Considero il termine inglese Humanities nella sua ampiezza di senso. Potremmo tradurre discipline umanistiche, studi umanistici, ma anche umanità. Ed è doveroso poi considerare le Digital Humanities: "an academic field concerned with the application of computational tools and methods to traditional humanities disciplines such as literature, history, and philosophy". E poi l'espressione torna oggi a comparire con una insistenza che mi pare fastidiosa in libri, articoli, post su Social Network il cui argomento può essere ben riassunto nell'enunciato che ho letto ieri, scritto in maiuscolo, su Linkedin: Do the Humanities have a future? Yes - but not to rescue our "inner humanity" from AI.
Avendo letto le frasi che seguono, mi par giusto intendere la posizione dell'autore dell'enunciato così: 'Non posso negare che le Humanities esistono ed esiteranno, ma mi dà fastidio sentir dire che AI is eroding what makes us human- and the Humanities are here to save us'. Ora, per quanto mi riguarda, non mi interessa capire cosa possa essere questa inner humanity, e ringrazio l'autore del post per avermi confermato nella mia convinzione che le Humanities avranno un futuro. Ma ciò che mi pare notevole è questo bisogno di chiamare in causa, in un modo o nell'altro, le Humanities, quando si sta costruendo un discorso per parlar bene ci quella cosa a cui si dà il nome 'intelligenza artificiale'. Insomma, per dire che la cosiddetta 'intelligenza artificiale' esiste c'è bisogno di tirare in ballo le Humanities. Mentre si può benissimo parlare di Humanities senza bisogno che sia il alcun modo presente la cosa detta 'intelligenza artificiale'.
Forse, mi dico, ciò che infastidisce l'autore del post -il tema costante dei cui post è la cosa detta 'intelligenza artificiale'- è il proprio il fatto che sia possibile oggi, e che sarà possibile in futuro, per noi umani, 'parlare di Humanities', narrare ed ascoltare storie, generare e condividere conoscenze, senza bisogno della nuovissima macchina.
Comunque devo ringraziare l'autore del post, perché ha riportato la mia memoria vicino a un nodo di storie - dove le Humanities appaiono come un vivissimo, vivificante, appassionato colloquio; dialogo; tra umani, naturalmente.
il segno invisibile di una allegria non manifestata si legge sui visi di coloro che conversando alimentano reciprocamente il pensiero creativo. La ricca oralità genera illuminazione reciproca.
Intrecci di storie e appassionati dialoghi
Bronislaw Malinowski seduto su una panchina del parco dell'Università dell'Avana, di notte, al buio, conversa con Fernando Ortíz: cos'è la transculturazione? "Un processo nel quale ciascun nuovo elemento si fonde, adottando modi già stabiliti e nel contempo introducendo esotismi propri e generando nuovi fermenti".
Allo stesso modo, nello stesso luogo, Cemí conversava con Fronesis e Foción.
José Cemí, studente ventenne, nei giorni successivi ad un intimo, indimenticabile colloquio con sua madre, è diventato adulto.
Le lezioni all’università sono “tediosas y banales”, le materie sono esposte in “grandes cuadros semplificadores”. Al termine di quelle spiegazioni, gli studenti “costretti a remare in quelle galere, alzavano come un alleluia per essere giunti alle nuove spiagge della loro liberazione, e uscivano nel cortile”.
Lì, nel cortile, gli studenti si riuniscono in gruppi. Una mano si alza per richiamare l’attenzione di José. E’ Ricardo Fronesis. La loro amicizia è agli albori. Fronesis è attorniato da un capannello di giovani. José si avvicina. La lezione aveva fatto apparire Don Quijote come fine della scolastica, fine dell’Amadís, fine del romanzo cavalleresco, il cavaliere dalla triste figura è scheletro coperto da una celata di cartone, in mano un’arma di latta, che cavalca un asino perso nella pietrosa pianura...
