narrazione lineare. In realtà, ciò che più interroga oggi le coscienze europee è proprio il contrario: la percezione di un’identità discontinua, molteplice, instabile. Non perché indebolita, ma perché attraversata.
L'identità — individuale e collettiva — non è un dato, né una meta. È una forma mobile, una negoziazione continua
L’identità — individuale e collettiva — non è un dato, né una meta. È una forma mobile, una negoziazione continua tra eredità e possibilità, tra memoria e scelta. È, per riprendere le parole di Vera Michlin‑Shapir nel suo Fluid Russia (Cornell University Press, 2021), una “forma che muta” tra spinte globali e resistenze locali, tra linguaggi imposti e idiomi interiori. Nel contesto post-sovietico, come in molte altre realtà contemporanee, ciò che siamo non si misura in base alla nostra coerenza, ma nella capacità di attraversare cambiamenti, contraddizioni e fratture senza perdere il senso di continuità con noi stessi.
Il mito della coerenza personale, tanto caro alla cultura angloamericana, si rivela allora per quello che è: un dispositivo semplificante, una finzione pedagogica. E spesso, una trappola. Ogni deviazione viene letta come debolezza, ogni contraddizione come difetto di carattere. Si dimentica così che le identità profonde si costruiscono per incrinature, per ritorni imprevisti, per lenti disassamenti.
Il sociologo norvegese Pal Kolstø, nel suo "Strategic Uses of Nationalism and Ethnic Conflict" (2005), mostra come le appartenenze collettive si plasmino in modo strategico, adattandosi al contesto storico, agli interessi in gioco, alle pressioni esterne. Non esiste un’identità pura, né un’origine incontaminata. Esistono narrative costruite, manipolabili, reversibili.
Applicata al soggetto europeo, questa lettura obbliga a ripensare le categorie. L’identità non è fedeltà a un’immagine, ma apertura a una pluralità non riducibile. Non è fissità, ma forma in divenire. Non è coerenza, ma consapevolezza delle proprie contraddizioni.
Nel pensiero europeo classico — da Eraclito a Montaigne, da Pascal a Simone Weil — l’unità dell’io non è mai stata una premessa, ma semmai un problema. La soggettività non è fondata sull’identificazione, ma sull’esercizio. Si è “sé stessi” solo nella misura in cui si attraversa la propria instabilità con attenzione, senza negarla né sublimarla.
L’egemonia culturale angloamericana ha imposto un modello di soggettività semplificata, che funziona bene nei mercati della comunicazione ma mal si adatta alla profondità dell’esperienza europea. I linguaggi del self-help, della leadership personale, della resilienza trasformano il mutamento in strumento di prestazione, e privano il cambiamento della sua dimensione ontologica.
Ma cambiare non significa migliorare. Cambiare, spesso, significa semplicemente sopravvivere. O ancora più radicalmente: esistere.
Contro la semplificazione narrativa, è urgente riaprire uno spazio di pensabilità per le forme complesse dell’identità. Per la mutevolezza senza spettacolo. Per la contraddizione non come errore, ma come esercizio. Per una soggettività che non ha bisogno di essere raccontata come una scalata, ma può permettersi di essere sosta, deviazione, pausa, ritorno.
Per questo, oggi più che mai, occorre una pedagogia della transizione. Un’educazione alla forma che muta. Un’attenzione nuova a ciò che cambia in noi senza essere scelto, e che forse ci avvicina a ciò che siamo, proprio mentre sembra allontanarci da ciò che eravamo.
L’identità non è qualcosa da trovare. È qualcosa da attraversare.
Non esiste un nucleo originario da ritrovare sotto gli strati dell’esperienza, come se la verità di sé fosse un oggetto sepolto. L’identità non è un punto stabile da raggiungere, ma una condizione che cambia nel tempo. Si forma nel contatto con gli altri, si modifica con le scelte, si incrina, si ricompone. Attraversare l’identità significa riconoscere che ciò che siamo non è già dato, ma si definisce strada facendo — nel modo in cui reagiamo, ricordiamo, ci contraddiciamo. Significa accettare che l’unità personale non consiste nella coerenza, ma nella capacità di sostare dentro la propria trasformazione senza respingerla né forzarla.