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Viviamo in un'epoca di preoccupazioni insistenti sull'intelligenza artificiale. Si discute di posti di lavoro a rischio, di bias algoritmici, di deepfake, di disinformazione, di scenari dove macchine superintelligenti sfuggono al controllo umano. Questi sono problemi reali e meritano l'attenzione che ricevono. Ma mentre il dibattito pubblico si concentra su queste minacce visibili e misurabili, un tipo diverso di trasformazione sta avvenendo quasi inosservato, nelle pratiche intellettuali ordinarie di milioni di persone colte. Sto parlando dell'abitudine crescente di delegare all'intelligenza artificiale la sintesi di testi e documenti - pratica che appare non solo innocua ma genuinamente utile, forse persino necessaria per gestire il sovraccarico informativo contemporaneo. Chi non ha usato almeno una volta uno strumento di sintesi per risparmiare tempo su un documento lungo? Chi non ha apprezzato la capacità dell'AI di estrarre i "punti chiave" da un saggio denso in pochi secondi? L'efficienza è considerevole, i benefici apparenti sono immediati. Eppure credo che questa pratica, proprio nella sua naturalezza e utilità evidente, nasconda un rischio culturale profondo: mettere fine a una tradizione millenaria, quella della bella prosa argomentativa.


Viviamo in un'epoca di preoccupazioni insistenti sull'intelligenza artificiale. Si discute di posti di lavoro a rischio, di bias algoritmici, di deepfake, di disinformazione, di scenari dove macchine superintelligenti sfuggono al controllo umano. Questi sono problemi reali e meritano l'attenzione che ricevono. Ma mentre il dibattito pubblico si concentra su queste minacce visibili e misurabili, un tipo diverso di trasformazione sta avvenendo quasi inosservato, nelle pratiche intellettuali ordinarie di milioni di persone colte. Sto parlando dell'abitudine crescente di delegare all'intelligenza artificiale la sintesi di testi e documenti - pratica che appare non solo innocua ma genuinamente utile, forse persino necessaria per gestire il sovraccarico informativo contemporaneo. Chi non ha usato almeno una volta uno strumento di sintesi per risparmiare tempo su un documento lungo? Chi non ha apprezzato la capacità dell'AI di estrarre i "punti chiave" da un saggio denso in pochi secondi? L'efficienza è considerevole, i benefici apparenti sono immediati. Eppure credo che questa pratica, proprio nella sua naturalezza e utilità evidente, nasconda un rischio culturale profondo: mettere fine a una tradizione millenaria, quella della bella prosa argomentativa.

Ma qui devo subito chiarire cosa intendo, perché il problema non è dove sembrerebbe. Non parlo di "bella" in senso meramente estetico, come si direbbe di un tramonto o di una poesia lirica. Non sto difendendo ornamenti letterari contro una presunta barbarie tecnologica. Intendo quella scrittura in cui la forma è costitutiva del pensiero stesso, dove il come si dice è parte integrante del cosa si dice, dove il lettore non riceve semplicemente informazioni ma attraversa un'esperienza cognitiva che lo trasforma. Quando Hobbes scrive che la vita nello stato di natura è "solitaria, povera, sgradevole, brutale e breve", non sta trasmettendo un dato che potrebbe essere riformulato senza perdita. La sequenza ritmica degli aggettivi, la loro progressione dall'isolamento alla morte, la chiusa monosillabica lapidaria: tutto questo è il pensiero nella sua forma compiuta. Una sintesi automatica potrebbe dire "Hobbes descrive lo stato di natura come condizione miserabile" catturando il contenuto proposizionale ma perdendo esattamente ciò che rende quella formulazione potente, memorabile, capace di operare nel pensiero di chi la incontra.

E qui sta la difficoltà dell'argomento che voglio sviluppare. Il danno che la sintesi automatica produce non è immediatamente visibile. Chi usa sintesi AI non sperimenta una perdita drammatica. Riceve informazioni corrette, risparmia tempo, gestisce più materiale. Tutto funziona. Il problema emerge altrove, più lentamente, attraverso trasformazioni che diventano evidenti solo su scala generazionale.

La morte silenziosa della bella prosa

A che serve impegnarsi nella buona prosa, nella cura delle parole, delle immagini, della bella frase, se alla fine si sa che non si legge più nulla perché la gente ci si fa riassumere tutto da un'IA?

