I. Filosofia come forza disorganizzante
Occorre spingere il pensiero oltre la sua destinazione classica di chiarificazione razionale e interpretazione sistematica. L'atto filosofico non nasce da una vocazione costruttiva, ma da uno scarto, da una lacerazione originaria. Ogni gesto autenticamente filosofico è inaugurato da una crisi: si produce laddove il pensiero si arresta, incapace di proseguire secondo i codici consueti, laddove il senso si incrina e l'evidenza si ritira. Pensare, allora, non è fondare, ma esperire un'interruzione.
Ogni gesto autenticamente filosofico è inaugurato da una crisi:
In tal senso, la filosofia appare come un’arte dell’inciampo: si insinua nei meccanismi di riproduzione del senso, ne esaspera le contraddizioni, ne evidenzia i non-detti. Non è un sapere tra gli altri, ma una forza di de-strutturazione. Si colloca nel punto cieco del discorso, laddove la parola vacilla, laddove la soggettività si decostruisce. Lontano dall’essere un sapere positivo, la filosofia agisce come forma di non-sapere operante, come esercizio che svuota, disattiva, sospende. Quando si afferma che essa “non serve”, si coglie, forse senza saperlo, la sua verità più profonda: proprio perché non è funzionale a nulla, può accedere a ciò che nessuna funzione consente di pensare.
Filosofare significa pertanto disarticolare le mappe del senso, disfare il linguaggio dei ruoli, introdurre una torsione che allenta la necessità dei legami e apre alla contingenza del possibile. È una pratica di afasia produttiva, dove la parola non si accumula, ma si svuota; non ordina, ma disloca; non costruisce, ma scompone. Michel Foucault, in un intervento del 1979, sottolinea come il compito della filosofia non consista nel fondare sistemi, ma nel rendere visibili le trame ordinarie del potere che attraversano la vita quotidiana. È in questa apertura all’altro, all’altrove, che il pensiero si fa forza genealogica, potenza di de-attivazione, gesto che rende pensabile l’impensato.
La filosofia appare come un’arte dell’inciampo, non è una lente che chiarifica, bensì una forza che agisce come sabotaggio delle evidenze
II. Dérive situazionista: attraversare senza scopo
Nel cuore dell’esperienza situazionista, la dérive non è semplice vagabondaggio urbano, ma gesto sovversivo che disattiva l’urbanistica funzionale, scardinando l’ordine simbolico dello spazio. Essa nasce nella Parigi degli anni Cinquanta, quando Guy Debord e l’Internazionale Situazionista reinterpretano lo spazio urbano come dispositivo di alienazione e controllo, strutturato per favorire la passività, la prevedibilità, il consumo.
Contro questa forma di territorializzazione del desiderio, la dérive propone un movimento aperto, un'erranza intenzionale che non risponde a una meta, ma a una logica affettiva, atmosferica, intensiva. È un attraversamento sensibile, in cui il soggetto si espone all’imprevisto, lasciandosi alterare dagli incontri, dagli scorci, dalle tensioni invisibili del paesaggio urbano. Si tratta di un gesto estetico, ludico, ma anche profondamente politico: sottrarre il corpo alla funzione, alla produttività, alla significazione imposta, restituirlo alla possibilità pura di un'esperienza non finalizzata.
In Théorie de la dérive, Debord scrive che la città è una composizione psico-geografica, un agglomerato di forze e flussi che condizionano i comportamenti. Derivare significa sabotare questa composizione, restituirla al disordine originario, renderla opaca, impraticabile. In questo senso, la dérive non è fuga, ma sabotaggio della linearità. È un’esplorazione dell’irrilevante, un’insurrezione dei dettagli, una messa in crisi del centro.
III. Il movimento situazionista: oltre l’arte, contro la vita separata
Nato nel 1957 a Cosio di Arroscia, in Liguria, il movimento situazionista prende forma dalla confluenza di diversi gruppi d’avanguardia europea: l’Internazionale Lettrista, il Movimento Internazionale per un Bauhaus Immaginista, il Comitato Psico-Geografico di Londra. Tra i suoi protagonisti emergono le figure di Guy Debord, Asger Jorn, Constant Nieuwenhuys, Michèle Bernstein, Raoul Vaneigem. L’Internazionale Situazionista, attiva fino al 1972, rappresenta uno dei tentativi più radicali del Novecento di abolire la separazione tra arte, politica e vita, dando luogo a un progetto integrale di sovversione dell’esistente.
