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Il lavoro pedagogico è oggi indispensabile perché siamo disancorati dal reale. La crisi educativa contemporanea nasce da un equivoco profondo: abbiamo confuso la formazione con l’eliminazione del limite. Abbiamo educato generazioni a credere che ogni vincolo sia un’ingiustizia, che ogni frustrazione sia un trauma, che ogni necessità sia un abuso. Il risultato non è stata una maggiore libertà, ma una crescente fragilità psichica. Una pedagogia della Necessità non è una pedagogia autoritaria. È una pedagogia realistica.

Un testo scritto insieme a Mastroviti Benedetta

Con Ananke non entriamo nel mito — entriamo in ciò che rende possibile il mito. Prima che qualcosa possa essere, deve dover essere. Prima del Caos esiodeo, prima degli dèi e dei Titani, prima del tempo stesso che scorre, c'è la Necessità che tutto questo sia.

Ananke non è una dea tra le altre. È la condizione stessa perché ci siano Dèi, mondo, e qualcuno che ne parli. Il viaggiatore che entra in questo territorio deve sapere che qui le categorie vacillano. Ananke non ha genealogia perché precede ogni genealogia. Non ha mito in senso stretto perché è ciò che rende possibile ogni mito.

Con Ananke non entriamo nel mito — entriamo in ciò che rende possibile il mito. 

Filologia del nome

Il nome Ἀνάγκη (Anánkē) presenta un'etimologia che oscilla, fin dai testi più antichi, tra due campi semantici apparentemente distanti: la necessità e la parentela.

L'accostamento proposto da Schwyzer (riferito in Chantraine, DELG s.v. ἀνάγκη) collega il termine a ἄγκη, "braccio", "incavo del braccio" — la stessa radice di ἀγκάλη, da cui l'espressione ἀγκάλαις λαβεῖν, "stringere tra le braccia". In questa lettura, Ananke sarebbe ciò che stringe, ciò che tiene, la presa dalla quale non si sfugge. L'immagine è fisica, corporea: la necessità come abbraccio che non lascia andare.

Beekes (Etymological Dictionary of Greek s.v.) propone invece una connessione con la nozione di morte, attraverso il confronto con l'ittita ḫenkan-, "morte", "pestilenza", "destino di morte". Se questa etimologia cogliesse nel segno, Ananke porterebbe in sé fin dall'origine il legame tra necessità e mortalità — la stretta ultima, quella da cui nessun vivente si scioglie.

Le due etimologie non si escludono. Possono coesistere come strati sovrapposti di senso. La necessità stringe come un braccio e stringe come la morte. L'opacità etimologica riflette l'opacità della potenza stessa: Ananke resiste alla spiegazione perché è ciò che precede ogni spiegazione.

Il latino la traduce Necessitas. Per i Greci, ἀνάγκη non era semplicemente "ciò che non può essere altrimenti" in senso logico: era una potenza, qualcosa che agisce, che costringe, che piega anche gli dèi.

Il mito

C'è un istante prima dell'istante. Un battito prima del primo battito. Un silenzio così denso che contiene già tutti i suoni che verranno. Gli orfici, custodi di saperi che precedono la memoria, sapevano di questo istante. E lo chiamavano Ananke.

Perché il Caos stesso — quella voragine spalancata che Esiodo pose all'origine — non era il primo. Prima che il Caos si aprisse, qualcosa doveva aprirlo. Prima che qualcosa fosse, la necessità che fosse doveva già vigere, già stringere, già tenere. Gli orfici conoscevano questa precedenza assoluta, e le diedero un nome: Ananke. La vedevano intrecciata al suo sposo Chronos — due serpenti che danzano nell'oscurità prima dell'oscurità, nell'abisso che precede l'abisso.

Chronos — non il Crono titanico che divorerà i figli, ma il Tempo stesso, anteriore agli dèi — si rivelava in una forma che trascende ogni figura conosciuta: serpente alato con tre teste. Una di leone (λέων, leon), feroce e regale. Una di toro (ταῦρος, tauros), paziente e terribile. E in mezzo, tra la ferocia e la pazienza, un volto divino (θεοῦ πρόσωπον, theou prosopon) senza nome. Alcuni lo chiamavano Eracle Aghèraos, "Eracle che non invecchia" — un nome che è quasi una contraddizione, perché come può non invecchiare chi è il Tempo stesso? Ma così narravano gli iniziati, e così Damascio, secoli dopo, trovò scritto nei testi che tentò di salvare dall'oblio.

Attorno a questo serpente si avvolgeva Ananke-Adrasteia — "colei dalla quale non si sfugge". Due serpenti intrecciati nel buio prima del buio, nel tempo prima del tempo. E dalla loro unione nacque un uovo. Un uovo cosmico, luminoso, gravido di tutto ciò che sarebbe stato. Quando si schiuse, ne emerse Phanes — la Luce che appare, il primo dio, lo Splendente. E da Phanes, generazione dopo generazione, sarebbero venuti tutti gli altri: Urano e Gaia, i Titani, gli Olimpi, e infine noi — mortali che queste storie le viviamo senza capirle davvero.

Ma Ananke era prima. Prima di Phanes, prima dell'uovo, prima della luce. Era ciò che rendeva necessario che la luce fosse. Senza la sua stretta, nulla avrebbe tenuto. Il cosmo si sarebbe dissolto prima ancora di nascere.


Parmenide di Elea camminava su sentieri che nessun mortale aveva percorso prima. La dea senza nome lo aveva accolto, lo aveva preso per mano, gli aveva mostrato l'Essere — immobile, eterno, perfetto come una sfera. Ma anche l'Essere, scoprì Parmenide, aveva i suoi vincoli. Anche l'Essere era tenuto.

Κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει — "La possente Ananke lo tiene nei vincoli del limite".

Così cantò il sapiente, e il suo canto attraversa i millenni. L'Essere non può essere diversamente da come è. Non perché qualcuno lo abbia deciso — chi potrebbe decidere sull'Essere? — ma perché la Necessità stessa lo vincola. È κρατερή, possente, irresistibile. I suoi vincoli sono δεσμοί, catene. E queste catene non imprigionano: definiscono. Senza di esse, l'Essere si dissolverebbe nel non-essere. La presa di Ananke è ciò che tiene l'Essere nell'essere.

Parmenide aveva capito qualcosa che noi abbiamo dimenticato: che la libertà assoluta è dissoluzione, che l'assenza di vincoli è l'assenza di forma, che solo ciò che è tenuto può essere. L'Essere è, e non può non essere — e questa impossibilità del non-essere è Ananke.


Empedocle di Agrigento conosceva il ciclo eterno. Sapeva che Amore — Φιλία, la forza che unisce — e Contesa — Νεῖκος, la forza che divide — si alternano nel governo del cosmo. Quando Amore domina, tutto converge nello Sfero perfetto, unità senza fessure. Quando Contesa prevale, tutto si separa, si distingue, si individua. E poi di nuovo Amore, e poi di nuovo Contesa, per sempre.