Questa domanda non è retorica. Punta al cuore di un paradosso che sta emergendo sotto i nostri occhi: stiamo costruendo macchine sempre più sofisticate per comprendere i testi, mentre contemporaneamente stiamo perdendo la motivazione a produrre testi che meritino di essere compresi nella loro interezza. Il circolo vizioso è perfetto: meno leggiamo, meno scriviamo bene; meno scriviamo bene, meno vale la pena leggere; meno vale la pena leggere, più deleghiamo la lettura alle macchine.

Cosa si perde nel riassunto

Consideriamo la lettura profonda e anche l'immersione nella buona prosa. Lo stile della prosa galileiana o di un Hobbes, o di Platone o di Gorgia o di Hume, non è ornamento inutile, ci dà la potenza del pensiero umano e della sua immaginazione.

Quando leggiamo Galilei che descrive le scoperte telescopiche nel Sidereus Nuncius, non stiamo solo acquisendo informazioni su Giove e i suoi satelliti. Stiamo assistendo alla nascita di un nuovo modo di guardare il cosmo, e questa nascita accade attraverso la prosa, non nonostante essa. Le metafore che Galilei sceglie, il ritmo con cui costruisce la rivelazione, la cura con cui anticipa e smonta le obiezioni - tutto questo è pensiero che si fa forma, non decorazione applicata a posteriori.

La pagina di Manzoni e il suo riassunto. La lettura di un dialogo di Platone e il suo riassunto. La lettura di una lettera di Galilei e il suo resoconto manualistico.

Queste coppie non sono equivalenti. Il riassunto estrae informazione, ma dissolve esperienza. Chi legge il riassunto del dialogo platonico sulla giustizia nel primo libro della Repubblica apprende che Socrate confuta Trasimaco dimostrando che la giustizia non è l'utile del più forte. Ma perde completamente l'esperienza di assistere a quella confutazione, di sentire la rabbia crescente di Trasimaco, di percepire l'ironia socratica che si fa sempre più pungente, di vedere come la definizione apparentemente solida si sfalda sotto l'interrogazione metodica. Perde, in altre parole, la dimostrazione performativa di come funziona il pensiero critico.

Dalla bella prosa argomentativa emergeva la personalità dello scrittore, la sua intelligenza unica, perché unico è il suo modo di pensare. La scrittura di Bacone, di Nietzsche, di Russell, di Montaigne, di Rousseau, di Marx o Galilei ci rende l'uomo dietro il loro pensiero.

Nel loro periodare si sente lo stridio dello sforzo del pensiero di rendersi chiaro, convincente, memorabile per il lettore.

Questo "stridio" è precisamente ciò che nessun riassunto può preservare. È il rumore cognitivo del pensiero al lavoro, lo sforzo visibile di articolare ciò che resiste all'articolazione. Quando Nietzsche scrive "Dio è morto" in aforismi martellanti, quando Montaigne divaga per pagine prima di arrivare al punto per poi ripartire in un'altra direzione, quando Russell costruisce periodi di cristallina lucidità analitica - in tutti questi casi lo stile è il pensiero, non suo veicolo neutro.

L'intenzione come parte del messaggio

L'intenzione, la preoccupazione, l'ironia, l'emozione, sono parte importante della comunicazione umana. Il diario di un viaggio vissuto in prima persona e una guida turistica ci comunicano in modo diverso.

Consideriamo un esempio concreto. Immaginate un operaio alfabetizzato dell'Ottocento che invece di leggere direttamente il Manifesto di Marx ed Engels si fa fare il riassunto da ChatGPT. La forza e la potenza della prosa dei due si disperderebbe nel nulla e con esse il potere persuasivo.

Il Manifesto non è solo un documento che comunica informazioni sul capitalismo e la lotta di classe. È un testo che vuole incendiare, che cerca di trasformare il lettore da spettatore in rivoluzionario. Questa trasformazione non avviene attraverso gli argomenti (che, analizzati freddamente, sono spesso discutibili), ma attraverso l'accumulo ritmico, le immagini apocalittiche, l'uso strategico delle ripetizioni, la costruzione di un'urgenza che diventa quasi fisica. "Proletari di tutti i paesi, unitevi!" funziona come slogan proprio perché è stato preceduto da pagine che hanno preparato emotivamente e retoricamente quel momento. Il riassunto ti dice ciò che Marx ed Engels hanno detto, ma non ti fa sentire la necessità rivoluzionaria che animava quelle parole.

