Ancora Foucault? Follia.
di Keren Ponzo, Università di Vienna, Phd Stud.
Parole
Scrive Oliver Sacks[1]:
Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. […] Per essere noi stessi, dobbiamo avere noi stessi- possedere, se necessario ripossedere, la storia del nostro vissuto. Dobbiamo «ripetere» noi stessi, nel senso etimologico del termine, rievocare il dramma interiore, il racconto di noi stessi. L'uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé[2].
La parola dispiega l’essere e nel silenzio il corpo parla, così lo sguardo, la postura. Non ascoltare la parola dell’altro, negare questo spazio e questo tempo di libertà significa negare l’Altro. Con le parole di Lingiardi, le narrazioni uniscono, creano ponti, e se è vero, come dice Montaigne, che la parola detta appartiene sia a chi dice sia a chi ascolta, negarla afferma la negazione di quella appartenenza, nega quel ponte, crea una incommensurabile distanza e determina la frattura. Non più un noi, il tempo dell’Altro è ricusato. La sponda opposta del fiume carsico, che solo a tratti emerge e si fa luce, diviene lontanissima, irraggiungibile e con lei ogni forma di conoscenza, compresa quella di sé, lontana ogni possibilità di essere accompagnati verso nuovi orizzonti, prospettive negate. Si è relegati in un solipsismo totalizzante, in una stanza senza porte e senza finestre, obbligati a pensare sempre gli stessi pensieri, a esplorare, con la stessa flebile luce, sentieri già percorsi con le stesse scarpe inadatte, che non portano a nulla e a nessuno.
Ci si continua a perdere. Si resta perduti.
Nella parola negata, nel contesto della malattia, il tradimento del dono di Prometeo agli uomini, è ancora più struggente e definitivo. Quando Eschilo scrive, nel suo Prometeo incatenato al verso 248:
Prometeo: Distolsi gli umani dal guardare fisso il proprio destino di morte
Coro: E quale farmaco scopristi contro questa malattia?
Prometeo: Insediai in loro cieche speranze
Coro: Gran beneficio fu questo per gli uomini
afferma la necessità endemica della speranza per l’essere umano, speranza che si costituisce e si rinnova nella relazione dialogica con l’Altro:
Oceano: Ignori, Prometeo, che le parole sono medicina per l'animo malato di rabbia?
Prometeo: Purché si mitighi il cuore nel momento opportuno, e non si pretenda di soffocare a forza l’animo che ribolle[3].
La storia antica insegna e diviene terreno di indagine per i professionisti della salute mentale nel momento in cui viene analizzata per ampliare la comprensione degli effetti del trauma e dei possibili trattamenti. «Il modo in cui una società o le sue sottoculture delimitano la normalità psicologica e il disordine determina l'atteggiamento verso i malati e il trattamento che possono ricevere. Tuttavia, e data la diversità culturale delle società antiche e moderne, la coerenza delle reazioni psichiatriche per combattere lo stress nel corso della storia è notevole»[4].
La guerra, ogni guerra in ogni tempo, comporta, oltre le perdite umane, la perdita di sé, traumi psicologici: la paura di essere uccisi, e di uccidere un altro essere umano, determina la possibilità estremamente concreta di un trauma le cui conseguenze psichiche possono essere a lungo termine[5]. Ustinova e Cardeña fanno emergere come il combattimento ravvicinato, il guardare gli occhi dell’uomo che muore e inerme sentirlo da vicino, comportasse una maggiore esposizione del soldato antico al collasso psichico: possibili mutilazioni e morte erano l’orizzonte traumatico in cui il soldato era immerso. Senofonte, nell’Anabasi, nel descrivere i momenti precedenti alla battaglia, scrive che i soldati devono essere indotti a pensare "non a ciò che stanno per soffrire, ma a ciò che stanno per fare", uno spostamento sostanziale. Disperazione, angoscia, morte, incubi, depressione: non sembra esserci molta letteratura medica a riguardo fino al V secolo a.C in cui fece la comparsa un trattamento di cura, la «cura parlante»[6]. Antifonte, secondo l’analisi di Watzlawick dei frammenti a noi pervenuti, fu il primo ad usare il linguaggio come metodo di cura:
egli, in primo luogo, faceva parlare il malato della sua sofferenza e lo aiutava poi con un tipo di retorica che utilizzava appunto, sia nella forma sia nel contenuto, le asserzioni dello stesso malato, e che dunque, in senso del tutto moderno, si poneva al servizio di una ristrutturazione di ciò che il malato riteneva `reale' o `vero' - e dunque del cambiamento dell'immagine del mondo per la quale egli soffriva[7].
