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Eraclito scrive: «Nel medesimo fiume entriamo e non entriamo, siamo e non siamo»¹. La frase, apparentemente paradossale, offre una delle descrizioni più asciutte e radicali del reale: ogni cosa è attraversata dal mutamento, eppure questo mutamento non è disordine. È forma in divenire, una dinamica interna che segue un principio, un logos. Non siamo di fronte all’entropia, ma a un ordine che si esprime nel fluire.


Trasportare questa intuizione in ambito comunicativo non è un’operazione retorica, ma teorica. Oggi, comunicare significa agire in contesti instabili ma strutturati, dove ogni parola pubblica produce effetti reali: posiziona, differenzia, legittima. Non è più possibile pensare alla comunicazione come a un livello esecutivo, né trattarla come funzione ancillare del progetto. In particolare nel mondo del lavoro — e ancor più in ambienti interconnessi e complessi — la parola è infrastruttura, non decorazione.

Queste riflessioni si rivolgono a chi, nel proprio ambito — accademico, aziendale, istituzionale — riconosce nella parola pubblica non un gesto accessorio, ma una forma di responsabilità progettuale.

Tuttavia, il modello dominante nei sistemi digitali sembra muoversi in direzione opposta. La logica algoritmica, fondata su frequenza, visibilità e misurabilità, ha generato una cultura comunicativa accelerata, orientata più alla presenza che alla pertinenza. Pubblicare è diventato un automatismo, e la comunicazione un gesto difensivo: “esserci” per non sparire. Questo comportamento, spesso legittimato dal personal branding, finisce però per tradire proprio ciò che intende proteggere: la qualità della presenza.

La pubblicazione frequente, priva di intenzionalità, non rafforza la reputazione, ma la disperde. Ogni contenuto non necessario introduce discontinuità, rumore, incoerenza. È una forma di esposizione che produce saturazione. La voce si assottiglia, l’identità comunicativa si sfoca. Non si tratta più di agire nel cambiamento, ma di inseguirlo passivamente, al prezzo della propria forma.

Contro questa deriva, occorre tornare a un principio semplice: comunicare è sempre un atto relazionale. Il contenuto non esiste da solo, ma si costituisce nello spazio tra emittente e destinatario. La relazione è la condizione di senso. Senza relazione non c’è comunicazione, ma trasmissione. E la trasmissione, se non interpretata, è muta.

È qui che la comunicazione incontra la logica del progetto. Un contenuto non è mai un gesto isolato: è una micro-unità dotata di funzione, contesto, impatto. Può essere pianificato, testato, adattato. Da questo punto di vista, è legittimo estendere il modello del cosiddetto “triangolo di ferro” — tempo, costo, qualitಠ— anche agli atti comunicativi. Ogni pubblicazione ha un tempo di ideazione, un costo (in attenzione, esposizione, energia), e un livello di qualità attesa. Quando uno di questi elementi viene trascurato, il valore complessivo si riduce.

Un caso ipotetico ma plausibile può chiarire la posta in gioco. Un ente militare di livello centrale — direttamente operativo, quindi cruciale nel trattamento di dati sensibili — avvia una riorganizzazione interna volta a semplificare i flussi documentali, uniformare i criteri di classificazione e migliorare l’efficienza nella gestione dell’approvazione e della riservatezza.

La riforma, complessa e tecnicamente fondata, incontra tuttavia resistenze e incertezze diffuse tra il personale. Non perché il merito sia contestato, ma perché la comunicazione è stata trattata come elemento secondario: note vaghe, tempi mal distribuiti, assenza di una narrazione coerente sull’intento strategico della trasformazione.

L’assenza di una relazione chiara tra decisione tecnica e contesto umano genera opacità, non per mancanza di contenuti, ma per difetto di forma e misura. L’intero progetto rischia così di fallire non per inefficacia operativa, ma per debolezza simbolica.

È un esempio perfetto di come, anche in strutture gerarchiche e formalmente solide, la comunicazione non può essere pensata come mero supporto: è parte integrante della governance. E come tale, va progettata con la stessa cura con cui si definiscono processi, ruoli, protocolli.

In sistemi dove l’autorità si costruisce anche attraverso la fiducia nel linguaggio, una comunicazione difettosa non compromette solo la chiarezza: compromette l’intero impianto della legittimità.

Questa logica non vale solo per le istituzioni. Un sistema che comunica in modo disordinato raramente è coerente nella sua governance. Una struttura che parla male, spesso pensa male. La comunicazione è forma visibile del pensiero: riflette (e talvolta rivela) il modo in cui un’entità concepisce se stessa, i suoi fini, i suoi limiti. Una comunicazione di qualità segnala un’intelligenza progettuale che si estende al di là del linguaggio.

Ma la posta in gioco è ancora più alta: riguarda l’identità. Ogni parola, ogni contenuto, contribuisce a costruire — o a compromettere — un profilo. Questo vale per individui e organizzazioni. Ma l’identità non è un’essenza originaria da difendere: è, come ha scritto Vladimir Nabokov³, una filigrana che si lascia intravedere solo nel tempo. Plotino⁴, già nel III secolo, lo aveva inteso con chiarezza: le condizioni materiali dell’esistenza — nascita, luogo, corpo — non sono accidentali, ma co-essenziali. L’identità non si eredita, si compone.

Anche Merleau-Ponty⁵ insiste su questo punto, sottolineando che ogni visibile è sostenuto da una dimensione invisibile, una profondità che non si dà immediatamente allo sguardo, ma che lo rende possibile. Comunicare bene, quindi, non è soltanto dire qualcosa di utile: è far emergere nella parola quella coerenza profonda che tiene insieme il percorso, la visione, la responsabilità di chi parla.

Per chi opera in ambienti complessi — università, impresa, ricerca, amministrazione — questa forma di comunicazione non è un’opzione: è una necessità epistemica. Parlare con rigore, con misura, con consapevolezza, non è un lusso: è la condizione per restare leggibili, per essere interlocutori riconoscibili, per abitare il cambiamento senza perdervisi.

La qualità non è sinonimo di perfezione. Come ha scritto Alan Wright⁶, non si tratta di evitare il compromesso, ma di governarlo. La qualità nasce dal limite, non dall’assenza di vincoli. Comunicare bene non significa dire tutto, né dire sempre. Significa assumersi la responsabilità di dire quando serve, ciò che serve, nel modo in cui serve. È una forma di rigore. Un’etica dell’attenzione.

La parola, se trattata con precisione, può ancora produrre ordine dentro il cambiamento. Ma per farlo, deve essere pensata come parte del progetto, non come sua appendice. Ogni frase, ogni nota, ogni presa di posizione pubblica è un nodo in una trama più ampia. E come ogni tessuto, anche quello simbolico ha bisogno che ogni filo tenga.


Note

  1. Eraclito, Frammenti, trad. di G. Reale, Bompiani, 2005, fr. B49a DK.
  2. Cfr. Wright, A. e Lawlor-Wright, T., Project Success and Quality: Balancing the Iron Triangle, Routledge, 2018.
  3. Nabokov, V., Parla, memoria. Autobiografia rivisitata, Adelphi, 1999.
  4. Plotino, Enneadi, trad. di A. H. Armstrong, Harvard University Press, 1984.
  5. Merleau-Ponty, M., Fenomenologia della percezione, trad. di F. Montefoschi, Il Saggiatore, 2003.
  6. Wright, A., cit., p. 146.

Pubblicato il 22 maggio 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto