Ci sono libri che aiutano attraverso le storie che raccontano, a vedere quanto la complessità umana sia affascinante e inquietante allo stesso tempo. Storie che ribaltano personaggi e significati con l’intendo di disvelare verità difficili da digerire.
È questo che Andrea Camilleri, con il suo monologo teatrale e libro “Autodifesa di Caino” (Sellerio, 2019), ha deciso di fare, consegnandoci una figura di Caino lontana dall’immagine stereotipata del colpevole: ma offrendoci quella di un uomo tormentato, complesso, capace di riflettere sull’essere umano nel suo aspetto più ambiguo e contraddittorio, con le sue paure, fragilità e, insieme la capacità di creare e trasformare il mondo intorno a sé.
Ripercorrendo il racconto, emerge un tessuto ricco di spunti per riflettere su ciò che significa essere umani, sulla natura della colpa e della responsabilità, sull’origine del conflitto e sulla possibilità di una trasformazione collettiva. Spunti utili per riflettere su quanto accade in questo periodo nel mondo, tra guerre e tensioni internazionali in escalation. Nella lettura di questo piccolo ma potente libro, ho visto sei momenti crociali del monologo che restituiscono una visione dell’umanità vibrante e pulsante, che non cerca risposte immediate, ma invita ad abitare le domande più profonde.
Le radici oscure dell’umanità: infedeltà, incesto, menzogna.
Camilleri apre la scena dell’umanità come una casa delle origini in cui nulla è lineare: le parentele sono irregolari, le regole vengono talvolta sospese, e ciò che accade non sempre viene detto. L’infanzia del mondo appare così segnata da scelte tenute nell’ombra, verità taciute e legami che infrangono i divieti, non per gusto dello scandalo ma per necessità di sopravvivenza. È un avvio scomodo e realistico: la nostra genealogia nasce già dentro l’ambivalenza, tra fedeltà proclamate e infedeltà praticate, tra norma e deroga. Da qui prende forma una storia in cui colpa e responsabilità non sono blocchi monolitici, ma questioni da comprendere nel loro contesto.
Caino e la sua gemella, la bellissima Calmana, nascono da Eva e da Alialel, l’entità oscura che aveva convinto Eva a mangiare il frutto proibito. Abele e la gemella Debora, meno avvenente, vengono invece da Eva e dall’arcangelo Stefano, che lei raggiunge nel giardino dell’Eden dopo la cacciata per chiedere cibo. Adamo non saprà mai di questi tradimenti, né che i figli non sono suoi: menzogna e infedeltà inaugurano così la genealogia umana. Per garantire la sopravvivenza e la diffusione della specie, la proibizione dell’incesto viene temporaneamente sospesa e Adamo, in qualità di patriarca, dispone nozze incrociate tra i fratelli: Caino con Debora, Abele con Calmana, così da assicurare discendenza al primo nucleo umano.
La tregua divina sul tema dell’incesto fa da sfondo a un disegno più grande: quello di una specie che non nasce da purezza, ma da una complessità perturbante e reale. La regola non è cancellata, ma messa tra parentesi per uno scopo più grande. Nell’atto fondativo entrano già segreto, ambivalenza, deroga.
È come entrare nel ventre oscuro della nostra umanità, fatta di storie che non raccontiamo a voce alta ma che, a ogni livello, plasmano chi siamo. È l’accettazione di una fragilità originaria, non come vergogna ma come condizione necessaria per la crescita, nonostante l’ambiguità non è limite, ma la premessa di ogni possibilità umana.
L’offerta di Caino e l’indifferenza di Abele: l’infedeltà al fratello
Un giorno Abele dice a Caino che dovevano fare delle offerte a Dio, Abele sceglie il più paffuto degli agnelli, Caino un mazzetto di fuscelli di canna come il primo regalo d’amore donato alla mamma Eva. Una volta al cospetto di Dio, quest’ultimo guardò Caino con sdegno e lo appellò facendolo vergognare per l’indegna offerta, mentre invece lodò Abele per la sua generosità. Qui Camilleri citando Elie Wiesel, premio Nobel per la pace, scrive: “Abele non si muove, non fa niente per consolare il fratello. Lui è responsabile della prostrazione di Caino e non fa nulla per aiutarlo. È semplicemente assente, sta lì senza esserci realmente. Abele è colpevole. Di fronte alla sofferenza, alla solitudine, nessuno ha il diritto di nascondersi, di non vedere. Di fronte all’ingiustizia, nessuno deve voltarsi dall’altra parte. Quando qualcuno piange ha dei diritti su di voi, anche se il suo dolore gli è inflitto dal vostro Dio comune.”
Camilleri, con questa scena, coglie un dramma umano universale: la solitudine nel dolore e il silenzio che può ferire più delle parole. È un richiamo a una responsabilità non delegabile: stare, vedere, nominare il disagio quando si manifesta. In termini relazionali, l’assenza di Abele non è “neutralità”: è una omissione attiva che lascia il fratello solo con la sua ferita e la trasforma in rancore. Questa dinamica alimenta il circuito frustrazione–umiliazione–aggressività e normalizza il voltarsi dall’altra parte, terreno su cui germogliano i conflitti.