Plutarco lo descrive così: «Mentre si occupava ancora di poesia compose un'Arte dell'immunità dal dolore, in modo analogo a quella che è per i malati la cura fatta loro dai medici. In Corinto organizzò presso il foro una stanza e divulgò l'annuncio che egli aveva la capacità di curare, per mezzo della parola, gli affetti, e, conosciute le cause dell'afflizione, placava i malati»[8]. Altre importanti testimonianze, per citarne solo alcune, dell’uso della parola che cura si scorgono, senza troppi veli, in Euripide, nelle Baccanti e nella Follia di Eracle, in Aristofane, Le vespe, e in Gorgia, che nell’Encomio di Elena scrive: «la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà»[9].
Una questione etica
La crepa profonda nata dalla parola negata nella malattia, quel relegare il paziente, specialmente nella follia, a un sintomo individuato, a ciò che si pensa sia perché si percepisce evidente e corrispondente a un sapere già dato, nega ogni forma di riscatto. Lacan scrive «è già assolutamente chiaro che il sintomo si risolve per intero in un'analisi di linguaggio, poiché è esso stesso strutturato come un linguaggio, è linguaggio la cui parola dev'essere liberata»[10] . Per dirla con Lingiardi e con Jung, è la ferita del medico che guarisce il paziente, è il riconoscimento della propria ferita nell’Altro, è il riconoscimento dell’Altro come medesimo:
Il medesimo si lascia dire solo quando è pensata la differenza. Nel determinarsi del differente viene in luce l’essenza riunente del medesimo. Il medesimo esclude ogni ansia di risolvere il differente sempre solo nell’uguale. Il medesimo riunisce il differente in un’unione originaria. L’uguale, per contro, disperde nell’insipida unità dell’uno unicamente uniforme[11].
E allora ci vuole coraggio per essere l’Altro che libera. Ci vuole coraggio per ascoltare la parola che anche nel silenzio urla. La follia inquieta e si preferisce metterla a tacere e riunirla in qualcosa di semplice, di codificato, di noto. Possiamo leggere le parole di Foucault e apprezzarne tutta la complessità:
La storia della follia sarebbe la storia dell'Altro- di ciò, che per una cultura, è interno e nello stesso tempo estraneo, e perciò da escludere (al fine di scongiurare il pericolo interno), ma includendo (al fine di ridurre l’estraneità). […] E se pensiamo che la malattia non è soltanto il disordine, la pericolosa alterità entro il corpo umano e persino entro il cuore della vita, ma anche un fenomeno di natura che alle sue regolarità, le sue somiglianze i suoi tipi, è evidente l'importanza che potrebbe assumere un'archeologia dello sguardo medico[12].
Foucault ci dice che quando si parla di sguardo, lo sguardo medico, «si parla dello spazio, del linguaggio e della morte»[13], si parla del rapporto fra visibile e invisibile e del modo in cui si rapporta al detto e al non detto, e aggiunge che «per cogliere la mutazione del discorso all'atto della sua produzione bisognerà interrogare qualcosa di diverso dai contenuti tematici o dalle modalità logiche, e volgersi verso la regione in cui le «cose » e le «parole» non sono ancora separate, là dove, a fior del linguaggio, modo di vedere e modo di dire si compenetrano ancora»[14].
Bisogna non cercare la razionalità di un linguaggio embricato nelle faglie di un già saputo, ma lasciare che la parola si esprima libera, senza identificarne il contenuto in una presunta sua verità, così lontana e diversa dalla verità. Bisogna non fermarsi alla certezza che lo sguardo rimanda, a una evidenza empirica che sola pretende di dire il vero, che l’occhio accoglie perché le ha dato la vita. La parola che non si ascolta, il silenzio che non si rispetta, fanno del malato un oggetto da conoscere, non una persona da comprendere, negandole, di fatto, la possibilità di un qualsiasi vissuto interno, impedendo di cogliere il suo mondo, il suo proprio modo di essere[15] e sterilizzando l’incontro dalla componente emozionale, che sola può riconoscere la matrice della medesima struttura esistenziale umana[16] . Il dire del medico, così, si fa commento, che interroga
il discorso su ciò che ha detto e ha voluto dire; cerca di far sorgere questo doppio fondo della parola, in cui questa si ritrova in una identità con se stessa che si suppone più vicina alla sua verità; si tratta, enunciando ciò che è stato detto, di ridire ciò che non è mai stato pronunciato. […] per definizione, parlare sul pensiero degli altri, cercar di dire quel ch’essi hanno detto, significa fare un'analisi del significato. Ma è proprio necessario che le cose dette, altrove da altri, siano trattate esclusivamente in base al gioco del significante e del significato […]?[17].
