L’opera Il capitale nell’Antropocene di Kohei Saito (Ed. Einaudi, 2024) propone un contributo fondamentale al dibattito contemporaneo riguardo alla crisi socio-ecologica globale, insistendo sulla necessità di comprendere l’Antropocene non come una mera epoca di impatti umani sul pianeta, bensì come uno stadio metabolico specifico del capitalismo globale. Da questa prospettiva, la crisi ecologica diverge da un mero effetto collaterale dell’attività antropica diffusa, configurandosi come un’espressione delle contraddizioni strutturali insite nei rapporti di accumulazione e sfruttamento che definiscono il sistema capitalista.
L’Antropocene, lungi dall’essere un contenitore neutro o una cornice temporale pragmatica, si rivela un regime metabolico dominato da logiche produttive e riproduttive capitalistiche. Ogni analisi che prescinde da quest’ordito rischia di perdere rilevanza politica e scientifica, poiché priva di riconoscimento delle disuguaglianze e delle dinamiche di potere che ne costituiscono il substrato.
Saito si inserisce e amplia un filone di critica marxista ecologica che interpreta il capitalismo non soltanto come una forza economica motrice di accumulazione illimitata, ma essenzialmente come agente di espansione e spostamento delle crisi ambientali e sociali. L’autore sviluppa una rilettura assai radicale di Marx, sottolineando la tendenza del capitale a operare un processo di “traslazione” – o dirottamento – dei costi ambientali lungo tre dimensioni integrate: quella tecnologica, spaziale e temporale.
Traslazione tecnologica, spaziale e temporale delle contraddizioni capitalistiche
La dimensione tecnologica implica una fiducia ingiustificata e quasi mitizzata nella capacità del progresso tecnico di risolvere i problemi ecologici. Saito, tuttavia, evidenzia come le innovazioni tecnologiche siano state frequentemente parte integrante del problema: l’intensificazione dello sfruttamento estrattivo e la crescita lineare della produzione industriale hanno aggravato la pressione sugli ecosistemi a livello mondiale.
Questa fiducia nella tecnologia si accompagna oggi a un’attenzione critica verso le tecnologie emergenti, in particolare l’intelligenza artificiale (AI), che presenta un duplice potenziale – emancipativo o espropriativo – a seconda della struttura di controllo che le governa.
La dimensione spaziale si traduce in una sistematica espansione geografica del capitale verso territori marginalizzati, soprattutto nel Sud globale. Questo meccanismo definisce un “imperialismo ecologico” attraverso cui i paesi sviluppati esternalizzano i costi ambientali e sociali ai paesi periferici, mantenendo un regime globale di disuguaglianze strutturali. La nozione di “società dell’esternalizzazione” di Stephan Lessenich trova qui un'applicazione paradigmatica: la continua produzione della ricchezza nei paesi occidentali è inseparabile dal trasferimento sistematico del degrado e della precarietà ecologica altrove.
La dimensione temporale si manifesta nello spostamento delle conseguenze negative nel futuro, configurando un modo di produzione che scarica i costi ambientali e sociali sulle generazioni a venire. Questa deroga temporale si rivela insostenibile di fronte ai dati inequivocabili dei cambiamenti climatici e dell’erosione degli ecosistemi già in atto.
Intelligenza artificiale: ambivalenza tecnologica e questioni di potere
L’analisi di Saito offre un quadro suggestivo per comprendere le contraddizioni dell’intelligenza artificiale da una prospettiva critica. L’AI, in quanto tecnologia di frontiera, è in sé ambivalente: esistono modelli tecnologici caratterizzati da proprietà chiuse, monopolistiche e proprietarie, e modelli aperti, fondati su principi di accessibilità, trasparenza e interoperabilità.
Se pensata come tecnologia open source, partecipativa e distribuita, l’AI potrebbe potenzialmente favorire forme di governance condivisa, inclusività e sostenibilità, contribuendo a ridefinire le relazioni tra società e ambiente. Tuttavia, nel modello attuale dominato da pochi attori tecnologici globali, essa rischia di riprodurre e accrescere le disuguaglianze esistenti, rafforzando centrali di potere capaci di consolidare il capitalismo estrattivo e predatorio.
