Go down

Provate a pensarci, viviamo tempi di grandi e profonde trasformazioni, ci raccontiamo di essere protagonisti del loro accadere, ma in realtà, come esseri umani, ci siamo arenati, corriamo sempre di più, ma siamo fermi, anzi stiamo regredendo, andando all’indietro, siamo diventati i protagonisti della nostra stessa potenziale e possibile (auto)distruzione.


La regressione è (un ritorno) verso uno stato di minorità che pensavamo di avere superato per diventare maggiorenni (filosoficamente parlando l’uscita dal Medioevo e l’ingresso nella tanto decantata modernità). Uno stato che è destinato a diventare il nostro modo di essere, una forma di prigionia (servitù) volontaria, come poteva essere quella dei prigionieri della caverna di Platone, che non vollero credere al compagno di prigionia (il filosofo) coraggioso uscito a rischiararsi (illuminarsi) alla luce del giorno per poi rientrare e dire loro che la realtà non era quella proiettata sul fondo della caverna. 

In un periodo nel quale molti si cimentano in peana e celebrazioni varie della potenza delle Intelligenze Artificiali e del ruolo assunto dalla tecnolog-IA nel determinare trasformazioni (sorti) progressive e sviluppo, pochi comprendono, anche cognitivamente, di essere in trappola, sempre più prigionieri, come esseri umani, di nuove caverne (nei miei libri le ho chiamate acquari-mondo) in forma di piattaforme. Ci ritroviamo bloccati in girelli per bambini, scelti da altri che si credono adulti, girelli che ci impediscono di fare delle scelte, di camminare da soli. Siamo diventati, anche per colpa nostra, tanti “criceti” dentro una ruota manovrata da altri, ci muoviamo, o almeno crediamo di farlo, in realtà “la ruota è ferma al suo posto, e l'azione si riduce a un moto perpetuo dentro la gabbia” (Martino Pirella). 

Il nostro essere fermi si rileva dai nostri comportamenti e atteggiamenti, in particolare dalla postura intellettuale del nostro pensare, specchio parlante di quanto ci siamo allontanati dalla realtà e da noi stessi (il nostro Sé). 

Abbiamo stabilito la nostra residenza in metaversi e mondi online (mi rifiuto di usare il termine mistificatorio di onlife), che ci riempiono di gratificazioni e di soluzioni sempre a portata di mano, ma ci rendono difficile o ci impediscono l’autonomia necessaria a esercitare liberamente, con l’ausilio della nostra ragione intellettiva, un concreto e personale esercizio delle nostre capacità conoscitive (non di informazioni abbiamo bisogno, ma di conoscenze e di nuova conoscenza). 

La postura intellettuale e comportamentale che accomuna molti è il risultato negativo di anni di pratiche digitali che hanno visto aumentare la dipendenza (anche cognitiva) dell’uomo dalle piattaforme e dalle macchine, oggi dalle IA, ma anche dalle tecnocrazie e dai tecnocrati che, grazie alla tecnologia, hanno preso il potere. 

È come se molti avessero rinunciato a immaginare mondi e modi di vita diversi, all’agire nella complessità, a fare quelle scelte e a prendere quelle decisioni che sempre all’agire soggiacciono. La rinuncia all’agire va di pari passo con la perdita del controllo e la pratica della delega diffusa, con l’accettazione passiva di regole e limiti imposti da altri (“codici stranieri”), con il ricorso costante a soluzioni fornite da entità terze (oggi le IA generative a cui tutti pregando si rivolgono), con la fuga da una sacrosanta e necessaria razionalità, per abbracciare pratiche sacrificali (come altro chiamare l’autolesionismo di molti nelle loro interazioni digitali?) e irrazionali. 

La rinuncia all’agire è diventata pratica condivisa e diffusa, in una realtà dominata dalla vanitosa e inutile pretesa soggettiva, e anche individualista (egoista), di sapere cosa la realtà sia, dimenticando che sempre la realtà è una co-produzione “che plasma i soggetti che contiene” (Benasayag). 

È il soggetto che dipende dalla realtà e non viceversa, così come è la vita che plasma la nostra coscienza e non viceversa. Affascinati e affabulati come siamo da macchine totalizzanti e fagocitatrici, sempre connesse e funzionanti, mai ferme, percepite come perfette ed efficienti, ci affidiamo alle loro funzionalità, norme, regole, algoritmi colonizzatori e paradigmi ideologici (disruption, progresso, ecc.). Fingiamo di non sapere che la crisi che stiamo vivendo ci sta mettendo alla prova, su aspetti della realtà tipicamente umani, che comportano il fare i conti con l’imprevedibile, l’indeterminato e il possibile, con l’instabilità e la precarietà, con l’eterogeneo e il diverso, con la complessità, con l’angoscia esistenziale che mette in causa i nostri modi di esistere e di resistere, con i rapporti di potere-sapere in vigore, con il senso di impotenza che deriva dalla percezione dell’impossibilità, forse sbagliata, di cambiarli. 