La riflessione foucaultiana sulla follia permette di cogliere quelli che, ancora oggi in molte realtà, sono aspetti condizionanti la visione del disagio psichico, percepito come specchio deformante delle nostre paure. Si è dovuto attendere il pensiero fenomenologico per riportare al centro del discorso psichiatrico gli stati d’animo, l’importanza della relazione e dei vissuti di entrambe le parti, medico e paziente: il sapere tecnico lasciava finalmente il trono e condivideva lo spazio col sentire dell’altro.
Se pensiamo che in Italia è stato solo grazie alla lotta portata avanti da Basaglia, negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, che gli ospedali psichiatrici sono stati riformati, che i malati psichici, i folli, sono stati riconosciuti come persone aventi gli stessi diritti delle persone senza disturbi, che il trattamento della malattia ha visto centrale il ruolo della parola, del dialogo, questa relazione fra medico e paziente che per la prima volta si vedeva realizzata in uno spazio aperto non solo metaforico, ma reale, allora comprendiamo la difficoltà ad accogliere un pensiero e una postura altra. Non si tratta di non definire il disturbo: si tratta di non farlo diventare la persona. L’oggettivazione dell’essere umano, che avviene nell’identificazione col suo disturbo, costituisce quello slittamento semantico che dalla cura, dalla trasformazione del soggetto, muta nel piano conoscitivo dell’oggetto e come questo viene esperito, nel suo metodo. Foucault è chiaro quando scrive che «invece di cercare per prima cosa quello che è ammesso, riconosciuto o avvalorato da una società, mi sono chiesto e continuo sempre a chiedermi se non sarebbe più interessante cercare ciò che, in una società o in un sistema di pensiero, viene rifiutato ed escluso. […]
È in questo modo che ho cominciato a interessarmi al problema della follia»[18]. Il problema della follia, con cui la ricerca del Professore è iniziata, assume la valenza di un problema etico nel momento in cui è parte di quella cornice più ampia che è la relazione con sé e con gli altri, che culmina nella questione della cura: dalla cura medica del folle a quella rieducativa del carcerato, la cura come presa in carico dallo Stato (l’anatomo-politica del singolo e la biopolitica della popolazione[19]) e «anche la pratica di normalizzazione della sessualità così come quella morale della confessione»[20] . Sebbene Foucault abbia specificato che il suo intento fosse «piuttosto, di vedere come i processi abbiano potuto interferire tra di loro nella costituzione di un ambito scientifico, di una struttura politica, di una pratica morale»[21], possiamo interrogarci se il modo in cui l’inferenza, e l’interferenza, non siano esse stesse, nel loro svolgersi, una questione etica:
Ho cercato […] di vedere come, nella costituzione della psichiatria come scienza, nella delimitazione del suo campo e nella definizione del suo oggetto, fossero implicate una struttura politica e una pratica morale: nel doppio senso che esse erano dei presupposti dell’organizzazione progressiva della psichiatria come scienza e che esse erano anche influenzate dalla costituzione della psichiatria.
Senza una serie di strutture politiche e senza un insieme di atteggiamenti etici non sarebbe potuta esistere una psichiatria come quella che conosciamo; ma, inversamente, la costituzione della follia in un ambito di sapere ha influito sulle pratiche politiche e gli atteggiamenti etici che la riguardavano. Si trattava di determinare la parte della politica e dell’etica nella costituzione della follia come ambito particolare di conoscenza scientifica; ma anche di analizzare gli effetti di quest’ultima sulle pratiche politiche ed etiche[22] .
E soprattutto «bisognerebbe interrogarsi sulla nozione di “mondo patologico” e su quanto lo distingue dall’universo costruito dall’uomo normale»[23], e «se la soggettività dell’insensato e, al tempo stesso, appello e abbandono al mondo, non è forse al mondo stesso che bisogna chiedere il segreto del suo enigmatico statuto? La malattia non comporta forse un nucleo di significati che deriva dall'ambito in cui si è manifestata -e in primo luogo il semplice fatto di esservi circoscritta in quanto malattia?»[24].