Ma cosa garantisce questo ciclo? Cosa impedisce che un giorno Amore vinca definitivamente, o che Contesa trionfi per sempre? Empedocle lo sapeva. C'era un decreto più antico degli dèi stessi:

Θεῶν ψήφισμα παλαιόν, ἀίδιον, πλατέεσσι κατεσφρηγισμένον ὅρκοις — "Decreto antico degli dèi, eterno, sigillato con ampi giuramenti".

Gli dèi stessi avevano giurato. Avevano posto i loro sigilli su questo decreto prima ancora di essere pienamente dèi. E il decreto era Ananke — la necessità che il ciclo sia ciclo, che l'alternanza alterni, che nulla resti fermo per sempre e nulla cambi per sempre. Persino l'anima che pecca — e Empedocle parlava di un'anima che aveva peccato, forse la sua — doveva vagare trentamila stagioni lontano dai beati, passando di corpo in corpo, di vita in vita. Non per capriccio divino, ma per necessità giurata. Il decreto era stato sigillato. Nessuno poteva romperlo.


Leucippo e Democrito, i sapienti di Abdera, guardavano il mondo con occhi diversi. Non vedevano dèi ovunque, non sentivano voci divine nel vento. Vedevano atomi — corpuscoli invisibili, indivisibili, eterni — che si muovono nel vuoto infinito, si urtano, si aggregano, si separano. Da questi urti casuali nascono i mondi, e da questi mondi nascono le creature, e da queste creature nascono i pensieri che ora pensiamo.

Ma — e qui sta il punto decisivo — questi urti non sono davvero casuali. Leucippo lo disse con parole che tagliano come lame:

Οὐδὲν χρῆμα μάτην γίγνεται, ἀλλὰ πάντα ἐκ λόγου τε καὶ ὑπ' ἀνάγκης — "Nulla avviene invano, ma tutto da ragione e per necessità".

Nulla invano. Nulla a caso. Ogni urto, ogni aggregazione, ogni nascita e ogni morte — tutto è necessario. Gli atomisti avevano eliminato gli dèi dal governo del mondo, ma non avevano eliminato Ananke. Anzi: avevano fatto di Ananke l'unica sovrana. Senza provvidenza, senza disegno, senza scopo — ma con necessità assoluta. Democrito, ci dice Aristotele, "trascurando di parlare della causa finale, riconduce tutto alla necessità". Non c'è un perché verso cui le cose tendono. C'è solo un perché da cui le cose vengono: la necessità che siano come sono.

È un pensiero vertiginoso. Un cosmo senza dèi ma non senza legge. Un universo cieco ma non caotico. E al centro, invisibile ma onnipresente, Ananke — non come dea da pregare, ma come struttura stessa del reale.


Er figlio di Armenio, soldato della Panfilia, morì in battaglia. Il suo corpo giacque sul campo per dieci giorni senza corrompersi — segno che gli dèi lo avevano scelto per qualcosa. E infatti, quando fu posto sulla pira per essere bruciato, Er si risvegliò. E raccontò.

Raccontò di essere uscito dal corpo, di aver viaggiato con altre anime verso un luogo dove quattro voragini si aprivano — due verso il cielo, due verso la terra. Raccontò dei giudici che separavano i giusti dagli ingiusti, delle pene e delle ricompense, del ritorno delle anime per una nuova incarnazione. Ma soprattutto raccontò ciò che vide al centro di tutto.

Una luce, dritta come una colonna, che attraversava tutto il cielo e tutta la terra. E dentro quella luce, i legami del cielo — ciò che tiene insieme il cosmo. E poi il fuso. Il fuso di Ananke.

Immaginalo: un asse cosmico che attraversa tutto l'essere. Attorno all'asse, otto cerchi concentrici — le orbite dei pianeti e delle stelle fisse. Su ogni cerchio, una Sirena che canta una sola nota, un solo suono puro. E dagli otto suoni, una sola armonia — la musica delle sfere che nessun orecchio mortale può udire, ma che tiene insieme il mondo.

Chi regge questo fuso? Ananke. Il fuso ruota sulle sue ginocchia. Le sue mani lo tengono fermo mentre tutto gira. E attorno a lei, su tre troni, siedono le sue figlie: le Moire. Cloto, Lachesi, Atropo — Colei che fila, Colei che assegna, Colei che non si può volgere. Vestite di bianco, con corone sul capo, cantano insieme alle Sirene: Lachesi canta le cose che furono, Cloto le cose che sono, Atropo le cose che saranno.

Le anime che devono reincarnarsi vengono condotte davanti a Lachesi. Un araldo le dispone in ordine, prende le sorti e i modelli di vita dalle ginocchia di Lachesi, e proclama: "Parola della vergine Lachesi, figlia di Ananke. Anime effimere, inizia per voi un altro ciclo di vita mortale, foriero di morte. Non sarà un dàimon a scegliere voi, ma voi sceglierete il dàimon. Chi è estratto per primo, per primo scelga la vita a cui sarà legato per necessità. La virtù è senza padrone: ciascuno ne avrà di più o di meno a seconda che la onori o la disprezzi. La responsabilità è di chi sceglie; il dio non è responsabile."

Ecco il paradosso tremendo che Platone mette in scena. Le anime scelgono — scelgono davvero, in piena responsabilità — ma scelgono tra vite già date, già tessute, già necessarie. E una volta scelta, la vita scelta diventa destino. Cloto tocca la scelta, la ratifica. Atropo la rende irreversibile, filando il filo che non può essere disfatto. E l'anima passa sotto il trono di Ananke, portando con sé la necessità che si è scelta.

La scelta è libera. Il suo esito è necessario. Questo sapevano i Greci. Questo abbiamo dimenticato.


A Corinto, dove il mare bacia la terra da due lati, sorgeva un tempio piccolo e antico. Pausania, viaggiatore instancabile che nel secondo secolo della nostra era percorse tutta la Grecia annotando ciò che vedeva, lo registra quasi di sfuggita: un santuario di Ananke (Ἀνάγκη) e Bia (Βία) insieme. La Necessità e la Forza, accoppiate nel culto come sono accoppiate nella realtà.

Non sappiamo quali riti si compissero in quel tempio. Non sappiamo quali preghiere — se mai ce n'erano — si levassero verso queste potenze. Ananke non è una dea che si prega. Non concede favori, non risponde a suppliche, non si lascia piegare da sacrifici. È, semplicemente. E Bia — la Forza bruta, la Violenza che piega — è il suo braccio esecutore. Ciò che deve essere, Bia lo fa essere. Senza pietà, senza esitazione, senza possibilità di appello.

Che i Corinzi avessero eretto un tempio a queste potenze dice qualcosa su di loro, e su tutti i Greci. Non adoravano solo gli dèi gentili, non pregavano solo per favori. Riconoscevano anche ciò che non può essere pregato, ciò che non ascolta, ciò che semplicemente è. E in questo riconoscimento c'era saggezza.


Euripide, il più moderno dei tragici, il più inquieto, il più incline a mostrare gli dèi come problemi piuttosto che come risposte, mette in scena nell'Alcesti un coro che dice la verità nuda:

Πολλὰ δέ σε μοῦσαι θρήνησαν· οὐδέν τι σοφώτερον ηὗρον Ἀνάγκας — "Molto le Muse cantarono di te; ma nulla trovarono più forte di Ananke".