“Mi pare insensato sostenere, come vuole la solita solfa dei professori, che quando Cervantes inizia il Chisciotte con la nota frase, lo fa perché è stato prigioniero... Secondo me Don Chisciotte è un Sinbad, che in mancanza di circostanze magiche si volge al grottesco...”. Nel Carcere Reale, continua Fronesis, senza che si noti stanchezza in chi lo sta ascoltando, dopo un’ora abbondante di lezione, Cervantes si incontra con Mateo Alemán, che ha già scritto la prima parte di Guzmán de Alfarache. Dall’inizio, in questa opera, si allude a un ambiente carcerario, “escribe su vida desde las galeras, donde queda forzado al remo”. Ragione di più perché Cervantes non cominciasse con la stessa allusione. Mentre Cervantes è intento a scrivere il Quijote, vicino a lui Mateo Alemán sta scrivendo la vita di un santo, Antonio da Padova, che lotta con il drago. Ed è una tontería da professori pensare che Cervantes volesse scrivere contro i libri di cavalleria. Non è un romanzo picaresco il suo, “lo que hace es un San Antonio de Padua grotesco, que ni siquiera conocen los bultos que lo tientan”. Una mistura di Sinbad senza circostanze magiche e di Sant’Antonio da Padova senza tentazioni, che si svolge nel deserto castigliano...
E’ allora che Cemí prende al balzo il respiro di Fronesis per intromettersi, e “colocar su banderilla”. Eccolo riprendere il discorso di Fronesis e portarlo oltre: un Sant’Antonio grottesco che è anche Sinbad: ecco il Quijote. Ecco il barocco.
Con tutta evidenza, e ai nostri occhi con piena ragione, per Cemí, e per Fronesis, e per Lezama, non servono gli schemi di accaniti professori, non serve lo spirito specioso di Menéndez y Pelayo, non servono i seminari di filologia tedesca . Il barocco si nutre di incontri, il segno invisibile di una allegria non manifestata si legge sui visi di coloro che conversando alimentano reciprocamente il pensiero creativo, la ricca oralità genera illuminazione reciproca. La stessa segreta consonanza lega, uno riprendendo il discorso dell’altro, Cemí e Fronesis, così come Cervantes e Mateo Alemán, Góngora e Villamediana, Góngora e l’Inca Garcilaso.
Altrettanto significativo -ora Cemí si è pienamente guadagnato l’attenzione del gruppo di studenti, e la nostra: stiamo leggendo Paradiso, il gran romanzo di Lezama, che è una summa teologica e un trattato e un romanzo di formazione e di avventura della ragione, un romanzo che non poteva aver luogo che all’Avana, nel cuore del paesaggio americano, e che di lì guarda all’Europa con un sguardo che illumina altrimenti. Altrettanto significativo, ci dice Cemí-Lezama, anzi, più significativo, per noi americani, il probabile incontro di Góngora e del Inca Garcilaso.
Poi Cemí, Fronesis e Foción attraversano conversando l'Avana Vecchia, e poi, dopo un attimo di silenzio, quando alle loro voci inizia i mischiarsi il brusio del mare, seduti sul muretto del Malecón nel profumo della notte e del mare parlano e parlano citando con voluttà Platone Sant'Agostino San Tommaso.
Fernando Ortíz, venticinquenne, console a Genova. Arriva a Bologna di notte, entra in un bar, l'atmosfera satura di fumo. A chi apparterranno quelle voci che discutono animatamente? Racconterà poi infinite volte con piacere come si trovò così di fronte a Enrico Ferri, il fondatore della sociologia penale, l'oratore travolgente, il giurista ribelle, il militante socialista -lo studioso che più aveva ammirato da studente, da lontano.
Storie si intrecciano, storie di incontri amichevoli, fraterni, storia di formazione, di scambi, dove letterature, sguardi, appassionate visioni del mondo si rigenerano in un processo incessante. “Meticciamento di razze e di culture”, dice Fernando Ortíz. Queste sono le Humanities.