Il rapporto tra la sfera alimentare e la filosofia è sempre stato quantomeno problematico, eppure il linguaggio testimonia la profonda affinità esistente tra i due campi.
sapiens è il saggio, ma anche colui che gusta
Il verbo latino sàpere vuol dire percepire sapore, assaggiare, gustare, ma significa anche sapere, conoscere; sapiens è il saggio, ma anche colui che gusta e sapor, che indica il sapore, era esteso dai latini alla parola, per esaltare un discorso eloquente. L’etimologia indica l’esistenza di una radice comune tra assaporare e sapere che sembra avere il suo concreto riferimento nel rapporto del corpo con il mondo.
Gian Battista Vico, in chiave esplicitamente anticartesiana, aveva individuato nel corporeo la radice della conoscenza, sostenendo che le menti dei primi uomini
“di nulla erano astratte, di nulla erano assottigliate, di nulla erano spirituallezzate, perch’erano tutte immerse ne’ sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne’ corpi”[1].
Inoltre aveva considerato il linguaggio il risultato di una costruzione umana che inizia da lingue mutole, ossia da cenni, atti e corpi in luogo di parole, e che si sviluppa trasferendo il corpo nelle cose (come dimostrano tutte le espressioni che si riferiscono ad aspetti naturali o a cose inanimate e che derivano, per somiglianza, da parti o manifestazioni del corpo umano)[2] e traendo fuori dalla selva (l’ambiente dei primitivi) le forme attraverso cui dare senso all’insensato e all’informe. L’uomo è infatti, biologicamente, un essere manchevole, “un animale non ancora stabilizzato” (Nietzsche), diverso dagli altri animali, tutti dotati di una struttura organica e istinti che consentono loro l’adattamento immediato all’ambiente. Sottoposto a un eccesso di stimoli, l’uomo, attraverso l’azione e il linguaggio, interagisce con l’ambiente, lo forma e lo trasforma.
Entriamo in relazione con il mondo attraverso il corpo, in particolare attraverso la bocca
Entriamo in relazione con il mondo attraverso il corpo, in particolare attraverso la bocca, punto di contatto tra il dentro e il fuori (non dimentichiamo che il bambino, nel primo anno di vita, si alimenta e nello stesso tempo conosce mettendo tutto in bocca). La bocca è, inoltre, un centro di piacere: il piacere della gola e della parola, che può trasformarsi facilmente in eccesso (peccato di gola o vanità). Assaporiamo la realtà, l’assimiliamo, la digeriamo ed eliminiamo le scorie. È un’esperienza che ci trasforma e ci riporta di nuovo verso il mondo. La connessione tra sapere e sapore indica, quindi, che ogni forma di conoscenza ha il suo punto di partenza nella concretezza del nostro rapporto con il mondo; è l’esperienza la fonte di ogni possibile sapere, come risulta evidente nel testo biblico:
“Dopo che l’uomo ebbe mangiato del frutto dell’albero, il Signore Dio lo chiamò e gli disse: “Dove sei?”. Rispose “Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto”. Riprese “Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”.[3]
Come per Israele e i popoli dell’Oriente, anche per i Greci antichi il sapere nasce dal mondo dell’esperienza, dalle competenze pratiche necessarie per orientarsi nel mondo. La sophia era infatti riferita a ogni forma di arte ovvero al saper fare in campi molto diversi tra loro (per esempio nell’ambito della legislazione o dell’architettura). Pericle, nel famoso discorso che ci è stato trasmesso da Tucidide[4], definisce i cittadini di Atene amanti del bello e dediti alla sophia. Per realizzare un’opera bella, per darle una forma, occorre pensarla, comprenderne la ragion d’essere e la finalità. Da questa esigenza nasce la ricerca di una regolarità, di un ordine del mondo e viene alla luce la filosofia come amore per il sapere. È paradossale che oggi, invece, sia considerata da tanti una disciplina astratta, lontana dalla prassi.
il sapere nasce dal mondo dell’esperienza, dalle competenze pratiche necessarie per orientarsi nel mondo
La bocca rappresenta il collegamento tra il dentro e il fuori; dalla bocca entrano gli alimenti ed escono le parole. Conoscere e mangiare, secondo la filosofa Francesca Rigotti, nascono dalla stessa madre: la fame.