Il situazionismo non è un’estetica, né una teoria dell’arte, ma una pratica dell’insubordinazione. La sua critica principale si rivolge alla società dello spettacolo, intesa come dispositivo di separazione generalizzata: separazione tra chi agisce e chi osserva, tra produzione e consumo, tra spazio pubblico e vita vissuta. In questo senso, lo spettacolo non è un fenomeno mediatico, ma una forma totale di organizzazione dell’esperienza, fondata sulla passivizzazione dei soggetti e sull’autonomizzazione delle immagini rispetto alla realtà (La société du spectacle, 1967).
A questa forma di cattura del desiderio, i situazionisti oppongono il concetto di costruzione di situazioni: eventi intenzionalmente creati per interrompere il flusso ordinario della vita quotidiana, generare rotture nei meccanismi di alienazione, e aprire spazi per un'esperienza immediata, non mediata, non funzionale. La dérive è solo uno degli strumenti di questa progettualità sovversiva, insieme al détournement, alla critica radicale dell’urbanistica funzionale, e alla riflessione utopica sull’abitare (New Babylon di Constant). Ma la posta in gioco non è urbanistica, bensì esistenziale: si tratta di liberare il tempo dal lavoro, lo spazio dalla funzione, il corpo dalla disciplina.
Il situazionismo si presenta dunque come una forma di pensiero-prassi che disattiva le codificazioni sociali, estetiche, politiche, e cerca di restituire alla vita la sua potenza generativa, ludica, irriducibile. Il gesto situazionista non propone una nuova forma di potere, ma un'esperienza che sfugge a ogni governo. In questo senso, esso non ha propriamente un programma, ma una strategia di sabotaggio: sabotaggio delle rappresentazioni, dei ruoli, delle strutture di senso. Lontano tanto dall’avanguardia estetica quanto dall’azione politica istituzionale, il movimento situazionista mira a rendere possibile una vita che non sia ridotta a funzione, e un desiderio che non sia catturato nella forma-merce.
Gesto situazionista e gesto filosofico
Ciò che accomuna la filosofia, intesa come forza di disarticolazione, e il situazionismo, nella sua dimensione sovversiva, è una comune genealogia della disobbedienza. Entrambi rifiutano le forme stabilite dell’esperienza, sabotano le regole del funzionamento ordinario e sospendono la cattura del desiderio nella ripetizione del già-dato. Il situazionismo si costituisce come critica radicale alla separazione che definisce la modernità: tra chi crea e chi consuma, tra tempo produttivo e tempo vissuto, tra vita e rappresentazione. La filosofia, in modo analogo, disattiva le sintassi stabilite del pensiero, si sottrae alla funzione ordinatrice e si esercita nel punto in cui il linguaggio si incrina.
Ciò che accomuna la filosofia, intesa come forza di disarticolazione, e il situazionismo, nella sua dimensione sovversiva, è una comune genealogia della disobbedienza.
La costruzione situazionista di situazioni – intesa come produzione intenzionale di eventi che destabilizzano la normalità – può essere letta, in chiave filosofica, come creazione di spazi per il pensiero, fenditure nel continuum dell’evidenza che rendono possibile l’apparizione dell’inattuale. In entrambi i casi, si tratta di pratiche di interruzione: nel situazionismo, l’interruzione dell’automatismo urbano e della temporalità capitalistica; nella filosofia, l’interruzione delle architetture concettuali e dei regimi di verità. Non si produce un nuovo ordine, ma si disattiva quello esistente: è un atto essenzialmente negativo, ma nel senso fecondo di una negazione che apre, che lascia spazio, che disfa per far emergere ciò che ancora non è.
Derivare e pensare sono due modalità di attraversamento: una nello spazio, l’altra nel linguaggio. Ma il loro effetto è comune: destabilizzare, rendere opaco, restituire alla contingenza. Se la città, per i situazionisti, è una composizione ideologica e affettiva che forma i soggetti, allora il gesto della dérive agisce come un contropotere, un sabotaggio della psico-geografia istituita. Allo stesso modo, la filosofia agisce come sabotaggio della semantica istituzionalizzata, come torsione che disorienta e libera. Entrambe le pratiche, lungi dall’essere astratte o speculative, operano a livello sensibile: si esercitano nei gesti, negli affetti, nelle soglie minime dell’esistenza.
