Viviamo un’epoca in cui anche il linguaggio appare eroso dall’usura ideologica. La coscienza — tra le nozioni più complesse e stratificate della storia del pensiero — viene progressivamente ridotta a epifenomeno cerebrale, a funzione computabile, a residuo misurabile di processi neurali. È il paradigma tecnico-scientifico a dettare oggi le coordinate interpretative dominanti, e con esso una forma culturale che, pur presentandosi come neutra e universale, reca impresse le impronte normative di chi l’ha prodotta e ne presidia, con rigore, i confini epistemici.
Alcune recenti teorie — sviluppate soprattutto in ambito neurofisiologico e algoritmico — rilanciano l’idea che il comportamento umano sia finito. Robert Sapolsky, nel suo Behave e più ancora in Determined, afferma che il libero arbitrio è una costruzione illusoria, e che ogni azione è frutto di un complesso e determinato intreccio di biologia, ambiente e storia personale. Non c’è spazio, in questo scenario, per il caso puro o per la scelta indeterminata: ogni decisione, anche la più apparentemente libera, è un esito di causalità misurabile. Questa visione, condivisa anche da molte correnti della psicologia comportamentale e delle neuroscienze computazionali, è oggi alla base di strumenti di predizione comportamentale applicati all’industria dei media e dell’AI.
Il discorso si articola ulteriormente con l’applicazione di questi modelli a piattaforme di Scene Intelligence, in cui il comportamento umano viene scomposto in segmenti ripetuti, tokenizzati, sceneggiati. Le reazioni emotive si traducono in vettori computabili, e la coscienza viene ridotta a un sottospazio di schemi inferibili. Ma proprio in questo passaggio — al culmine dell’analisi predittiva — si apre anche la faglia più significativa: lì dove il calcolo pretende di chiudere il cerchio, qualcosa continua a eccedere.
La coscienza non è solo reattività, non è solo previsione: è anche frattura, eccedenza, esposizione. È ciò che resiste alla misura. In molte tradizioni filosofiche — da Nagarjuna a Merleau-Ponty, da Hussein Barghouthi ad Ahmed Barqawi — la coscienza non è l’output di un sistema ma la soglia in cui un sistema si confronta con l’inconoscibile. È relazione che implica un rischio. È ciò che, anche dentro scenari infinitamente prevedibili, può ancora scegliere la compassione, lo stupore, la disobbedienza.
Tutti gli esseri umani condividono un’identica vulnerabilità biologica. Il corpo umano non distingue tra razze, bandiere, lingue: trema allo stesso modo davanti al dolore, sussulta di fronte alla fame, si piega quando è colpito. Ma la coscienza — ciò che filtra, seleziona, giustifica o si ribella — è un’altra cosa. Qui avviene la biforcazione: ci sono coscienze che, davanti a un bambino in fila per un pezzo di pane, inquadrano e sparano. Altre che si gettano a coprirlo. In mezzo non c’è neutralità: solo abdicazione.
In un contesto culturale che tende a gerarchizzare il valore della vita, anche la percezione della coscienza subisce una trasformazione. Accade allora che un bambino, colpito da un cecchino mentre è in fila per il pane, non venga più percepito come individuo in carne e ossa, ma come entità astratta: un bersaglio, una variabile trascurabile, un simbolo. In questi casi, ciò che si osserva è una sospensione del giudizio etico, una forma di disattivazione della coscienza morale. Ma non si tratta di una patologia clinica: è piuttosto una condizione normalizzata in contesti apparentemente civili — in ambienti istruiti, fra persone con titoli accademici, all’interno di istituzioni rispettabili. È l’effetto di un pregiudizio sistemico che si traveste da razionalità, e di una paura profonda che si maschera da giustizia.