La lezione di Camilleri–Wiesel chiede di passare dalla pietà astratta a presidi concreti di prossimità: corridoi di aiuto, mediazione, protezione dei vulnerabili, linguaggi che non umiliano. Perché, di fronte alla sofferenza, la vera colpa non è solo l’ingiustizia iniziale: è l’assenza di chi avrebbe potuto esserci e non c’è stato.
La paura e il tradimento: l’innesco della violenza
La storia prosegue: Caino aveva trasformato la terra in un orto rigoglioso; un giorno, però, il gregge di Abele vi irrompe e devasta il raccolto. Ne nasce un confronto acceso: i due si rinfacciano le pelli che Caino usa per ripararsi dal freddo, la carne consumata, il rispetto dovuto al lavoro dell’altro. La lite degenera presto in uno scontro fisico. Nel lampo dello sguardo di Abele, Caino crede di leggere l’intenzione di ucciderlo — il primo pensiero di omicidio apparso sulla terra. In quel momento Caino mormora che il male è già in noi dal nascere e, con voce affievolita, chiede al fratello di risparmiargli la vita. Abele si intenerisce, lo solleva da terra. È allora che Caino lo inganna: lo strattona, gli salta addosso, convinto — per ciò che ha creduto di vedere in quegli occhi — che, prima o poi, Abele l’avrebbe ucciso.
Questa dinamica mette a fuoco un punto chiave: la paura, quando non è riconosciuta e regolata, deforma la percezione (vediamo minacce dove ci sono ambiguità), altera l’interpretazione delle intenzioni (attribuiamo ostilità a segnali neutri) e corrode la fiducia, che è il bene comune più fragile nelle relazioni umane. Se lasciamo che dubbio e sospetto diventino il linguaggio normalizzato, le interazioni si trasformano in un gioco a somma negativa: ci si protegge, ci si chiude, si attacca per prevenire un attacco immaginato. La storia collettiva - e quella intima - è piena di fratture nate così: da incomprensioni mai chiarite, da silenzi, da ipotesi non verificate che diventano verità. Il percorso verso una convivenza più solida chiede coraggio e metodo. Coraggio, per guardare in faccia le paure e nominarle; metodo, per tradurre questa onestà in pratiche che riducano l’attrito.
Libero arbitrio, ragione e scelta morale
Dopo l’uccisione, Caino fu travolto dal rimorso, benché nessuna legge scritta proibisse l’omicidio. Tentò di occultare il corpo: lo affidò al fiume, ma l’acqua lo respinse; provò con la terra, che non volle farsi complice. Errò quaranta giorni e quaranta notti, finché non trovò un luogo dove riuscì a seppellire il fratello. Appena terminato, udì la voce di Dio: «Dov’è Abele, tuo fratello?». Caino, impaurito, mentì. Ma Dio sapeva e incalzò: «Che cosa hai fatto?». Allora Caino si inginocchiò e chiese perdono. Dio si manifestò, e Caino, incapace di reggere a lungo quello sguardo, sentì su di sé la forza della ragione: iniziò a difendersi dicendo che, se non avesse colpito, sarebbe stato ucciso lui. La risposta di Dio fu netta: Abele non lo ha fatto; ha scelto di non uccidere, come tu hai scelto di colpire. E aggiunse: «Finché il mondo vivrà, questo sarà l’impegno dell’uomo: fare le scelte giuste».
Il monologo si apre così a un vero esame del libero arbitrio: il male non è una fatalità inscritta nei geni o nel cosmo, ma una decisione - esattamente come il bene. Camilleri ci mette davanti all’ambivalenza che accompagna ogni azione: siamo condizionati da paure, contesti, abitudini, e tuttavia restiamo responsabili delle scelte che compiamo. Questa libertà è al tempo stesso peso (perché non possiamo delegare ad altro la colpa o il merito) e gloria (perché possiamo orientare il corso della nostra vita e delle relazioni).
In termini pratici, la scelta morale nasce dall’interazione di tre fattori: consapevolezza delle conseguenze (capire cosa producono le nostre azioni), controllo (saper fermare l’impulso immediato) e contesto (regole, testimoni, possibilità di riparare). Non tutto è scritto nella pietra: si migliora creando ambienti che rendano più probabile la decisione giusta e allenando la capacità individuale di vedere prima gli effetti di un gesto.
Scegliere bene, suggerisce Camilleri, non significa scegliere senza dolore o in assenza di incertezza: significa decidere nonostante la confusione, riconoscendo i propri limiti e correggendo la rotta quando serve. È una pratica quotidiana: piccole selezioni di attenzione (ascoltare prima di reagire), piccoli atti di freno (prendersi tempo), piccoli gesti di riparazione (scusarsi, rimediare). Così la libertà smette di essere una parola astratta e diventa disciplina del vivere insieme.