Le Muse — le dee della sapienza cantata, le figlie di Mnemosyne che tutto ricordano — hanno cercato. Hanno cercato nei canti orfici, nelle tavole traci, nei pharmaka che Asclepio imparò da Apollo. Hanno cercato un rimedio, una via d'uscita, un modo per vincere la Necessità. Non l'hanno trovato.

Euripide prosegue, e le parole sono pesanti come pietre tombali: Ananke non ha altari dove avvicinarsi, non ha immagine a cui sacrificare. Non ascolta preghiere. Non conosce Peithò — la Persuasione che addolcisce gli animi. È sola, impervia, assoluta.

Eppure — e qui Euripide mostra il suo genio — la chiama θεά, dea. Una dea senza tempio, senza statua, senza culto. Una dea che non si può adorare ma solo riconoscere. Una dea che non dà nulla ma prende tutto. Quale divinità più terribile, quale presenza più divina?

Callimaco, secoli dopo, la chiamerà Ἀναγκαίη μεγάλη θεός — "la grande dea Necessità". Grande non come Zeus è grande, per potere e gloria. Grande come è grande l'oceano, come è grande il cielo, come è grande tutto ciò che ci comprende senza che noi possiamo comprenderlo.


C'è un vaso antico, una lekythos a figure rosse, dipinta ad Atene nel quinto secolo prima della nostra era, ora custodita a Mosca nel museo che porta il nome del poeta Puškin. Su questo vaso, un artista di cui non conosciamo il nome ha dipinto Ananke.

Una donna alata. In pugno, una fiaccola ardente. E accanto a lei, perché non ci fossero dubbi, la didascalia: ΑΝΑΓΚΗ.

Le ali dicono: vengo veloce, non puoi sfuggirmi, arrivo prima che tu possa prepararti. La fiaccola dice: porto luce, ma la luce che porto brucia; illumino ciò che non volevi vedere e consumo ciò che credevi eterno.

L'artista anonimo aveva capito. Ananke non è oscurità — è la luce che mostra ciò che è, senza veli, senza illusioni. Una luce che non conforta ma rivela. Una luce di fuoco.

Θεραπεία — La cura

Fermati.

Prima di procedere, fermati. Lascia cadere per un istante ciò che credi di sapere, ciò che pensi di cercare, ciò che speri di trovare. Qui non troverai risposte — qui troverai, se avrai il coraggio di guardare, la domanda che tu stesso sei.

Ananke non si spiega. Si incontra.


C'è un momento nella vita — forse è già accaduto, forse sta accadendo ora, forse accadrà — in cui tutto ciò che credevi di controllare ti sfugge dalle mani. La malattia che arriva senza bussare. La morte che porta via chi amavi. Il tradimento che non avevi previsto. Il fallimento che smonta pezzo per pezzo la vita che avevi costruito. In quel momento, sei nudo davanti ad Ananke. E in quel momento, solo in quel momento, puoi cominciare a capire.

I Greci non avevano paura di quel momento. Lo temevano, certo — chi non teme la rovina? Ma non lo fuggivano. Sapevano che in quel momento si rivela qualcosa di essenziale: che non sei tu il signore della tua vita. Che esiste qualcosa di più grande, di più antico, di più forte di ogni tua volontà. E che questo qualcosa non è nemico — è la struttura stessa del reale, la condizione perché tu possa essere tu.

La chiamavano μοῖρα (moira, dalla radice che significa "dividere", "assegnare una parte") — la parte che ti è stata assegnata. Non la parte che hai scelto, non la parte che meriti, non la parte che desideri. La parte che è tua, e che è tua perché è tua, senza ulteriore spiegazione. Nel mito di Er, le anime scelgono — ma scelgono tra vite già date. E una volta scelta, la vita diventa moira, diventa destino, diventa necessaria. Le Moire siedono ai piedi di Ananke, e cantano ciò che deve essere. Non c'è appello.

Ma — e qui devi ascoltare con attenzione, perché qui sta il cuore di tutto — la moira non è punizione. Non è un carcere imposto da un dio crudele. È la forma della tua vita. Senza forma, non c'è vita — c'è solo potenzialità informe, possibilità che non precipita mai in realtà, sogno che non si incarna mai. La moira è ciò che ti fa te — questo corpo, questa storia, questa voce, questo nome. Maledirla è maledire te stesso. Accettarla — davvero accettarla, non con rassegnazione ma con l'assenso di chi riconosce ciò che è — è il primo passo verso qualcosa che i Greci chiamavano saggezza.

Ma attenzione: questo non è fatalismo. Il fatalismo è la malattia di chi ha frainteso Ananke — o di chi l'ha incontrata attraverso secoli di filtri che ne hanno distorto il volto.

Il fatalista dice: "Tutto è già deciso, dunque non agisco. A che serve?" È la paralisi mascherata da saggezza, la rinuncia travestita da accettazione. Il fatalista si siede e aspetta — aspetta che il destino si compia su di lui, come una pietra aspetta che la pioggia la eroda. È passivo, è inerte, è già morto prima di morire.

Il Greco che riconosce Ananke fa esattamente l'opposto. Dice: "La mia parte è questa, il mio tempo è limitato, la mia morte è certa — dunque ogni gesto conta. Dunque agisco." È il paradosso che il cristianesimo della speranza ultraterrena non ha mai compreso, e che la modernità del progresso infinito ha sepolto sotto promesse vuote: proprio perché il limite è reale, proprio perché Ananke stringe, l'azione ha peso. Una vita infinita sarebbe una vita in cui nulla importa — c'è sempre domani, c'è sempre un'altra occasione, c'è sempre tempo. Una vita stretta da Ananke è una vita in cui tutto importa — perché non c'è recupero, non c'è rimando, non c'è seconda possibilità.

Achille sceglie. Sceglie una vita breve e gloriosa invece di una lunga e oscura. Ma sceglie dentro la necessità di essere mortale — non contro di essa, non illudendosi di poterla abolire. La sua scelta è libera non nonostante Ananke, ma grazie ad Ananke: è la necessità della morte che rende la sua scelta significativa, pesante, irreversibile. Se Achille fosse immortale, che valore avrebbe la sua gloria? Che peso avrebbe il suo sacrificio? Nessuno. Sarebbe un gioco senza conseguenze, un gesto vuoto in un tempo vuoto.

Antigone sceglie. Ma la sua scelta non è arbitrio — è obbedienza. Obbedienza a una legge più antica dei decreti di Creonte, più antica della polis stessa. Quando si trova davanti al re che le chiede ragione del suo gesto, Antigone risponde con parole che attraversano i millenni:

οὐ γάρ τί μοι Ζεὺς ἦν ὁ κηρύξας τάδε,

οὐδ᾽ ἡ ξύνοικος τῶν κάτω θεῶν Δίκη

τοιούσδ᾽ ἐν ἀνθρώποισιν ὥρισεν νόμους·

οὐδὲ σθένειν τοσοῦτον ᾠόμην τὰ σὰ

κηρύγμαθ᾽, ὥστ᾽ ἄγραπτα κἀσφαλῆ θεῶν

νόμιμα δύνασθαι θνητὸν ὄντ᾽ ὑπερδραμεῖν.