La domanda che mi pongo – e che il contesto attuale impone – è quindi quale delle due traiettorie tecnologiche verrà privilegiata e come questa scelta influisca sull’abitabilità planetaria.
Il comunismo della decrescita come necessità teorica e pratica
La proposta di Saito si colloca in un realismo critico che rifiuta ottimismi semplicistici: la decrescita e il comunismo della decrescita non rappresentano nostalgie o semplici inversioni di rotta, ma una rottura epocale con il paradigma capitalistico di crescita infinita. Si tratta di un progetto sistemico – politico, culturale ed economico – per ristabilire un metabolismo sostenibile tra umanità e natura, fondato su giustizia sociale, redistribuzione e gestione democratica delle risorse.
Questo progetto non è un mero programma tecnico, ma una trasformazione radicale di paradigmi culturali, politici ed economici, che richiede una volontà collettiva e un impegno corale non indifferente, poiché comporta la decostruzione di assetti di potere profondamente radicati.
Il paradosso di Lauderdale e la riorganizzazione del bene comune
Il paradosso di Lauderdale, richiamato da Marx nel Capitale, illumina una contraddizione strutturale che attraversa la dinamica del capitalismo: l’incremento della ricchezza privata si accompagna a una riduzione corrispondente della ricchezza pubblica o collettiva, intesa come bene comune. Questa distinzione tra beni privati, soggetti a scarsità e appropriazione esclusiva, e beni comuni, ossia risorse e servizi che rappresentano un valore d’uso universale, potenzialmente abbondanti e gratuiti qualora fossero gestiti collettivamente, è centrale per comprendere le logiche capitalistiche di accumulazione.
Il capitale trova infatti svantaggiosa tale condizione di abbondanza condivisa, poiché essa non si presta alla valorizzazione tramite il valore di scambio. Storicamente e sistematicamente, il capitale ha dunque operato la privatizzazione, la recinzione e la creazione di scarsità artificiale di ciò che potrebbe essere comune, limitando l’accesso ai beni indispensabili per la sussistenza e sacrificando la qualità della vita collettiva in favore dell’accumulazione privata.
In questo contesto la distruzione e lo spreco non sono meri fallimenti sistemici, ma meccanismi funzionali che producono scarsità e aprono nuovi spazi di valorizzazione per il capitale stesso. La crisi climatica e ambientale, lungi dal rappresentare un limite strutturale al capitalismo, si configura piuttosto come un’opportunità di profitto legata alla crescente scarsità di risorse fondamentali come acqua, terra e abitazioni, instaurando un meccanismo permanente di insoddisfazione che alimenta un consumismo incessante; eppure, incapace di generare una reale felicità o ricchezza condivisa.
Verso la civitizzazione del bene comune e la democrazia partecipativa
Un’alternativa a questo circolo vizioso risiede nella civitizzazione del bene comune, processo che può manifestarsi concretamente nelle comunità energetiche che promuovono energie rinnovabili come tecnologie aperte, accessibili e partecipate.
Marx distingue tra il regno della necessità – che comprende la produzione e il consumo dei beni materiali indispensabili alla sopravvivenza – e il regno della libertà, lo spazio delle attività umane che trascendono il mero bisogno, quali arte, cultura, amicizia e comunità, essenziali per la piena realizzazione umana.
La definizione collettiva e democratica del modello di società che si desidera rappresenta dunque la sfida fondamentale, da affrontare mediante dibattiti partecipativi e secondo una prospettiva intergenerazionale. In questa ottica, il concetto di “socialismo partecipativo” sviluppato da Piketty si propone come un governo dal basso che promuove autonomia, mutua assistenza e sostenibilità.
Il comunismo della decrescita, in questo quadro, implica la riduzione delle occupazioni alienanti e prive di significato, orientate esclusivamente alla produzione di profitto, con la conseguente diminuzione delle emissioni e un recupero della creatività e autonomia individuale del lavoro. Fondamentale è la democratizzazione dei mezzi di produzione e l’impiego delle tecnologie aperte affinché conoscenza e informazione diventino patrimonio comune.