La malattia, dunque, trova il suo statuto all’interno di una cornice culturale che la riconosca tale[25], statuto che nel corso del tempo porta al bando di tutti coloro che «in rapporto all'ordine della ragione, della morale e della società, danno segni di disordine»[26]. Il diverso risulta pericoloso e come tale va recluso e punito[27]. Lo stigma sociale che ne deriva tiene a sé biunivocamente “chi dice” e “chi è detto”, in una rappresentazione simbolica del dentro e del fuori e proprio per questo la maggior parte dei tentativi degli stigmatizzati di riappropriarsi dello status di normale sono percepiti come un ulteriore rinforzo dello stigma[28].
Ogni tempo sente questo pericolo e lo esprime, culturalmente, nelle varie forme di esclusione, attivando «tattiche di spartizione (che) fanno da cornice alla percezione della follia»[29]. Il folle è riconosciuto attraverso un atto non semplice e neanche immediato: si basa infatti su un certo numero di operazioni preliminari e soprattutto sulla segmentazione dello spazio sociale secondo le linee della valorizzazione dell'esclusione. È l'esistenza di questa soglia che consente al medico, quando per esempio crede di poter diagnosticare la follia in quanto fenomeno di natura, di giudicarla appunto come follia. Ogni cultura ha la propria soglia particolare, che si evolve a seconda delle configurazioni che quella stessa cultura viene assumendo[30]. Possiamo allora comprendere, e valutarne drammaticamente l’attualità, quando Foucault afferma con forza che le dimensioni della follia devono essere accolte e collocate all’interno della cornice di senso che inerisce al rapporto dell’uomo occidentale con se stesso, rapporto con cui l'uomo ha sostituito il proprio rapporto con la verità, alienandolo nel postulato fondamentale secondo cui è lui stesso la verità della verità.
Questo rapporto fonda filosoficamente ogni possibile psicologia, e ha potuto definirsi solo a partire da un preciso momento della storia della nostra civiltà: dal momento in cui il grande confronto tra la Ragione e la Sragione ha cessato di abitare la dimensione della libertà, dal momento in cui per l'uomo la ragione ha cessato di essere un'etica e si è trasformata in una natura. Allora la follia è diventata natura della natura, ossia processo di alienazione della natura, imprigionata ormai nel suo determinismo, così come la libertà, diventando anch'essa natura della natura, assumeva il senso di anima segreta, di esistenza inalienabile della natura. E l'uomo, anziché trovarsi di fronte alla grande partizione dell'insensato e nella dimensione da essa inaugurata, è diventato, a livello del suo essere naturale, questo e quello, follia e libertà, col privilegio, derivante dalla propria essenza, di conglobare in sé il diritto di essere natura della natura e verità della verità[31].
Bisogna lasciare che la parola si esprima libera, senza identificarne il contenuto in una presunta sua verità.
Bibliografia
- Foucault, M., Malattia mentale e psicologia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997
- Foucault, M., Storia della follia nell’età classica, Bur, Milano 2019
- Foucault, M., Nascita della clinica, un’archeologia dello sguardo medico, Giulio Einaudi editore, Torino 1998
- Foucault, M., Estetica dell’esistenza, etica, politica Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978- 1985, Feltrinelli Editore, Milano 2020
- Foucault, M., Le parole e le cose, Ed. Bur Saggi, Milano 2020
- Eschilo, Prometeo incatenato vv 379-382, in Eschilo-Sofocle-Euripide. Tutte le tragedie, Bompiani, Milano 2013
- Heidegger, M., Essere e Tempo, ed. Longanesi, Milano 2019
- Heidegger, M., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976
- Gorgia, Encomio di Elena, I Presocratici, testimonianze e frammenti, Editori Laterza, Bari 1969
- Goffman, I., Stigma. L'identità negata, Ombre Corte, Verona 2003
- Lacan, J., Scritti, vol.1, Einaudi, Torino 2002
- Lingiardi, V., Diagnosi e destino, Giulio Einaudi editore, Torino 2018
- Scheler, M., Essenza e forme della simpatia, I, Milano, Franco Angeli, 2010
- Ustinova, Y., Cardeña, E., Psychological Trauma: Theory, Research, Practice, and Policy, 2014 Vol. 6, No. 6
- Casulli, S., Dentro la positività della formazione, Materiali foucaultiani.Francesco Cappa | Foucault come educatore (materialifoucaultiani.org)
- La Greca, F., Il divano di Antifonte. Psicoterapia strategica nell'Atene del V sec. a.C., http://www.molisepsicologia.it/
Note
[1] Oliver Sacks è nato nel 1933 a Londra, in Inghilterra, in una famiglia di medici e scienziati. Ha conseguito la laurea in medicina presso l'Università di Oxford (Queen's College). Nel 1965 si trasferisce a New York, dove è neurologo praticante e autore fino alla sua morte nel 2015. Dal 2007 al 2012, è stato professore di neurologia e psichiatria presso il Columbia University Medical Center, ed è stato anche designato primo artista della Columbia University dell'università. Dal 2012 al 2015, il Dr. Sacks è stato professore di neurologia presso la NYU School of Medicine, dove ha praticato come parte del NYU Comprehensive Epilepsy Center. È stato anche visiting professor presso l'Università di Warwick. I suoi lavori (ricordo, per citare alcuni lavori, Risvegli del 1973, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello del 1985 ed Emicrania, work in progress dal 1971 e ripubblicato nel 1992) costituiscono ancora un punto di riferimento per studiosi e scienziati. Cfr. www.oliversacks.com.