"Non fu Zeus a proclamarmi questo decreto, né Dike che abita con gli dèi di sotto stabilì tali leggi tra gli uomini. Né credevo che i tuoi decreti avessero tanta forza da permettere a un mortale di trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli dèi."

(Sofocle, Antigone 450-455)

Ecco il cuore della scelta di Antigone: non "faccio ciò che voglio", ma "obbedisco a ciò che devo". Esistono leggi — ἄγραπτα νόμιμα (agrapta nomima, "leggi non scritte") — che nessun decreto umano può abolire. I morti devono essere sepolti. Il sangue della famiglia ha diritti che la polis non può cancellare. Queste leggi non sono state scritte da mano umana: vengono dagli dèi, dalla θέμις (themis, la legge divina, l'ordine sacro che precede ogni legislazione), e sono ἀσφαλῆ — incrollabili, inamovibili, eterne.

Antigone non esita. Non si trova davanti a un bivio, non pesa alternative su una bilancia. È già dentro la necessità — quella vera, quella divina — e il decreto di Creonte non è per lei un'altra necessità: è la pretesa di un mortale di legiferare sopra ciò che i mortali non possono toccare. Antigone vede con chiarezza ciò che Creonte non vede: che la legge degli dèi non si contratta, non si sospende, non si piega ai calcoli politici. E vedendo, agisce. Seppellisce il fratello sapendo che questo le costerà la vita — non nonostante lo sappia, ma proprio perché lo sa. Come Achille sceglie la vita breve e gloriosa non contro la necessità della morte ma dentro di essa, così Antigone sceglie di morire non contro la legge divina ma in obbedienza ad essa.

Questo non è fatalismo. Il fatalista non sceglie: subisce. Antigone sceglie — sceglie attivamente, lucidamente, sapendo il prezzo. Ma la sua libertà non è l'arbitrio del moderno che inventa i propri valori: è il riconoscimento di un ordine che la precede e la trascende, e la decisione di conformarsi a quell'ordine costi quel che costi. È libertà nell'obbedienza — concetto che la modernità non sa più nemmeno pensare, abituata com'è a identificare libertà con assenza di vincoli.

Creonte, al contrario, crede di poter legiferare sopra le leggi degli dèi. Crede che il suo decreto possa prevalere sulla themis. E in questo sta la sua ἄτη (ate, "accecamento", "rovina", la follia mandata dagli dèi che porta l'uomo alla sua distruzione) — la cecità che lo porterà a perdere tutto: il figlio Emone, la sposa Euridice, sé stesso. Creonte non vede Ananke — non quella vera, quella divina. Vede solo il proprio potere, e lo scambia per l'ordine del mondo. È la hybris del legislatore che crede di poter riscrivere le leggi non scritte.

Antigone vede. Creonte è cieco. E la differenza tra chi vede e chi è cieco è la differenza tra chi sta in piedi davanti ad Ananke e chi viene travolto.

Il fatalismo è fuga dalla responsabilità. L'accettazione di Ananke è assunzione piena della responsabilità. Il fatalista incolpa il destino: "Non potevo fare altrimenti." Il Greco che conosce Ananke dice: "Ho scelto, e la mia scelta è mia." Nel mito di Er, l'araldo proclama: αἰτία ἑλομένου· θεὸς ἀναίτιος — "La responsabilità è di chi sceglie; il dio non è responsabile." Non c'è scarico di colpa sul fato, non c'è alibi cosmico. Hai scelto tu, dentro i vincoli che non hai scelto. E quella scelta ti appartiene.

Hillman lo ha detto con chiarezza: la psicologia contemporanea ha perso Ananke credendo di liberare l'uomo, e invece lo ha consegnato all'impotenza. Chi crede che tutto sia modificabile, che ogni limite sia un blocco da sciogliere, che ogni destino sia una prigione da cui evadere, finisce paralizzato davanti a ciò che davvero non può essere cambiato. Non ha gli strumenti per stare in piedi davanti alla morte, alla malattia, alla perdita. Non sa come agire quando l'azione non può salvare. E così crolla — o si rifugia nella fantasia, nel rimando infinito, nella speranza che diventa oppio.

Il Greco non crollava. Sapeva — nelle ossa, non nei concetti — che ci sono cose che non possono essere cambiate. E sapeva che davanti a queste cose non si sta inerti: si sta con grandezza. Si muore bene. Si perde con dignità. Si affronta l'inevitabile a testa alta, non con la rassegnazione del vinto ma con la fierezza di chi ha capito le regole del gioco e ha scelto di giocare fino in fondo.

Questo è il contrario del fatalismo. Il fatalismo è la morte dello spirito prima della morte del corpo. L'accettazione di Ananke è la vita che si fa incandescente proprio perché sa di essere breve. È il fuoco che arde più luminoso perché sa che si spegnerà. È Eraclito: πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα — fuoco sempre vivente, che si accende secondo misura e si spegne secondo misura. Il fuoco non si lamenta della misura. Arde.


Ma noi moderni non vogliamo accettare. Vogliamo vincere.

Abbiamo eretto la nostra civiltà su un sogno: il sogno di sconfiggere ogni limite, di superare ogni vincolo, di piegare la realtà alla nostra volontà. La morte? La combattiamo con la medicina, e vinciamo battaglie — ma la guerra è già persa dal primo respiro. La distanza? L'abbiamo abolita con i nostri mezzi — ma siamo più soli che mai. Il dolore? Lo anestetizziamo con le nostre chimiche — ma il vuoto resta, e cresce, e divora dall'interno.

Questa è ὕβρις (hybris, "eccesso", "tracotanza", il superamento del limite che provoca la vendetta divina) — l'eccesso che sfida gli dèi. Non la hybris dell'eroe tragico, che almeno aveva la grandezza della sua sfida. Una hybris grigia, quotidiana, inconsapevole. La hybris di chi crede che con abbastanza tecnologia, abbastanza denaro, abbastanza volontà, tutto sia possibile. La hybris di chi ha dimenticato Ananke.

E dalla hybris nasce l'ate — l'accecamento che precede la rovina. L'ate non è stupidità: Edipo era intelligente, Agamennone era potente, Creonte era determinato. L'ate è la cecità specifica di chi non vede i propri limiti — di chi corre verso l'abisso credendo di correre verso la vittoria.

Edipo voleva sapere. Voleva la verità a ogni costo, anche quando tutti lo imploravano di fermarsi. E la verità lo accecò — letteralmente, quando lui stesso si strappò gli occhi. Cercava di sfuggire al destino, e ogni passo di fuga lo portava più vicino a ciò che fuggiva. La necessità che fosse figlio di chi era figlio, sposo di chi era sposa, assassino di chi era suo sangue — questa necessità non poteva essere sconfitta. Poteva solo essere vista, riconosciuta, accettata. Ma Edipo vide troppo tardi.

Agamennone tornò da Troia carico di gloria. Dieci anni di guerra, la città più potente d'Asia in fiamme, il bottino più ricco che occhio greco avesse mai visto. Tornò trionfante — e camminò su tappeti di porpora verso la morte che lo attendeva nella vasca da bagno. Non vide Clitennestra affilare il coltello per dieci anni. Non vide il sangue di Ifigenia, sua figlia, che gridava vendetta. Non vide che chi versa sangue familiare deve aspettarsi sangue familiare. La necessità era lì, chiarissima per chiunque avesse occhi per vedere. Ma Agamennone era cieco della sua gloria.