La comunicazione umana è più del messaggio. Include sempre una dimensione performativa, relazionale, affettiva che il riassunto necessariamente elimina. Quando Cicerone costruisce i suoi periodi maestosi contro Catilina, quando Demostene accumula climax retorici nelle Filippiche, quando Churchill promette sangue, fatica, lacrime e sudore - in tutti questi casi il come è inseparabile dal cosa. Il riassunto preserva il secondo, annichilisce il primo.

La biforcazione della prosa

La letteratura non è a rischio, ma la prosa non creativa sì.

Leggeremo ancora Platone per diletto. Ma c'è il rischio che nessuno senta più la necessità di scrivere come Platone.

Questa distinzione è fondamentale. Quando parliamo di letteratura - romanzi, poesie, racconti - tutti riconosciamo che il riassunto è inadeguato. Nessuno penserebbe mai di farsi riassumere Cent'anni di solitudine da un'IA e considerare l'esperienza equivalente alla lettura del romanzo. La qualità estetica, la fruizione contemplativa, il piacere del testo sono qui esplicitamente riconosciuti come valori in sé.

Ma con la prosa argomentativa, saggistica, scientifica, filosofica la situazione è ambigua. Qui si presume che ciò che conta sia "il contenuto", che la forma sia accessoria, che l'obiettivo sia estrarre informazione nel modo più efficiente possibile. E questa presunzione apre la porta al riassunto automatico come pratica non solo accettabile, ma razionale.

Il problema è che questa dicotomia - letteratura vs. non-fiction, forma vs. contenuto - è falsa quando applicata alla grande prosa argomentativa. La prosa saggistica deve essere personale. Un saggio di Montaigne, un'orazione di Cicerone, un trattato di Hume, una lettera scientifica di Darwin, un pamphlet di Orwell - questi testi non sono contenitori neutrali di informazioni. Sono manufatti retorici dove il pensiero assume forma incarnata.

La bella prosa argomentativa sta alla prosa sciatta come un piatto gourmet a un quattro salti in padella. Entrambi possono nutrire, ma solo uno ti lascia il ricordo del sapore, la memoria di un'esperienza che va oltre la mera funzione alimentare. Similmente, la bella pagina riuscita, il passaggio ben scritto non ti lascia solo il contenuto - ti lascia immagini che persistono anche quando il contenuto non ti convince o è evaporato.

Tutto è cominciato con il PowerPoint

Il PowerPoint ha inaugurato una trasformazione silenziosa ma profonda nelle nostre pratiche comunicative. Quello che sembrava un semplice strumento per rendere le presentazioni più efficaci si è rivelato il primo passo verso la scomparsa della prosa articolata, del discorso lungo, articolato logicamente, retoricamente efficace.

La logica del PowerPoint è chiara: bullet points invece di paragrafi, sintesi invece di sviluppo, schematizzazione invece di argomentazione. Ogni slide deve contenere poche righe, ogni concetto deve essere immediatamente digeribile. Il risultato è una forma di comunicazione che privilegia sistematicamente la frammentazione sulla continuità, la semplificazione sulla complessità, l'impatto visivo sulla profondità concettuale.

Ma gli effetti del PowerPoint vanno ben oltre le sale riunioni aziendali. Anche a scuola e nelle Università le ‘presentazioni’ impazzano. Ho assistito a colloqui di laurea con i PowerPoint.

E c’è di più. Chi produce quotidianamente presentazioni PowerPoint inizia a pensare in bullet points. La mente si abitua a frammentare invece che a tessere, a giustapporre invece che a connettere, a sintetizzare invece che a sviluppare. La capacità di costruire un discorso che si svolge organicamente, dove ogni passaggio prepara il successivo e l'intero insieme costruisce qualcosa di più della somma delle parti, si atrofizza.

E simmetricamente, chi consuma quotidianamente presentazioni PowerPoint perde la tolleranza per il discorso lungo e articolato. Si abitua all'informazione frammentata, al cambio di slide ogni due minuti, alla gratificazione immediata del "punto" che arriva subito. La capacità di seguire un ragionamento che si sviluppa per pagine, di mantenere in memoria connessioni a lunga distanza, di apprezzare digressioni apparenti che in realtà arricchiscono il discorso - tutto questo diventa faticoso, poi incomprensibile, infine intollerabile.