[2] Cit. in V. Lingiardi, Diagnosi e destino, Giulio Einaudi editore, Torino 2018, p.23.
[3] Eschilo, Prometeo incatenato vv 379-382, in Eschilo-Sofocle-Euripide. Tutte le tragedie, Bompiani, Milano 2013, p.481.
[4] Y. Ustinova e E. Cardeña, Psychological Trauma: Theory, Research, Practice, and Policy, 2014 Vol. 6, No. 6, 739 –748.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p.745.
[7] F. La Greca. Il divano di Antifonte. Psicoterapia strategica nell'Atene del V sec. a.C., http://www.molisepsicologia.it/.
[8] Ibidem, cit.
[9] Gorgia, Encomio di Elena, I Presocratici, testimonianze e frammenti, Editori Laterza, Bari 1969, p.929.
[10] J. Lacan, Scritti, vol.1, Einaudi, Torino 2002, p.262.
[11] M. Heidegger, Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 129.
[12] M. Foucault, Le parole e le cose, Ed. Bur Saggi, Milano 2020, p.14.
[13] M. Foucault, Nascita della clinica, un’archeologia dello sguardo medico, Giulio Einaudi editore, Torino 1998, p.3.
[14] Ivi, p.5.
[15] Cfr. Scheler «Non è possibile intendere la persona nei termini di una mera connessione degli atti; […] uno sguardo rivolto alla persona stessa e alla sua essenza […] lascia che l’unicità del contenuto originario a priori affiori immediatamente in ogni atto che sappiamo compiuto da lei - ovvero, ogni contenuto dei suoi atti, permette di approfondire la conoscenza del suo “mondo”», Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, pp.751,753, e ancora: «L’amore vero consiste nel comprendere sufficientemente un’altra individualità differente dalla mia, nel potermi mettere al suo posto pur mentre la considero come altra da me e differente da me e pur mentre affermo, col calore emozionale e senza riserva, la sua propria realtà, il suo proprio modo d’essere» in Essenza e forme della simpatia, I, cap. IV, § 3, Milano, Franco Angeli, 2010.
[16] Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, ed. Longanesi, Milano 2019, §32.
[17] M. Foucault, Nascita della clinica, un’archeologia dello sguardo medico, Giulio Einaudi editore, Torino 1998, pp 10-11.
[18] M. Foucault, Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978- 1985, Feltrinelli Editore, Milano 2020, p.68.
[19] Cfr. S. Casulli, Dentro la positività della formazione, Materiali foucaultiani.
[20] Ibidem.
[21] M. Foucault, Estetica dell’esistenza, etica, politica Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978- 1985, Feltrinelli Editore, Milano 2020, p.261.
[22] Ibidem.
[23] M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, p.64.
[24] Ivi, p. 65.
[25] Ivi, p. 69.
[26] Ivi, p. 79.
[27] Per uno sviluppo appropriato del tema, si rimanda a Foucault, Storia della follia nell’età classica, Bur, Milano 2019.
[28] Crf. I. Goffman, Stigma. L'identità negata, Ombre Corte, Verona 2003.
[29] M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, p.89.
[30] Ivi, pp.89 e 90.
[31] Ivi, pp. 100 e 101.
In un mondo in cui domina l'ignoranza, la follia è essere saggi!
In a world where ignorance dominates, madness is being wise!