Ma come si sta davanti ad Ananke senza essere distrutti?

Esiste una parola greca che nomina questo stare: σωφροσύνη (sophrosyne, da σῶς "sano" e φρήν "mente" — la mente sana, integra, che conosce i propri limiti). Non è rassegnazione — la rassegnazione è debolezza, è rinuncia, è morte prima della morte. Non è passività — la passività è rifiuto della vita, è tradimento di ciò che siamo. La sophrosyne è qualcosa di più sottile e più forte: è il riconoscimento lucido, coraggioso, di ciò che non può essere cambiato — unito all'azione risoluta su ciò che può esserlo.

Gli Stoici, secoli dopo, diranno: distingui tra ciò che dipende da te e ciò che non dipende da te. Dipende da te il giudizio, l'impulso, il desiderio, l'avversione — tutto ciò che è tuo atto. Non dipende da te il corpo, la reputazione, le cariche — tutto ciò che non è tuo atto. La saggezza sta nel volere ciò che accade, nel non pretendere che accada ciò che vogliamo. Ma questo è già pensiero filosofico, già riflessione a distanza. I Greci arcaici non avevano bisogno di queste distinzioni: vivevano la sophrosyne come si vive il respiro, senza teorizzarla.


E il κόσμος (kosmos, "ordine", "ornamento", "bellezza dell'ordine" — la stessa radice di "cosmetico")?

Dimentica per un istante l'universo astronomico, le galassie e i buchi neri, l'infinito indifferente che i telescopi moderni ci mostrano. Il kosmos greco era altra cosa. Era l'ordine in quanto bello — non l'ordine imposto, non la disciplina che costringe, ma l'ordine che emerge quando ogni cosa trova il suo posto. Il kosmos è la danza delle stagioni, il ritorno delle costellazioni, la proporzione del corpo umano, l'accordo delle corde tese sulla lira. È ciò che è armonioso perché è necessario, e necessario perché armonioso.

Senza Ananke, non ci sarebbe kosmos. Ci sarebbe χάος (chaos, da χαίνω "spalancarsi" — la voragine, il vuoto, l'abisso senza forma). Non il Caos primigenio da cui tutto nasce in ordine, ma il disordine che dissolve, il rumore bianco dove nessuna voce si distingue, l'indistinto dove nessun amore è possibile perché non c'è nessuno da amare. Il kosmos esiste perché Ananke lo tiene. Il fuso della Necessità è l'asse attorno a cui tutto ruota. Toglilo, e tutto crolla nel nulla.

E la musica — la ἁρμονία (harmonia, "giuntura", "accordo", "proporzione" — ciò che tiene insieme le parti diverse)? Nel mito di Er, le Sirene cantano su ogni sfera celeste, ciascuna una nota sola, e dalle otto note nasce un solo accordo. L'armonia non è libertà dal vincolo: è il vincolo stesso fatto musica. Ogni nota è necessaria, ogni intervallo è stabilito. Se una sola nota mancasse, l'armonia si spezzerebbe in rumore. La bellezza della musica è la bellezza della necessità — della necessità accettata, celebrata, trasformata in canto.

Eraclito lo disse con parole che bruciano attraverso i millenni:

κόσμον τόνδε, τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ' ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα

"Questo kosmos, lo stesso per tutti, non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma era sempre, è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende secondo misura e si spegne secondo misura"

(Fr. 30 D.-K.)

Fuoco. Non ghiaccio, non pietra, non meccanismo morto. Fuoco sempre vivente. Il kosmos è vivo — arde, respira, pulsa. E questo fuoco si accende secondo misura e si spegne secondo misura. La misura è Ananke. Il fuoco senza misura divorerebbe tutto; la misura senza fuoco sarebbe gelo eterno. Insieme, sono il mondo.


E l'etimo? Ricordalo: Ananke viene forse da ἄγκη, il braccio, l'incavo dove si stringe. La Necessità come abbraccio.

C'è una stretta che soffoca — tutti la conosciamo, tutti la temiamo. Ma c'è anche una stretta che tiene, che impedisce di cadere, che dice "sei qui, sei reale, esisti". Il neonato che viene stretto al petto della madre non è imprigionato — è tenuto in vita. L'amante che stringe l'amato non lo soffoca — lo tiene nel mondo. Ananke è questa stretta. È ciò che ti tiene insieme quando vorresti dissolverti, ciò che ti ancora al reale quando il dolore ti spinge verso il nulla.

E l'etimo che collega Ananke alla morte — quello che la avvicina all'ittita ḫenkan-? Anche questo è vero. La stretta ultima, quella da cui nessuno si scioglie, è la morte. Ma — ascolta bene — la morte non è il contrario della vita. È ciò che dà forma alla vita. Una vita senza fine sarebbe dispersione infinita, ripetizione senza senso, noia eterna. Sarebbe chaos, non kosmos. La morte è il limite che definisce la vita, il confine che le dà forma, la cornice che trasforma un'esistenza in una storia.

I Greci lo sapevano. Per questo i loro eroi brillano — perché sanno di dover morire, perché ogni gesto conta, perché non c'è tempo da perdere. Per questo i loro canti commuovono ancora — perché parlano di mortali che accettano la mortalità e in questa accettazione trovano grandezza.


E tu?

Tu che leggi, tu che cerchi, tu che forse ancora speri di trovare una via d'uscita — tu cosa farai?

Puoi continuare a combattere. Puoi continuare a credere che con abbastanza sforzo, abbastanza intelligenza, abbastanza volontà, vincerai. Puoi continuare a sbattere contro il muro che non cede, a gridare contro il silenzio che non risponde, a cercare porte dove ci sono solo pareti. È una scelta. Anche l'ate è una scelta — la scelta di non vedere.

Oppure puoi fermarti. Puoi guardare — davvero guardare — ciò che non puoi cambiare. Puoi smettere di maledire i tuoi limiti e cominciare a vedere che quei limiti sono la tua forma. Puoi accettare che non sei infinito, che non sei onnipotente, che non sei dio — e in questa accettazione trovare, forse per la prima volta, la libertà di essere ciò che sei.

Perché la libertà vera — quella che i Greci conoscevano e noi abbiamo perduto — non è assenza di vincoli. È agire con grandezza dentro i vincoli. È splendere nel tempo che ti è dato, amare con il cuore che hai, vivere la vita che è la tua. Non un'altra. Questa.

Παιδεία — Educare alla Necessità 

La parola Pedagogia nel mondo greco, non significava ciò che noi oggi intendiamo, non indicava una tecnica di trasmissione di competenze, né un insieme di metodologie finalizzate all'efficienza o all'adattamento.

Paideίa (Παιδεία) da παῖς, παιδός (pais, paidos), “bambino”, “fanciullo”, ma nel senso originario di essere umano in formazione, non di età anagrafica. 