Il PowerPoint ha normalizzato l'idea che la buona comunicazione sia necessariamente schematica, che il discorso articolato sia prolissità evitabile, che la complessità sintattica sia ostacolo invece che strumento. Ha creato una cultura organizzativa dove "vai al punto" è diventato l'imperativo supremo, dove qualunque documento che non possa essere ridotto a slide viene considerato inefficiente, dove la bella prosa ben articolata appare come indulgenza narcisistica invece che necessità comunicativa.

Qui emerge il meccanismo distruttivo nella sua completezza. Non si tratta solo di una perdita nella produzione (scriviamo peggio perché pensiamo in bullet points), ma di una perdita simmetrica nella ricezione (leggiamo peggio perché non tolleriamo più nulla che non sia immediatamente schematizzabile). E queste due perdite si rafforzano reciprocamente in una spirale che ci allontana progressivamente dalla possibilità stessa della bella prosa argomentativa.

E l’uso dell’AI potrebbe rendere questo declino ancora più grave. Chi non pratica la lettura profonda perde anche la capacità di apprezzarla. La lettura di un testo complesso è un'abilità che si atrofizza senza esercizio. Richiede concentrazione sostenuta, capacità di tenere a mente connessioni a lunga distanza, tolleranza per l'ambiguità temporanea, fiducia che la complessità si risolverà. Tutto questo si perde quando ci si abitua alla gratificazione immediata del riassunto.

La crisi della lettura profonda potrebbe avere come corollario la perdita della scrittura profonda, della "bella" scrittura. E non sto parlando di scrittura creativa, ma di quella argomentativa, o non creativa.

Ed è quasi paradossale che proprio nel momento storico in cui produciamo più testo che mai - email, report, documenti, post - stiamo perdendo la capacità di produrre prosa che meriti attenzione sostenuta. Scriviamo sempre di più e sempre peggio. E il peggio non è solo questione di errori grammaticali o sintassi sconnessa (che pure abbondano), ma di incapacità strutturale di costruire un discorso articolato che si sviluppa, argomenta, persuade attraverso la sua stessa architettura.

La perdita del senso del gusto

Potremmo perdere il "senso del gusto" della buona scrittura e il piacere della lettura della buona prosa.

Perderemo con la voglia di scrivere bene anche il senso del gusto per la bella scrittura.

Questa è forse la perdita più sottile e più devastante. Il senso del gusto - per il cibo, per il vino, per l'arte, per la scrittura - non è innato e universale. Si educa. Si coltiva attraverso l'esposizione ripetuta, il confronto, la riflessione sulle differenze qualitative. Un palato che non ha mai incontrato altro che fast food non può apprezzare la haute cuisine, non perché sia intrinsecamente inferiore, ma perché gli mancano i riferimenti, le categorie di giudizio, l'esperienza comparativa.

Lo stesso vale per la scrittura. Chi ha letto Cicerone, Montaigne, Hume, Orwell, sa riconoscere immediatamente la differenza tra prosa sciatta e prosa eccellente. Non perché abbia studiato manuali di stile (che possono aiutare ma non sono sufficienti), ma perché ha interiorizzato standard di eccellenza attraverso l'immersione in testi eccellenti. Sa cosa significa costruire un periodo che tiene, sa riconoscere quando una metafora illumina davvero il concetto invece di abbellirlo superficialmente, sa sentire il ritmo di una prosa che funziona.

Ma questo senso del gusto è fragile. Una generazione che cresce nutrendosi di riassunti automatici e schemi PowerPoint non svilupperà mai questi criteri di giudizio. E non li svilupperà non perché sia meno intelligente o meno capace, ma semplicemente perché non avrà mai incontrato i modelli necessari a formarli.

Il risultato sarà una forma di cecità qualitativa. Come un daltonico non può distinguere rosso da verde non per difetto intellettuale ma per mancanza dello strumento percettivo appropriato, così chi non è stato esposto alla bella prosa non potrà distinguerla da quella mediocre. E ciò che non si può distinguere non si può valorizzare. E ciò che non si valorizza non si produce.

La spirale dell'irrilevanza

Questo ci porta al cuore del problema iniziale: a che serve impegnarsi nella buona prosa se nessuno la leggerà?

