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La fiamma che un tempo ardeva solo per gli Dèi e per i corpi spezzati dal dolore della vittoria, oggi è in mano a chi non ha mai sudato un minuto in vita sua: attrici, registi, cantanti tatuati ed ereditiere della Roma bene.

Da Olimpia a Cortina, la fiaccola ha smesso di correre e ha imparato a strisciare su tacchi a spillo e a inchinarsi al potere. Una resa definitiva dello spirito agonistico all’intrattenimento da quattro soldi o, forse, solo l’ultimo atto di un Paese che ha deciso di spegnere se stesso con eleganza.


Ah, le Olimpiadi! Quel sacro conato di eternità che dai colli assolati dell’Ellade antica irrompeva nei petti degli eroi mortali, elevandoli per un fugace istante al rango degli dèi. Una fiamma accesa non già da mani vili o da calcoli mercantili, ma dal fulgore di corpi temprati dal sudore e dal sacrificio, dal genio di un’armonia che unisce il ferro della volontà alla grazia eterea del gesto atletico.

E oggi? Oggi, in questa Italia di fine tempi dove il declino si annida nei crepacci del gusto e della memoria, la torcia olimpica, emblema di purezza e di ascesi, si tramuta in un falò da circo equestre, acceso non per illuminare le gesta dei titani dello sport, ma per far luccicare le bave dorate di un corteo di vip, di soubrette e di registi prestati al gran bazar dell’effimero.

Milano-Cortina 2026: un nome che evoca cime nevose e slanci verso l’infinito, ma che, ahimè, si rivela un carrozzone barocco, un tripudio di parvenze dove il merito soccombe al nepotismo e lo spirito agonistico al ghigno del marketing.

La fiamma, partorita dalle viscere sacre di Olimpia, dovrebbe simboleggiare l’uguaglianza aristocratica dei corpi in lotta, dove il plebeo e il nobile si misurano non per titoli di carta o per grazia di riflettori, ma per la nuda verità del sudore e della tenacia. E invece eccola affidata a Claudia Gerini, attrice di grazia felina ma estranea ai podi e alle pedane, piazzata lì non dal genio del Comitato Olimpico ma da un mecenate sponsor che, con mano invisibile, infila la sua mercanzia nel solco di un rito millenario.
O a Giuseppe Tornatore, maestro del grande schermo, quello dei baci tagliati e rimontati in Nuovo Cinema Paradiso: socio del circolo Aniene e confidente del presidente Malagò, oggi impugna la torcia come un Oscar postumo, non per un guizzo atletico, ma per le trame di un’amicizia che sa più di “premio fedeltà” che di palestra spartana.
E Achille Lauro? Quel dandy canterino, pupillo di un assessore romano le cui parentele sfiorano i gangli della Fondazione Olimpica, avanza con la torcia come un marchese del Grillo in versione glitter, non per meriti di pista ma per grazia ricevuta dal salotto che conta.

Paradossale, sì: la luce che dovrebbe ardere per i Tamberi e i Magnini del domani, per i campioni che sfidano la gravità e il dolore, si offusca invece nelle nebbie di un intrattenimento da rotocalco dove lo sport diviene pretesto per un défilé di “amici degli amici”, di raccomandati che, come mosche sul miele, ronzano intorno al sacro fuoco.

Ma è nei pensieri laterali che sfuggono al banale cronachismo che il dramma si fa tragedia greca. Immaginate: questa torcia che ha fiammeggiato per 12.000 chilometri in 63 giorni, da Atene al Quirinale per poi snodarsi tra le pieghe della Penisola fino alla piana milanese del 6 febbraio prossimo, non è mera fiaccola ma metafora di un Paese che si consuma, proprio come le antiche processioni dionisiache in cui il corteo bacchico univa il sacro e il profano in un’estasi collettiva. Oggi quel corteo si riduce a un happening da social media dove la fiamma, anziché elevare l’anima, illumina selfie e hashtag trasformando l’olimpismo in un prodotto da binge-watching.
E il rovescio della medaglia è ancora più feroce: in un’era di corpi ipermedicalizzati e di anime iperconnesse, affidare la torcia a chef stellati o a soubrette come Lavinia Biagiotti, erede di Ryder Cup e circoli privati gonfi di fondi pubblici, non è solo un affronto al merito, ma un vero atto di cannibalismo culturale.

Da questa palude di contraddizioni affiorano però punti di vista inediti: e se la profanazione della fiamma non fosse mera distrazione, ma un invito a una riconquista? Immaginate un olimpismo ribelle che inverta i poli: non più tedofori di cartapesta ma un’estrazione a sorte tra gli atleti oscuri, quei garzoni di fatica delle palestre periferiche; i maratoneti di province dimenticate; le ginnaste di fabbriche dismesse. Una torcia passata non per logiche di palazzo, ma per un sorteggio che rievochi l’isonomia ateniese, dove il caso divino bilancia le trame umane.

Oppure rovesciare ancora il quadro: legare il viaggio della fiamma non soltanto alle lounge degli sponsor e ai salotti ovattati di Milano-Cortina, ma alle vallate senza più neve, ai paesi svuotati dal turismo mordi e fuggi, alle piste di provincia dove i maestri sopravvivono a stagioni sempre più corte. Lì, tra ghiacciai feriti e alberghi fantasma, l’olimpismo tornerebbe a farsi antidoto al capitale predatorio ricordando che, senza montagne vive e in salute, nessun gioco d’inverno è possibile.

Oh Italia olimpica, terra di gladiatori e di poeti, non lasciare che questa fiamma si spenga in un bagliore di lustrini! Ritorna alle tue radici, dove il corpo è tempio e non merce, dove la corsa è verso l’orizzonte e non verso il box-office.

Lasciamo pure che i figuranti portino la torcia. Il sacro, alla lunga, non si lascia profanare impunemente: verrà il giorno in cui la neve di quelle montagne, stanca dei riflettori, si scioglierà in un diluvio che laverà via il trucco dell’effimero. E allora, nel biancore che ritorna all’origine, riemergeranno i corpi degli atleti veri: gli unici degni di accendere l’alba.


Pubblicato il 11 dicembre 2025

Vimana Grioni

Vimana Grioni / Ghostwriter, divulgatore e illustratore nei settori IP&Tech, mi occupo principalmente di Proprietà Industriale e Intelligenza Artificiale.

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