Per comprendere appieno la portata di questa trasformazione della coscienza — da facoltà morale a funzione neutralizzata — può essere utile volgere lo sguardo verso altri orizzonti culturali e filosofici. Il pensiero indiano classico, con i suoi sviluppi nell’abhidharma buddhista, ha esplorato la coscienza non come oggetto, ma come flusso di consapevolezza dinamica e relazionale. In Africa, pensatori come Mudimbe, Boulaga e Towa hanno mostrato la natura contestuale e situata del pensiero, in relazione costante con l’ambiente storico e sociale. In Palestina, voci come Daqqa e Barghouthi hanno indicato la coscienza come forma di resistenza attiva, capace di affermarsi nonostante l’oppressione sistemica. In America Latina, Varela e Maturana l’hanno descritta nei termini dell’autopoiesi, e Maldiney ne ha evidenziato la disponibilità all’evento: una presenza attenta, capace di accogliere l’imprevisto.
Tutte queste visioni, così distanti per provenienza ma convergenti nell’intuizione, ci suggeriscono che la coscienza non è un epifenomeno da archiviare nei protocolli della tecnica, ma una forma alta di vigilanza, un presidio fragile e tenace della responsabilità. È lì che il limite intrinseco dell’umano — che potrebbe apparire come limite — si trasforma in chiamata, in domanda incessante di senso. È da quella soglia che può ancora levarsi, contro ogni ragion di Stato e ogni automatismo ideologico, la voce di chi nomina ciò che è: genocidio. Come ha fatto, con dolore e dignità, David Grossman. Non è un’accusa leggera, né una presa di posizione tattica: è il segno che, forse, la coscienza non è del tutto spenta. Che nel frastuono dei calcoli e delle giustificazioni, esiste ancora chi sceglie il rischio di pensare.
Ripensare la coscienza non significa negare le scoperte della scienza, ma rifiutare che esse vengano usate per giustificare la neutralizzazione del dolore, la meccanizzazione del giudizio, la predittività come rassegnazione. Dire che la coscienza è anche altro — anche storia, anche poesia, anche rischio — è oggi una forma minima di resistenza.
Quando ogni cosa sembra dover essere classificata, monetizzata, preordinata, l’umano si riconosce nei gesti che sfuggono alla regola. Nei momenti in cui la scelta non risponde al calcolo, ma all’ascolto. Quando, davanti a un bambino, qualcuno si inginocchia non per colpirlo, ma per proteggerlo.
Appendice bibliografica: voci per una coscienza critica
I seguenti testi sono stati selezionati per approfondire il tema della coscienza al di fuori delle prospettive dominanti anglo-americane e israeliane. Gli autori provengono da contesti culturali, filosofici e geografici differenti, e offrono strumenti preziosi per decostruire l’egemonia epistemica contemporanea:
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Robert M. Sapolsky, Determined. A Science of Life Without Free Will – Sebbene statunitense, è incluso per la forza critica con cui smonta l’illusione del libero arbitrio, fornendo una chiave di lettura rigorosa sui limiti biologici e comportamentali dell’essere umano.
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Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Einaudi – Un’indagine lucida sull’invenzione dell’alterità e sulla violenza epistemica dei processi coloniali. Autore franco-bulgaro.
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Achille Mbembe, Critica della ragione negra, Ombre Corte – Un testo fondamentale per comprendere la genealogia della gerarchizzazione del valore umano nelle società postcoloniali.
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Mahmoud Darwish, La Palestina come metafora, Jaca Book – Una testimonianza poetico-politica sulla coscienza come forma di resistenza all’annientamento.
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Humberto Maturana e Francisco Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti – Per una concezione della coscienza come sistema autopoietico e relazionale. Pensatori cileni, fondamentali per una filosofia della vita non dualistica.
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David Grossman, La guerra che non si può vincere – Incluso come voce critica interna al contesto israeliano, Grossman rompe il silenzio chiamando genocidio ciò che altri tentano ancora di giustificare.
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Amadou Hampâté Bâ, L’universo africano, Marsilio – Una riflessione sul sapere orale e sulla coscienza come esperienza comunitaria e intersoggettiva.
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Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi – Per il recupero della coscienza come pratica filosofica, non solo come oggetto teorico.
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Raimon Panikkar, Il dialogo intrareligioso, Cittadella – Autore ispano-indiano, riflette sulla coscienza come spazio dialogico che resiste all’assolutismo dogmatico.