Nella filosofia greca, παιδεία non indica un insieme di tecniche educative, ma il processo mediante il quale l’essere umano viene formato secondo un ordine, diventando capace di partecipare al κόσμος, alla πόλις e al λόγος (logos). 

Platone nella Repubblica la definisce così: παιδεία è il volgere l’anima (περιαγωγή τῆς ψυχῆς) verso ciò che è, non il riempirla di contenuti. Per Aristotele παιδεία è formazione all’ἀρετή (aretè), resa possibile dall’abitudine (ἔθος (ethos)) e dal riconoscimento del limite.

Isocrate ci fornisce un'ulteriore sfumatura παιδεία è ciò che rende l’uomo politico, cioè capace di vivere nella polis secondo misura. 

Era formazione dell'essere, introduzione a un ordine, educazione dello sguardo prima ancora dell'azione.

Il paidagógos (παιδαγωγός) non era colui che insegnava, ma colui che conduceva. Conduceva il fanciullo nello spazio della polis, nei ritmi della vita comune, nelle leggi non scritte che tengono insieme il mondo umano e quello divino.

Educare significava imparare a stare dentro il mondo non a porsi sopra di esso. Non significava liberare l'individuo dai vincoli ma insegnargli a riconoscerli, ad abitarli, a muoversi al loro interno con misura ed intelligenza. Non si trattava di un adattamento passivo, né di sottomissione, ma di un'arte difficile: imparare a essere sé stessi dentro ciò che non dipende da noi. Per questo Anànkē non è mai nel pensiero greco, un ostacolo pedagogico. E’ la sua premessa silenziosa, non esiste pedagogia senza Anánkē. Non si educa contro la necessità. Si educa attraverso la necessità. Anánkē non è il limite che ci impedisce la formazione: è la condizione stessa della forma. Senza limite non c'è figura, senza vincolo non c'è ritmo, senza misura non c'è bellezza. Il caos non educa: dissolve.

E’ la necessità che ordina, che stringe, che tiene insieme e proprio questo rende possibile l'emergere del senso. Non c'è senso senza necessità perché il senso nasce solo dove qualcosa deve essere così e non altrimenti. L'uomo greco viveva dentro il cosmo, non di fronte ad esso, il mondo non era un oggetto da conoscere, ma un ordine da riconoscere; non una materia neutra, ma una trama di leggi, ritmo, corrispondenze. L'uomo greco non si percepiva come soggetto separato che osserva il mondo da fuori. Era immerso nel cosmo in un tessuto vivo: stagioni, corpi, leggi. dei, nascita, morte non erano ambienti distinti ma modulazioni di un unico ordine. La natura era un nomos vivente. 

In questo contesto, educare significava rendere l'individuo capace di sintonizzarsi con tale ordine, di non violarlo, di non eccederlo. L'educazione consisteva nel riconoscere il proprio posto in questo ordine, nel diventare capaci di abitarlo senza violarlo. La modernità cartesiana invece compie un gesto radicale: si stacca dal mondo per dominarlo.

Pone l'uomo fuori dal cosmo lo trasforma in osservatore, in tecnico, in controllore. L'uomo si pone fuori dal mondo per poterlo dominare. La conoscenza diviene controllo, la tecnica diventa promessa di salvezza, la libertà diventa progressiva sottrazione a ogni vincolo. La necessità non è più ciò che dà forma, ma ciò che ostacola il progetto, il limite da superare, va aggirata, spezzata, vinta. In questo slittamento Anánkē diventa nemica.

La modernità usa il concetto di necessità per distanziarsi ancora di più dal reale: lo nomina per neutralizzarlo, lo misura per sottometterlo, lo colloca per illudersi di governarlo. Si possono vincere battaglie tecniche, mediche, ingegneristiche, ma è un'illusione confondere queste vittorie locali con una vittoria sulla legge cosmica. La guerra è persa in partenza, perché è mal posta.

Il greco lo sapeva: Anánkē non è ciò che si vince.

È ciò che rende possibile la bellezza. il senso, la forma stessa della vita.

La Paideίa lo insegnava.

 

Ἐλευθερία – Libertà dentro il vincolo 

Ἐλευθερία (Ἐλευθερία )  deriva dall'aggettivo Eleuthèrios (Ἐλευθέριος) “ libero” non schiavo.

L’etimologia è discussa, ma la maggior parte degli studiosi la collega a una radice indoeuropea *h₁leudh- / *leudh-, che rimanda all’idea di appartenenza a un popolo, a un ceppo o a una comunità. In origine, dunque, ἐλεύθερος (eleutheros) non indica l’individuo isolato, ma colui che appartiene legittimamente a una comunità, che non è strappato al proprio ordine vitale e sociale. 

Ἐλευθερία, libertà, non è innanzitutto “fare ciò che si vuole”. È la condizione di chi non è schiavo, cioè di chi non è sottoposto a un dominio esterno arbitrario. Ma è anche la condizione di chi sta nel proprio luogo, nel proprio νόμος (nomos) (ordine, legge), senza costrizione. La libertà, per i Greci, non è assenza di vincoli. Essere libero significa appartenere a sé stessi — e questo implica sempre un ordine, una legge, una misura. 

L’uomo libero non è colui che fa ciò che vuole, ma colui che sa chi è, conosce il proprio posto, riconosce i limiti entro cui la sua azione ha senso. La libertà è una condizione politica, certo, ma prima ancora metafisica: è l’accordo tra l’essere e il suo modo di agire. La sua libertà non è illimitata, ma situata.

È una libertà che ha contorni, confini, peso. 

Per questo il libero arbitrio, così come viene spesso inteso dall’uomo moderno — la possibilità di scegliere in modo assolutamente indipendente da qualsiasi vincolo — è un’idea estranea al pensiero greco. Il libero arbitrio moderno, nasce da una rottura: dall’illusione che il soggetto possa esistere senza mondo, senza corpo, senza storia. È una libertà che non appartiene più a nessun ordine e proprio per questo si trasforma in arbitrio, in oscillazione, in angoscia. È una libertà senza mondo, una volontà sradicata, una potenza che pretende di creare sé stessa dal nulla. Quando la libertà viene separata dalla necessità, perde consistenza, una volontà che non incontra resistenza e dunque non ha una forma, è solo un'illusione. E’ una libertà che pretende di crearsi da sé, ma che, non trovando nulla a cui aderire finisce per consumarsi in una proliferazione di scelte prive di peso. L'assenza di vincolo non genera potenza ma dispersione. Il pensiero greco pone una domanda più esigente e più radicale:

come si esercita la libertà quando si vive in stretto contatto con la necessità?

come agire bene dentro i vincoli che ordinano il caos e danno forma all’universo?

La risposta non è teorica, ma pratica. È un’arte del vivere. Lo senti risuonare dentro di te come una necessità? L’arte del vivere…

Qui Anánkē non è negazione della libertà, ma sua condizione. Solo ciò che è vincolato può essere scelto; solo ciò che è limitato può assumere peso; solo una vita finita può diventare una vita buona. La libertà in questa prospettiva, non consiste nel sottrarsi all'ordine del mondo, ma nel riconoscerlo e abitarlo con intelligenza misura e responsabilità.