Le ultime riflessioni di Marx non propongono un abbandono della tecnologia o della vita urbana, bensì una critica alla città come spazio modellato dal capitale e la necessità di ripensarne la logica a partire da principi di solidarietà e sostenibilità.
Movimenti come le Fearless Cities incarnano questa possibilità, evidenziando il ruolo della solidarietà locale connessa a reti globali per alimentare un’azione politica capace di rigenerare fiducia, speranza e nuovi valori nel contesto della crisi climatica ed esistenziale.
Le Fearless Cities e la dichiarazione di emergenza climatica di Barcellona: un modello di azione locale globale
Un esempio concreto e particolarmente emblematico del movimento Fearless Cities è rappresentato dalla città di Barcellona, che nel gennaio 2020 ha dichiarato formalmente lo stato di emergenza climatica. Questo atto politico di grande portata, il primo del suo genere in Europa, ha segnato l’impegno pubblico della città non solo nel riconoscere la gravità della crisi ecologica, ma nel tradurre tale consapevolezza in un piano d’azione strutturale e sistematico.
Barcellona si è posta l’obiettivo di realizzare una transizione ecologica radicale attraverso sette cambiamenti chiave, tra cui la promozione di mobilità sostenibile, l’incremento dell’energia rinnovabile mediante iniziative come “Barcelona Energia”, la gestione sostenibile dei rifiuti e l’educazione ambientale e culturale della cittadinanza. Queste misure illustrate sono emblematiche di un modello di governo locale che sottolinea la centralità della partecipazione attiva e dell’inclusione, elementi fondanti del movimento Fearless Cities.
Il progetto di Barcellona, così come quello di altre città impegnate – Amsterdam, Parigi e molte altre – mette al centro la politica municipale come laboratorio di innovazione democratica e resistenza alle politiche neoliberiste. Le Fearless Cities nascente dall’incontro di attivisti, rappresentanti istituzionali e organizzazioni dalla base intendono costruire reti transnazionali di solidarietà, capace di coniugare azione locale e governance globale.
Attraverso questo modello, le città assumono un ruolo cruciale nella ridefinizione di nuovi valori e pratiche politiche, sociali ed ecologiche, fornendo risposte concrete a una crisi climatica ed esistenziale che non può più essere rimandata.
Potenzialità e limiti del cambiamento sociale: il ruolo del 3,5%
Sulla base di indagini empiriche, la politologa Erica Chenoweth individua nel 3,5% della popolazione attivamente impegnata il livello minimo in grado di attivare processi di cambiamento sociale duraturi e significativi. Applicando tale soglia all’Italia, con circa 59,6 milioni di abitanti, emerge una platea critica di poco più di 2 milioni di persone la cui coesione e determinazione potrebbero invertire le tendenze oggi prevalenti.
Questo sottolinea non solo la centralità dell’impegno collettivo, ma anche la forza potenziale di gruppi minoritari organizzati in grado di formulare e perseguire alternative sistemiche.
Conclusioni: la necessità di una convergenza collettiva
Il capitale nell’Antropocene rappresenta un contributo epistemico essenziale per comprendere come la crisi ecologica sia intrinsecamente connessa a contraddizioni capitalistiche e strutturali, evitando tanto ingenuità tecnologiche quanto depoliticizzazioni.
Dare vita ad un nuovo Antropocene non è una mera aspirazione idealistica, ma una concreta possibilità storica -un progetto collettivo che intreccia convivialità, giustizia sociale e rispetto metabolico verso gli ecosistemi, una necessità urgente in grado di proporre un’alternativa realistica e radicale al paradigma dominante.
‘Basta essere umani’ implica oggi un riconoscimento imprescindibile: la crisi ecologica globale non è un evento naturale né una conseguenza inevitabile, ma il risultato tangibile di decisioni politiche, economiche e tecnologiche specifiche e sistematiche. In quanto soggetti collettivi e individuali, abbiamo la responsabilità e la capacità di influenzare quella svolta decisiva che può orientare il nostro presente e futuro. Per superare la crisi c’è bisogno di un impegno diffuso e radicale, capace di edificare luoghi, pratiche e istituzioni alternative, fondate sulla cooperazione, il rispetto ecologico e la partecipazione democratica.