Il non sapere, l’ignorare, il non comprendere la realtà ci illude di poterla dominare con la nostra soggettività e unicità (la trappola della personalizzazione e altri paradossi). Come pensare diversamente quando siamo immersi in un surplus informativo e in una propaganda tecno-ideologica che ci ha convinti che la nostra individualità e soggettività si manifestino con la ripetizione degli stessi gesti e desiderando gli stessi oggetti (prodotti), così come fanno moltitudini massificate di altri individui e soggetti? 

L’illusione più grande sta nel ritenere che siamo noi a decidere di prendere in mano un dispositivo quando è lui stesso che ci convoca, ci imprigiona dentro il suo schermo, senza che noi si sia capaci di reagire (agire diversamente) a un “riflesso condizionato socialmente acquisito” e di comprendere che il controllo subìto è in realtà diventato anche una forma perniciosa di auto-controllo. 

L’autocontrollo si manifesta oggi nella rinuncia a pensare, a esercitare il pensiero in forma libera, autonoma, riflessiva, critica e resistente, indipendente.  Delegando il pensare ad altri, siano essi IA, influencer e tecnocrati vari, si è rinunciato a camminare da soli, a pensare con la propria testa. È come se comunicassimo agli altri: di non avere più una testa (ben fatta) capace di pensare; la nostra incapacità a farla maturare attraverso la testa e il patrimonio di conoscenze acquisite degli altri; la rinuncia al pensare come carattere innovativo e non solamente riproduttivo (copia e incolla, oggi con il pieno sostegno delle IA). 

“Il sapere molte cose [polymathia], non insegna ad avere intelligenza” (Eraclito 

La delega, frutto di servile complicità, molta pigrizia e altrettanta viltà (dei pensieri, a cui si accompagna l’ignavia dei costumi), non ha solo conseguenze intellettuali (si smette di apprendere ad apprendere, a pensare, a filosofare), ma anche morali, ci mette nella condizione di non maturare il nostro intelletto attraverso il vissuto e le nostre esperienze, di esercitare la nostra libertà di scelta, mette in crisi la nostra capacità di giudizio e decisionale.

La nostra testa è così piena di pensieri, indotti, già (pre)definiti, pensati e serviti per essere fatti propri e consumati, dal non (riuscire a) fare nulla per creare le premesse utili a pensare pensieri propri, con la propria testa. Privati di queste capacità razionali e morali, finiamo per (af)fidarci a guide esterne percepite come le uniche a saperci portare a destinazione, a realizzare i nostri obiettivi, a soddisfare i nostri bisogni e ad alimentare i nostri desideri. 

Mai come oggi, nella tecno-realtà attuale, fatta di crisi e di possibilità, tutti dovremmo riscoprire la locuzione latina del “sapere aude” (osa sapere, abbi il coraggio di conoscere), resa celebre da Kant con il suo breve testo scritto nel 1974 e diventato (forse a torto) l’emblema dell’Illuminismo. Una parola, Illuminismo che, se inteso letteralmente nella sua terminologia tedesca, Aufklärung, invita tutti a passare dalle tenebre alla luce, attraverso il processo di rischiarare, assumendosi la responsabilità di mettere in chiaro, di illuminare anche ciò che è oscuro, di andare alla ricerca della verità (episteme) senza fermarsi alle opinioni (la doxa dei greci), per cercare e trovare una via di uscita. 

Per praticare il sapere aude bisogna però avere coraggio, la capacità di coniugare volontà e intelletto, l’umiltà di sapere di non sapere, continuando a porsi e a porre domande (non siamo mai soli ma sempre in relazione con l’Altro). La domanda cardine non può che interrogare in cosa consista il rischiarimento, il fare luce, il fare chiarezza. Porsi questa coraggiosa domanda significa oggi, per usare le parole di Umberto Curi, autore del libro Polemos – Filosofia come guerra

 “riattivare l’indagine riguardante il processo che conduce dalla schiavitù alla libertà, dalla malattia alla guarigione, dall’ignoranza alla conoscenza, dall’errore alla verità”. 

Nel mondo delle fate (streghe) IA, erogatrici di risposte facili e soluzioni per tutti (studenti e loro insegnanti, pazienti e loro psicoterapeuti, ecc.), ci vuole molto coraggio a rimettersi in cammino, anche come filosofi (quanti di loro hanno oggi perso la bussola e il cammino, l’orientamento, il proprio essere filosofi?), a riprendere a indagare. 