Il soggetto greco non si pensa come sovrano assoluto delle proprie possibilità, ma come parte di un cosmo che lo precede e lo eccede. Per questo la libertà non è mai separata dal κόσμος, dall’ordine che tiene insieme il tutto. Essere liberi significa non essere schiavi — non di un padrone esterno, ma nemmeno delle proprie passioni, delle illusioni di onnipotenza, del desiderio di sottrarsi alla finitezza. La saggezza, allora, non consiste nel pretendere che il mondo si conformi alla nostra volontà, ma nel conformare la volontà a ciò che accade. Non nel voler ottenere ciò che desideriamo, ma nel desiderare ciò che accade. È una libertà interiore, non perché privata o intimistica, ma perché radicata là dove l’uomo ha realmente potere: nel modo in cui assume la necessità, nel modo in cui risponde a ciò che gli accade. In questo senso, la libertà non è mai una libertà dalla necessità, ma una libertà nella necessità. È la capacità di non spezzarsi di fronte al limite, di non frammentarsi davanti all’inevitabile, di non trasformare il vincolo in nemico. Anánkē non è ciò che ostacola il senso, ma ciò che lo rende possibile. È la condizione stessa della forma, della bellezza, dell’ordine. Quando questa consapevolezza viene meno, la libertà si rovescia nel suo contrario. Non produce autonomia, ma smarrimento; non genera responsabilità, ma impotenza mascherata da scelta; non apre al mondo, ma isola il soggetto in un infinito senza direzione. Educare alla libertà, allora, non significa insegnare a eliminare i vincoli, ma a riconoscerli. Non a fuggire la necessità, ma a starle davanti senza cedere alla distruzione o alla negazione. È questo il compito più alto della paideía: rendere l’essere umano capace di vivere dentro l’ordine del mondo senza sentirsi annientato, di accettare Anánkē senza rinunciare all’azione, di trasformare il limite in luogo di senso. Solo così la libertà smette di essere un’astrazione e diventa una pratica. Solo così la vita, pur finita, può diventare una vita buona. 

Educare alla necessità: da Anánkē cosmica a principio formativo 

Con Platone inizia un passaggio decisivo nella storia del pensiero occidentale: la necessità smette di essere soltanto una potenza cosmica originaria e viene posta, per la prima volta, in relazione esplicita con il fine. Nel Timeo, Anánkē non scompare, non viene negata, ma viene persuasa (πείθειν). Il Demiurgo non la domina né la elimina: la convince a cooperare con il Nous, con l’Intelletto ordinatore, affinché dal disordine emerga un cosmo intelligibile. Questo gesto è cruciale. La Necessità, che nei miti arcaici precede gli dèi e li vincola, entra ora in un dialogo con il τέλος (telos). Non è più solo ciò che accade perché deve accadere, ma ciò che può essere orientato verso il bene, verso il meglio possibile. La persuasione non annulla Anánkē: ne riconosce la potenza, ma tenta di darle una direzione.  

E tuttavia il tremendum non è ancora dissolto.

Nel mito di Er, il fuso di Anánkē continua a reggere il cosmo; le Moire — Cloto, Lachesi e Atropo — cantano ai suoi piedi, intessendo il destino delle anime. Qui la necessità non è ancora addomesticata: è fondamento, peso, gravità metafisica. Ma già si intravede la domanda che attraverserà tutta la filosofia successiva e che diventerà, implicitamente, una questione pedagogica: qual è il rapporto tra ciò che deve essere e ciò verso cui si tende? 

Educare, a partire da Platone, non sarà più soltanto introdurre l’anima all’ordine del cosmo, ma insegnarle a orientarsi tra necessità e bene, tra vincolo e direzione. La paideía diventa progressivamente un’arte dell’orientamento. Con Aristotele questo passaggio si sistematizza. La necessità viene sottratta al registro mitico e inserita in una griglia concettuale rigorosa. Aristotele distingue tra necessità assoluta — ciò che non può essere altrimenti — e necessità ipotetica o condizionale, quella che vale in vista di un fine.

È la celebre ἀνάγκη ἐξ ὑποθέσεως: se si vuole ottenere un determinato risultato, allora alcune condizioni diventano necessarie. La formula è precisa e decisiva: il necessario è nella materia, il fine è nel logos.  La materia obbedisce a leggi di necessità, ma queste leggi sono subordinate alla forma e al fine. Se l’ascia deve tagliare, allora deve essere di ferro. La necessità non precede più ogni cosa: viene inglobata nella spiegazione causale come uno dei momenti del processo. Anánkē, qui, perde il suo carattere primordiale e diventa una categoria analitica. Non è più la potenza che regge il cosmo, ma lo strumento concettuale con cui si spiegano i processi naturali e tecnici. Questo ha un effetto ambivalente sul piano educativo: da un lato rende la necessità intelligibile, insegnabile, trasmissibile; dall’altro ne attenua il peso esistenziale. Ciò che può essere spiegato tende a non far più tremare. 

Con gli Stoici si compie l’identificazione finale. Anánkē, Heimarméne (il Fato), Prónoia (la Provvidenza), Lógos, Zeus: nomi diversi di un’unica realtà. Il cosmo è retto da una necessità che è insieme razionale e provvidenziale. Nulla accade senza causa, nulla senza senso. La necessità non è cieca: è intelligenza diffusa, ragione immanente. Qui il cerchio sembra chiudersi. La necessità che per gli Orfici precedeva gli dèi diventa essa stessa divina. Ma in questa identificazione qualcosa si perde: l’alterità radicale della Necessità, la sua capacità di eccedere il senso umano. Se Anánkē è Lógos, se la necessità è pienamente razionale, allora può essere compresa; e ciò che può essere compreso non incute più timore. La pedagogia stoica nasce esattamente in questo spazio: non insegna a eliminare la necessità, ma a riconoscerla come ordine razionale e ad aderirvi interiormente. È una pedagogia della libertà nella necessità, ma anche una pedagogia che presuppone un cosmo già pacificato sul piano del senso. Gli Stoici hanno espresso con estrema chiarezza questa sapienza antica.

Quando Epitteto distingue tra:

τὰ ἐφ’ ἡμῖν (ta eph' hēmîn) - "le cose che dipendono da noi"

τὰ οὐκ ἐφ’ ἡμῖν (ta ouk eph' hēmîn) - "le cose che non dipendono da noi"

non sta proponendo una tecnica di auto-controllo, ma una vera e propria pedagogia dell’anima. Ciò che dipende da noi non coincide con ciò che desideriamo, ma con ciò che possiamo governare: il giudizio, l’assenso, l’orientamento dell’azione. Tutto il resto — il corpo, la salute, il riconoscimento, la durata della vita, la morte — appartiene all’ordine della necessità. La saggezza non consiste nel ridurre ciò che non dipende da noi, ma nel ridurre l’illusione che tutto dipenda da noi.  

Volere ciò che accade non significa giustificare l’ingiustizia o negare il dolore. Significa smettere di opporre al reale una volontà impotente. È un atto di lucidità, non di resa. È scelta consapevole è essere presenti a sé stessi, decidere che direzione prenderà la propria nave. Ma le condizioni del mare, quelle no, non possono essere decise. 