La domanda non è capziosa. Gli scrittori - anche quelli di prosa non creativa - scrivono per lettori. Scrivono per essere letti, compresi, apprezzati. La cura stilistica richiede tempo, sforzo, revisioni infinite. È un investimento che ha senso solo se qualcuno raccoglierà i frutti di quell'investimento.

Ma se la norma diventa farsi riassumere tutto dall'IA, allora quell'investimento perde senso. Perché lavorare per ore sulla costruzione di un passaggio particolarmente felice, sulla scelta della metafora giusta, sull'equilibrio tra chiarezza e densità concettuale, se poi quella frase verrà ridotta a bullet point in un riassunto automatico?

Il rischio è che gli scrittori razionalizzino: "Tanto finirà in un riassunto, perché preoccuparsi dello stile?" E così inizieranno a produrre prosa già pre-riassunta, schematica, funzionale, priva di qualunque ambizione che vada oltre la mera trasmissione di informazione minima. Che è esattamente il tipo di testo che merita di essere riassunto, chiudendo il cerchio della profezia che si autoavvera.

Cosa è in gioco

In fondo, ciò che è in gioco non è solo una questione estetica o di preferenze personali. La capacità di produrre e apprezzare prosa argomentativa di qualità è una competenza civica fondamentale. Le democrazie funzionano attraverso il discorso pubblico. E il discorso pubblico di qualità richiede cittadini capaci di seguire argomentazioni complesse, di distinguere buone ragioni da cattive, di apprezzare la differenza tra appello emotivo manipolativo e retorica legittima.

Tutto questo si impara leggendo e scrivendo prosa che prende sul serio l'argomentazione, che articola passaggi logici complessi, che costruisce casi persuasivi attraverso l'accumulo controllato di evidenze e ragionamenti. Se perdiamo questa capacità, non perdiamo solo un patrimonio culturale - perdiamo uno strumento essenziale del vivere insieme.

La bella prosa argomentativa non è ornamento superfluo. È pensiero che si fa pubblico, che si offre alla critica e al vaglio altrui, che accetta l'onere di convincere non solo attraverso l'autorità di chi parla ma attraverso la forza delle ragioni presentate. È, in ultima analisi, una delle forme più alte di rispetto verso il lettore: prendersi la cura di presentare le proprie idee nella forma più chiara, più convincente, più memorabile possibile.

Se deleghiamo questa cura alle macchine, se riduciamo la scrittura a produzione di contenuto da processare automaticamente, perdiamo qualcosa di essenziale alla nostra umanità comunicativa. Perdiamo la possibilità di incontrare, attraverso la pagina scritta, la mente di un altro essere umano nel suo sforzo di rendersi comprensibile, persuasivo, degno di attenzione.

E forse, alla fine, il vero rischio non è tanto la scomparsa della bella prosa - che sopravviverà in qualche forma, magari marginalizzata - quanto la perdita di quella che potremmo chiamare virtù epistemica: l'idea che il nostro pensiero meriti di essere presentato nel modo migliore possibile, che valga la pena sforzarsi per la chiarezza e l'eleganza, che esistano standard di eccellenza intellettuale che vanno oltre la mera efficienza informativa.

Senza questa virtù, senza questo senso del gusto, senza questo rispetto per la forma come veicolo inseparabile del contenuto, rischiamo di impoverire non solo la nostra scrittura, ma il nostro stesso pensiero. Perché, come sapevano bene gli autori che ho citato, scrivere bene non è solo questione di comunicare pensieri già formati - è modo di pensare meglio, più rigorosamente, più profondamente.

E questo, nessun riassunto può sostituirlo.

Non è un ‘destino’, si badi bene, ma un rischio che possiamo evitare solo se siamo consapevoli di ciò che potremmo perdere. E, ancora una volta, sono la Scuola e l’Università che devono vigilare che ciò non succeda. Mentre ciascuno di noi (e non parlo di chi è arrivato fino in fondo a questo post, per ovvie ragioni!) dovrebbe fare uno sforzo ogniqualvolta ci si prospetta la ‘possibilità’, di scegliere la via lunga, panoramica, alla via breve, che ti fa arrivare velocemente a destinazione, ma ti fa perdere il piacere del viaggio.


Pubblicato il 14 dicembre 2025