Esercitare questo coraggio è un modo per usare la propria ragione in modo indipendente, liberandosi dai condizionamenti delle tante camere dell’eco che felicemente abitiamo, da pregiudizi e dogmi, praticando l’arte dell’interrogarsi, del dubitare, e del ragionare autonomamente. Al coraggio bisogna accompagnare la (tecno)consapevolezza, la responsabilità e lo sforzo. Bisogna rinunciare alla pigrizia mettendo in discussione certezze consolidate, con l’obiettivo di acquisire conoscenze, aiutare la propria testa nel produrre conoscenza. 

Conoscere è anche “non essere mai contenti” (io non lo sono da quando ero piccolo), è vedere, comprendere, fare luce, illuminare, richiamare l’attenzione. Oggi la luce, l’illuminazione, viene chiesta da moltitudini di persone a intelligenze artificiali che brillano di luce riflessa, la nostra, ma con l’obiettivo di oscurarla e di spegnerla. Ciò che sta avvenendo è la rinuncia a essere maggiorenni, è la fuga all’indietro (catabasi), verso una minorità adolescenziale, che si esprime nella ricerca di “entità” ritenute “adulte”, capaci di guidare i nostri pensieri e comportamenti, le nostre scelte (ormai sempre binarie) e decisioni (quasi mai autonome, spesso manipolate). 

La rinuncia alla maggiore età e l’accettazione passiv(izzat)a di una infantilizzazione delle proprie vite è il risultato, per dirla con le parole del filosofo Umberto Curi, di alcuni vizi “capitali” oggi molto diffusi quali: “la pigrizia, come sostegno del difetto di decisione, e la viltà, come assenza di coraggio”. Pigrizia e viltà potrebbero essere l’effetto della mancanza di libertà, oppure della “follia” oggi tanto diffusa. Quando si rinuncia a ragionare, a esprimere pensiero critico, a trovare il modo di resistere alle narrazioni conformistiche dominanti, si è complici di una restrizione della propria libertà personale e individuale. Criticare, riflettere, de-coincidere, non è cosa facile, bisogna sapersi sottrarre alla tutela di coloro che oggi si sono arrogati il diritto e il compito di pensare al posto nostro, per poi fare uso “intelligente” della propria ragione, sconfiggendo pigrizia, rassegnazione, delega e viltà. 

“Si diventa grandi combinando l’ardimento dell’aude e l’esercizio del sapere!” (Umberto Curi) 

Pensando a quanti oggi ricorrono alle IA generative per dialogare con esse, per porre domande misurate gentili, tanto sono ansiose di ottenere una risposta utile o la soluzione a un problema, viene da pensare a quanto il dialogo e la gentilezza siano oggi sopravvalutati, quando rivolti a una macchina. Meglio sarebbe, anche nella vita forse, praticare il contrasto, la dialettica, il conflitto e la lotta, la contraddizione, la polemica. 

Praticare il “dialogo polemico” potrebbe servire a mettere alla prova le verità (opinioni, punti di vista, allucinazioni) della macchina, spesso spacciate come la Verità, a lavorare sulla contraddizione che sempre caratterizza l’essere umano, ma non la macchina. Si potrebbe allora forse scoprire che le cosiddette allucinazioni delle IA sono semplici favole, a volte semplici corbellerie, che passano il vaglio dell’intelligenza umana perché ci si sta lasciando trattare da bambini. 

Come scrive Umberto Curi, “non è possibile conseguire alcun sapere, senza che esso risulti da un domandare, ma il domandare stesso non è possibile, se non come manifestazione di una specifica volontà […] l’interrogazione è lotta. La stessa filosofia, in quanto inquisitio, è conflitto, confronto agonistico con l’Altro”. Questo messaggio recuperato dal pensiero di Eraclito ci dice quanto oggi sia sbagliato il nostro rapporto con la tecnolog-IA: una disposizione meramente ricettiva e passiva come quella che molti oggi praticano nelle loro interazioni dialoganti con le IA generative, da cui deriva l’assimilazione di una pluralità di dati, informazioni e cognizioni, “non ha nulla a che fare con ciò a cui si riferisce il sapere”. 

E allora perché continuiamo a non mettere in discussione il nostro modo di rapportarci alle IA, nella ricerca di conoscenza, sapere e verità? 

In un mondo in cui domina l’ignoranza, la follia è essere saggi. Nei tempi in cui ci si affanna a chiedere luce a intelligenze artificiali, la novità sta nell’affidarsi al lume del pensiero umano, della parola e della poesia. Non una rivista, non una piattaforma: un progetto aperto, uno spazio transdisciplinare per condividere conoscenza.”

Pubblicato il 17 dicembre 2025

Carlo Mazzucchelli

Carlo Mazzucchelli / ⛵⛵ Leggo, scrivo, viaggio, dialogo e mi ritengo fortunato nel poterlo fare – Co-fondatore di STULTIFERANAVIS

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