Nei neoplatonici, infine, Anánkē viene reintegrata in una gerarchia metafisica più ampia. In Plotino si distingue tra una necessità “persuasa”, che coopera con il Bene, e una necessità “non persuasa”, che resiste e permane come residuo dell’alterità. Proclo subordina completamente la necessità al fine: tutto ciò che è per il fine è necessario. La Necessità diventa funzione dell’Uno, momento dell’emanazione e del ritorno.

Il percorso è così completo: dalla Potenza che precede ogni cosa, si è giunti a una necessità pienamente integrata nell’economia del Tutto. 

Dalla necessità cosmica alla necessità psichica 

Tutto questo lavoro non è nostalgia archeologica. È necessità pedagogica. 

Il lungo percorso che conduce Anánkē dalla potenza cosmica originaria a principio subordinato nell’economia del fine lascia una traccia profonda nel modo in cui l’Occidente penserà la formazione dell’umano. Man mano che la necessità viene razionalizzata, integrata, resa comprensibile, essa perde progressivamente il suo carattere perturbante. Ciò che resta fuori dal logos viene marginalizzato, relegato ai confini del pensabile. 

E tuttavia, ciò che viene rimosso dal piano cosmologico riemerge altrove. Quando la necessità non può più essere pensata come forza che struttura il mondo dall’esterno, torna a imporsi dall’interno, nella forma di una necessità psichica che resiste alla volontà, al progetto, al controllo razionale. È qui che il pensiero moderno incontra nuovamente Anánkē, pur senza nominarla. La necessità non è scomparsa; ha cambiato luogo. Se il pensiero moderno ha creduto di emanciparsi dalla necessità attraverso la razionalizzazione e il dominio tecnico, la psicoanalisi mostra il prezzo di questa illusione: una soggettività fragile, esposta alla frammentazione, incapace di tollerare la frustrazione. Viviamo in una cultura che promette possibilità infinite e produce soggetti fragili, incapaci di tollerare il limite, la frustrazione, la perdita.  

Freud è uno dei pochi moderni ad aver riconosciuto, senza nominarla esplicitamente, la potenza di Anánkē. In Al di là del principio di piacere, mostra come l’apparato psichico non sia guidato solo dalla ricerca del piacere, ma sia costretto a confrontarsi con una necessità più profonda, che introduce ripetizione, limite, realtà. In Il disagio della civiltà, Anánkē appare come la forza che obbliga l’uomo a rinunciare all’onnipotenza pulsionale per poter vivere insieme agli altri. La maturità psichica non è eliminazione del conflitto, ma capacità di reggere la tensione tra desiderio e realtà. È accettazione della necessità senza frammentarsi.

Qui Freud è radicalmente greco. 

La rimozione di Anánkē non ha liberato l’uomo: lo ha reso impotente, uno schiavo frustrato, cieco al suo dissociamento. Serve oggi un lavoro educativo sul sé che ricostruisca il rapporto con la realtà.

Dewey lo aveva compreso: l’educazione non è preparazione alla vita, ma vita stessa, esperienza situata, incarnata, vincolata. Non esiste apprendimento senza contesto, senza attrito, senza resistenza del reale.

Vygotskij mostra che lo sviluppo avviene dentro limiti condivisi, attraverso mediazioni simboliche e sociali. La zona di sviluppo prossimale non è uno spazio infinito, ma una soglia: senza vincolo non c’è crescita.

Freire parla di coscientizzazione: non libertà astratta, ma presa di coscienza delle condizioni storiche e materiali che ci determinano. Solo riconoscendo questi vincoli è possibile trasformarli — non negarli.

Rosenberg, con la Comunicazione Nonviolenta, insegna a distinguere tra bisogni universali e strategie contingenti: ancora una volta, discernere ciò che è necessario da ciò che è negoziabile.

Hillman restituisce ad Anánkē il suo posto nella psiche: il limite come principio formativo, il destino come vocazione, non come condanna.

Jung parla di individuazione come allineamento dell’Io con la necessità interna del Sé: ciò che deve diventare non è arbitrio, ma riconoscimento.

Foucault, nella cura di sé, mostra che la libertà non è spontaneità, ma pratica, disciplina, esercizio entro regole.

E Freud, ancora, ci ricorda che la civiltà esiste solo perché l’uomo accetta di non essere tutto. 

Educare alla necessità, oggi, significa allora riaprire questo spazio rimosso. Significa riconoscere che senza un confronto reale con il limite non c’è autonomia, ma dipendenza mascherata; non c’è libertà, ma oscillazione; non c’è desiderio, ma consumo. In questo senso, la pedagogia della necessità non è regressiva né repressiva. È, al contrario, una pedagogia della realtà. Restituisce alla formazione il suo compito più alto: accompagnare il soggetto nel passaggio dall’illusione di onnipotenza alla possibilità di una vita abitabile. 

Anánkē, nella sua forma moderna, non chiede obbedienza cieca. Chiede riconoscimento. E solo ciò che viene riconosciuto può essere assunto senza distruggere il soggetto. 

Questo lavoro pedagogico è oggi indispensabile perché siamo disancorati dal reale. La crisi educativa contemporanea nasce da un equivoco profondo: abbiamo confuso la formazione con l’eliminazione del limite. Abbiamo educato generazioni a credere che ogni vincolo sia un’ingiustizia, che ogni frustrazione sia un trauma, che ogni necessità sia un abuso. Il risultato non è stata una maggiore libertà, ma una crescente fragilità psichica. Una pedagogia della Necessità non è una pedagogia autoritaria. È una pedagogia realistica. Ma proprio qui si apre la questione che interpella il presente. Se la necessità è solo ciò che è già ordinato, già razionalizzato, già pacificato, allora l’educazione rischia di perdere il suo compito più difficile: insegnare a stare di fronte a ciò che non si lascia interamente comprendere, a ciò che resiste, a ciò che pesa. Educare alla necessità, oggi, non può limitarsi a spiegare il mondo. Deve restituire all’esperienza del limite il suo spessore esistenziale, senza ricadere nel mito né dissolverla nell’astrazione. Deve insegnare a riconoscere Anánkē non come nemica, ma come condizione della forma — senza dimenticare che essa resta, sempre, qualcosa che eccede il nostro dominio. Abbiamo bisogno di reimparare a stare nel mondo, non sopra di esso, abbiamo Necessità di riconoscere noi stessi, i nostri confini, la nostra interiorità per sbocciare, c’è un'urgenza nel riappropriarsi di sé stessi, è un urlo di sottofondo costante, gli occhi delle nuove generazioni lo specchiano nel mondo.  Educare in primis è educare sé stessi, accettare Anánkē non significa rinunciare alla libertà, ma restituirle corpo, peso, senso. Significa ricostruire una maturità psichica capace di reggere la vita così com’è, senza dissolversi nel caos delle possibilità infinite.

Significa Essere Libero

Anánkē non è la fine dell’educazione.

È il suo inizio.

Pubblicato il 24 dicembre 2025

Giuseppe Massimiliano Salamone

Giuseppe Massimiliano Salamone / Passo il tempo presso domus.LAB INTERIOR & DESIGN

Benedetta Mastroviti

Benedetta Mastroviti / Educatrice Professionale