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Parlare dell’arte, si sa, è pericoloso. Non solo perché ci si avventura in una selva semantica dove ogni parola è già usata, abusata, svuotata, risignificata e poi ancora capovolta; ma anche perché chi ne parla troppo, spesso non crea nulla. Eppure, ci ostiniamo a voler dire cosa sia l’arte, come se una tale entità — sfuggente, meticcia, proteiforme — potesse davvero essere contenuta in un lemma o, peggio ancora, in un saggio. Tuttavia, anziché inseguire una definizione essenziale, come farebbe un metafisico neoplatonico, si potrebbe tentare un approccio più fenomenologico: non chiedersi cos’è l’arte, ma come si manifesta, cosa fa, a quali logiche risponde quando agisce nel mondo.


E allora osserviamo. Vi è una forma di arte che si manifesta nella perizia manuale, nella precisione del gesto, nella sapienza accumulata attraverso l’iterazione: un sapere incarnato nella mano, nella consistenza della materia, nella ripetizione millimetrica. Non si tratta semplicemente di artigianato, ma di una visione del mondo in cui la bellezza coincide con la riuscita della forma, dove ogni errore è una frattura ontologica e ogni riuscita un piccolo miracolo di coerenza tra l’idea e la cosa. Il pittore che prepara per giorni il fondo della tela, il ceramista che conosce la curva che resiste alla cottura, il restauratore che sa quando fermarsi — tutti questi soggetti non sono “creativi” nel senso banale del termine, ma artigiani del possibile. Essi non improvvisano, piuttosto ascoltano le leggi del materiale come un esegeta ascolta il testo sacro. Non parlano sopra la materia, ma con essa.

ogni errore è una frattura ontologica e ogni riuscita un piccolo miracolo di coerenza tra l’idea e la cosa

Poi c’è chi dell’arte fa un racconto. Chi prende il proprio vissuto — un’infanzia spigolosa, una città che non perdona, una perdita che ha scavato — e lo trasforma in simbolo. Qui, l’opera non è un esercizio formale, ma una necessità espressiva. Si scrive, si canta, si danza per dire ciò che non si può dire in altro modo. L’artista diventa così testimone, anello fragile di una catena di storie che si rincorrono nel tempo. È arte come comunicazione incarnata, come biografia trasfigurata. Con tutti i rischi del caso: perché se non si è in grado di trasfigurare, se la narrazione resta mera cronaca, allora l’opera non si eleva a lingua, resta diario. Ed è qui che si misura la differenza tra confessione e letteratura, tra esibizione e arte.

Un altro modo di fare arte è quello di chi interroga. Qui l’opera non cerca di piacere, né di raccontare: cerca di scomporre, di destabilizzare, di mettere in crisi il codice. È l’arte come dispositivo critico, come macchina semiotica che produce senso facendo saltare i nessi usuali. L’artista, in questo caso, è un sabotatore gentile, o meno gentile, che smonta i simboli e li rimonta in modo perturbante. L’oggetto non è più solo bello, o narrativo, è interrogativo. E chi guarda, legge, ascolta, è chiamato non a godere, ma a pensare. Naturalmente, questo gesto può deragliare nel cinismo, nella sterile provocazione, nel gioco autoreferenziale. Ma quando riesce, quando funziona, rivela la struttura invisibile del nostro pensiero quotidiano, come una radiografia estetica del senso comune.

L’artista è un sabotatore gentile, o meno gentile, che smonta i simboli e li rimonta in modo perturbante. 

Infine, c’è l’arte che nasce dal momento, dalla contingenza, dall’accadere. È quella che improvvisa. Ma attenzione: non si tratta di anarchia creativa. L’improvvisazione è una pratica altissima, e per improvvisare bene occorre avere memoria, mestiere, sensibilità e capacità di ascolto. Chi improvvisa non inventa dal nulla, ma riorganizza in tempo reale ciò che ha interiorizzato, lo ridice secondo una grammatica fluida e situata. L’improvvisatore è un cartografo cieco che disegna mentre cammina. Ogni passo è una scelta, ogni esitazione un rischio. E, spesso, un’opera. Ma anche qui, l’improvvisazione senza memoria diventa rumore; senza etica, esibizione.

Queste quattro configurazioni — perizia, narrazione, interrogazione, emergenza — non sono modelli rigidi, né recinti. Sono regioni porose, confini che si muovono. Una sola opera può contenerle tutte. Un solo artista può attraversarle. Non si tratta di scegliere, ma di sapere transitare. La vera creatività non è fedeltà a una forma, ma capacità di riscriverla. E forse, a ben vedere, l’artista autentico è colui che conosce le regole abbastanza da poterne fare musica. Come un filologo che, proprio perché conosce il latino, può permettersi di deformarlo.

La vera creatività non è fedeltà a una forma, ma capacità di riscriverla.

Alla fine, ogni modo di fare arte contiene una teoria implicita dell’identità e del mondo: chi siamo quando creiamo, cosa pensiamo che il mondo debba diventare grazie al nostro gesto. E se così è, allora l’arte è sempre — anche nella sua versione più minima. Un tentativo di ridare forma al reale, partendo da ciò che nel reale resiste, eccede o si rompe. E in questo tentativo, c’è ancora tutta la possibilità dell’umano.


Pubblicato il 23 maggio 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto