Ci sono libri che non entrano nel dibattito: lo attraversano senza volerlo, illuminando il punto esatto in cui una teoria smette di essere astratta e diventa una vita.
As Nature Made Him appartiene a questa categoria. Non spiega il genere, non lo dimostra e non lo confuta. Mostra, con una chiarezza che non concede scampo, che cosa accade quando le idee degli adulti si impongono sul corpo di chi non può ancora dire “io”.
Il libro di Colapinto andrebbe letto a partire da qui: non dal dibattito sul genere, ma dalla storia di un bambino che non ha avuto il tempo di diventare un soggetto.
È il racconto di ciò che accade quando un “io” non può ancora apparire e, proprio per questo, diventa il luogo in cui le decisioni degli adulti si depositano senza resistenza. È una condizione molto più ampia del caso Reimer: riguarda tutti i bambini e tutte le persone che attraversano momenti di dipendenza assoluta.
La fragilità del non-ancora-io non è un fatto biologico, ma una questione etica che coinvolge genitori, medici, istituzioni, comunità intere. Nei primi anni di vita ogni scelta avviene al posto del bambino, e questo è inevitabile. Ma quando le scelte diventano irreversibili, un intervento chirurgico non necessario, un rito che segna il corpo, un’identità decisa troppo presto, una norma culturale sovrapposta prima ancora di poter essere capita, la dipendenza naturale si trasforma in potere.
L’assenza di voce non è vuoto: è uno spazio che altri possono occupare. Il caso Reimer è l’esempio estremo di questa occupazione. Non c’è crudeltà, solo la convinzione di sapere cosa sia giusto, la fiducia cieca nell’autorità medica, il desiderio di rimediare a un errore commesso. Ed è proprio qui che nasce l’errore più profondo.
Le scelte prese “per il bene del bambino” spesso cancellano il bambino. Gli adulti non decidono mai in un vuoto neutrale: decidono dentro le proprie paure, dentro le proprie tradizioni, dentro ciò che credono naturale o evidente. E chi non può dire “io” diventa la superficie su cui queste certezze si imprimono.
Il rischio non è la malafede; è la sicurezza. La sicurezza di sapere, la sicurezza di essere nel giusto, la sicurezza di poter prevedere la vita dell’altro. Eppure qualcuno deve parlare in vece del bambino, e questa parte non si può evitare.
Quello che si può fare, e che raramente facciamo, è assumersi una responsabilità diversa.
Parlare per il bambino non significa parlare al posto di.
Proteggerlo non significa determinarlo.
Educare non significa anticipare la sua identità, ma mantenergli aperto il futuro.
Ogni decisione irreversibile presa troppo presto sottrae possibilità. Ogni imprinting identitario imposto diventa una violenza silenziosa, che incide senza ferire, perché chi la subisce non può contestarla.
La fragilità di chi non può ancora dire “io” è una richiesta: chiede agli adulti di rallentare, di sospendere le proprie certezze, di distinguere ciò che è necessario da ciò che appartiene alle nostre paure, alle nostre abitudini, alle nostre teorie. Chiede che il corpo del bambino non venga trattato come un supporto per le convinzioni degli altri. Chiede che il suo futuro non sia scritto prima della sua voce.
Una persona nasce due volte: biologicamente, quando arriva al mondo; simbolicamente, quando può finalmente dire “io”. Il nostro compito è custodire il tempo che separa queste due nascite. La fragilità di chi non può ancora parlare è un test morale per gli adulti. Misura quanto sappiamo trattenere la nostra forza, limitare il nostro potere, rispettare la possibilità futura dell’altro. Non si tratta di parlare al posto del bambino, ma di preparare il terreno perché un giorno possa parlare da sé.