Nel Rapporto sulla costruzione di situazioni (1957), Debord definisce l'obiettivo dell'Internazionale Situazionista come la creazione di una nuova prassi della vita quotidiana. In questa prospettiva, il gesto situazionista si sottrae a ogni logica di produzione: non costruisce un mondo, ma lo incrina. Il pensiero filosofico, quando si affranca dalla vocazione sistematica, non elabora teorie, ma disfa le forme del concettuale per rendere pensabile ciò che normalmente resta impensato. Entrambi – filosofia e situazionismo – si pongono contro l’integrazione: contro la coerenza forzata dei sistemi, contro l’adattamento degli spazi, contro l’assoggettamento delle forme di vita.
La loro convergenza non è solo strutturale, ma etica: è il rifiuto di ogni finalità che riduca il pensiero o l’azione a funzione. Lontano dal proporre nuovi centri o nuove sintesi, filosofia e situazionismo si danno come pratiche dell’irrilevante, dell'eccentrico, dell’inutilizzabile.
filosofia e situazionismo convergono nel rifiuto di ogni finalità che riduca il pensiero o l’azione a semplice funzione.
Pensare come dislocare
Pensare come dislocare significa far collassare la grammatica dei legami, abitare il punto in cui i vincoli si allentano e le appartenenze si fanno instabili. Non si tratta di inventare un nuovo mondo, ma di creare fenditure nell’esistente, aperture dove qualcosa possa iniziare a prendere forma, prima che la forma si stabilizzi. In questo senso, il pensiero non è un atto di conoscenza, ma un gesto di frizione contro ciò che si presenta come necessario. Pensare è allora praticare la contingenza.
Come nella dérive, anche qui non c'è itinerario né mappa: c'è un lasciarsi attraversare, una disposizione all’incontro, una sospensione della destinazione. La dislocazione filosofica agisce nel tempo come la dérive agisce nello spazio: sovverte la linearità, rende visibile l’arbitrarietà delle tappe, smonta la coazione a procedere. Se la temporalità ordinaria è quella del progresso e dell’utilità, pensare come dislocare significa interrompere la logica del progresso e sostare in una temporalità eccedente, laterale, senza teleologia.
Il pensiero, così inteso, non è contemplazione ma evento. Un evento che non si lascia programmare, che non può essere anticipato né istituzionalizzato. Si dà nel momento in cui qualcosa cede nel discorso, in cui una parola smette di coincidere con se stessa, in cui un gesto si sottrae alla sua destinazione funzionale. Questo cedere è anche un cedere alla vita, nel senso più radicale del termine: un esporsi all’imprevedibile che non si può possedere.
Nel gesto della dislocazione, filosofia e situazionismo si incontrano nella forma di una resistenza: non come rifiuto oppositivo, ma come sottrazione attiva alle forme della cattura. Pensare, come derivare, è abitare quella soglia dove il possibile non è ancora tradotto in progetto, dove l’apertura resta tale, senza chiudersi in senso. È forse in questa esposizione che si dà la sola forma di libertà non appropriabile, non normabile, non addomesticabile.
Pensare, come derivare, è abitare quella soglia dove il possibile non è ancora tradotto in progetto, dove l’apertura resta tale, senza chiudersi in senso.
Bibliografia
Guy Debord, Raoul Vaneigem, Situazionismo. Materiali per un'economia politica dell'immaginario, Massari Editore, 1998.
Guy Debord, La società dello spettacolo, Massari Editore, 2002.
Michel Foucault, Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. Vol. 3: 1978-1985. Estetica dell'esistenza, etica, politica, Feltrinelli, 2020.
Stewart Home, Assalto alla cultura. Le avanguardie artistico-politiche: lettrismo, situazionismo, fluxus, mail art, ShaKe, 2010.
Gianfranco Marelli, L'amara vittoria del situazionismo. Per una storia critica dell'«Internationale Situationniste» (1957-1972), Mimesis, 2017.
Mario Perniola, L' avventura situazionista. Storia critica dell'ultima avanguardia del XX secolo, Mimesis, 2013.