Caino come fondatore della civiltà: ordini sociali e cultura
Dio condannò Caino a vivere ramingo e fuggiasco fino alla settima generazione: nessuno avrebbe potuto ucciderlo, e sulla fronte gli pose un corno come segno perché nessuno osasse toccarlo. Dopo un lungo errare, Caino tornò al luogo dove Abele era sepolto e, insieme a Malachia, fondò la prima comunità umana, la città di Enoch. La prima legge fu semplice e netta: nessuno, per nessun motivo, poteva alzare la mano su un fratello; la pena era l’esilio. Le controversie sarebbero state esposte a Malachia, giudice unico. La città, seconda legge, doveva restare aperta a tutti — donne, uomini, vecchi, bambini — con l’accoglienza come principio non negoziabile.
Caino non si fermò lì: fondò sette città, introdusse la moneta e la banca, avviò la prima fabbrica di oggetti in ferro. In ogni città fece sorgere una Casa della preghiera aperta a tutti, dove ognuno potesse rivolgersi al proprio Dio come meglio credeva. Così pose le basi di una società ordinata e della civiltà degli uomini. Inventò la cetra, poi il tamburo e quindi la musica, e davanti a Dio sostenne che proprio l’invenzione della musica era stata il suo pentimento più sincero.
Questa complessità invita a guardare la civiltà come il risultato di scelte intrecciate: accanto ai nostri lati oscuri - paura, aggressività, desiderio di dominio - operano forze creative e cooperative - invenzione di regole, lavoro condiviso, simboli comuni. La storia non procede per purezza morale, ma per compensazioni: trasformiamo errori e traumi in procedure, riti, leggi, strumenti che riducono il rischio di ripetere il danno. In questo senso, la città, la moneta, il diritto, persino la musica che Camilleri attribuisce a Caino, sono dispositivi che canalizzano impulsi contraddittori in forme sociali relativamente stabili.
La ricerca antropologica ci offre un lessico per leggere tutto ciò. Con Levi-Strauss, i miti fondativi funzionano come mappe di opposizioni (fratello/nemico, ordine/caos, colpa/riparazione) che le società usano per pensare se stesse e per organizzare soluzione e compromessi. Per altri antropologi, i miti agiscono anche come carte sociali: racconti che autorizzano istituzioni (norme di convivenza, forme di scambio, pratiche rituali) e spiegano perché esistono. La vicenda di Caino, letta così, diventa una metafora: mostra perché abbiamo bisogno di limiti alla vendetta, di giudici e procedure, di luoghi di preghiera inclusivi, di linguaggi comuni (la musica) per ricucire le fratture. Non è solo un racconto morale: è un manuale di architettura sociale su come si convertono colpa e paura in regole, e come si coltiva cooperazione pur restando creature ambivalenti.
Una sentenza aperta: bene, male e il simbolo necessario di Caino
Nell’arringa finale Caino ribadisce che la predestinazione non esiste: Dio ha ragione, possiamo scegliere. La sua è una presa di posizione netta contro ogni fatalismo: non siamo trascinati da un copione, risponde, ma chiamati a decidere volta per volta. Aggiunge che dalla sua stirpe non sono venuti assassini, non per rivendicare purezza, bensì per dire che il male commesso non condanna in eterno chi verrà dopo: la storia resta aperta alla correzione.
Poi sposta il fuoco sulla non linearità tra azioni e conseguenze: non sempre dal bene nasce altro bene, e non sempre il male genera solo male. È un monito alla prudenza nel giudizio e, insieme, un invito alla responsabilità: se gli esiti non sono automatici, allora contano il contesto, le riparazioni, le scelte successive. Il bene ha bisogno di essere curato e difeso, il male può essere contenuto e trasformato.
La chiusura: «Io, dunque, continuo a vivere in mezzo a voi. Forse perché sono diventato un simbolo. Un simbolo necessario: senza il male, il bene non esisterebbe».
Caino non chiede assoluzione; chiede di essere letto come soglia: la memoria di ciò che può accadere quando paura e rancore prevalgono, e insieme la prova che è possibile mettere limiti, creare regole, inventare linguaggi comuni per non ripetere il danno. Il simbolo non legittima il male: lo rende visibile perché il bene non resti una parola astratta, ma una pratica - vigilanza, scelta, riparazione - da esercitare ogni giorno.
Conclusione
Autodifesa di Caino ci invita a una riflessione lucida sull’umano: contraddizioni, responsabilità, possibilità di scelta, costruzione della convivenza. Dal racconto emerge una mappa praticabile: riconoscere origini ambivalenti; non lasciare solo chi è ferito; disinnescare la paura prima che diventi sospetto; assumere responsabilità che limitino la spirale della vendetta; edificare istituzioni come strumenti di riparazione; mantenere il giudizio aperto, capace di distinguere senza semplificare.
In questo viaggio alle radici, “essere umani” smette di essere uno slogan e diventa un compito: coltivare attenzione, stabilire confini chiari, scegliere anche quando è difficile, riparare quando si sbaglia. È così che la complessità non ci schiaccia, ma si trasforma in convivenza consapevole, esigente e solidale.