“La fame di cibo, certo, ma anche la fame o l’appetito di conoscenza, quella che ci fa usare espressioni come “sete di sapere”, “fame di informazioni” oppure “divorare un libro”, “fare indigestione di pagine”, “ruminare un’idea” o “digerire un concetto”.[5]
In fondo la stessa maieutica socratica era un modo per risvegliare (affamare) una coscienza assopita nella routine. Oggi, nel tempo del consumismo che lavora, attraverso la pubblicità, su una diffusione capillare del desiderio su tutti gli oggetti di consumo, il nostro desiderio è pilotato e soddisfatto prima ancora che si manifesti, ed è per questo più difficile tenere sveglie le coscienze.
in un mondo dominato dal marketing il nostro desiderio è pilotato e soddisfatto prima ancora che si manifesti, per questo è più difficile tenere sveglie le coscienze.
Nel linguaggio popolare l’espressione “non sa di niente” può essere riferita sia al cibo che a una persona e, nel secondo caso, indica un soggetto poco interessante, che non ha acquisito, sulla base delle esperienze personali, un sapere/sapore che lo connota come personalità ben individuata. L’etimologia ci rimanda a un’affinità tra sapere e sapore che si è totalmente perduta nella tradizione filosofica occidentale; è rimasta essenzialmente nelle metafore. Metafora significa “saper scorgere il simile” (Aristotele); è un sapere che appartiene alla mente, ma, alle origini dell’umanità, secondo G. B. Vico, sorge da un ingegno (ingenium) che ha le sue radici nel corpo, prende vigore dal corpo. Metafora non come ornamento del discorso, come sarà considerata nella storia successiva, ma modalità fondamentale, primaria, della significazione. I primitivi si identificavano con le cose perché le immaginavano fatte della loro stessa natura e in questo modo proiettavano il loro corpo e il loro sentire all’esterno; nel momento in cui chiamavano il tuono “ira” di Zeus credevano realmente alla realtà che raffiguravano, ossia attribuivano tratti umani, sensi e passioni, a enti inanimati. Nella selva dei primitivi tutto era informe, le associazioni create dalla metafora permettevano agli umani, attraverso il segno linguistico, di ambientarsi nel mondo, di dare forma e senso all’insensato e costituivano lo scarto tra natura e cultura. Tipiche del mondo primitivo, le metafore sono sopravvissute nelle epoche successive, anche se abbiamo perso la memoria della loro origine.
I sensi sono le nostre finestre sul mondo
I sensi sono le nostre finestre sul mondo, ma, anche rispetto a essi, il pensiero occidentale ha privilegiato quelli più lontani dal regno animale e più vicini alla razionalità, come la vista, l’udito e in misura minore il tatto, mentre il gusto e l’olfatto sono stati trascurati e marginalizzati. Il gusto e l’olfatto, invece, sono i sensi più antichi, quelli meno controllabili e di cui siamo meno consapevoli, che hanno comunque un grande ruolo nella conoscenza del mondo che ci circonda. Nel linguaggio quotidiano diciamo che una persona ha naso quando è in grado di cogliere (fiutare) aspetti che gli altri non afferrano. Non dimentichiamo che il termine greco nous, che ha assunto nel tempo il significato di intuizione, originariamente indicava la facoltà di annusare e ne resta traccia in Omero; il cane Argo, nell'Odissea, riconosce il padrone (Ulisse) con il fiuto. Una tradizione, come quella della filosofia occidentale, che ha dato grande valore alla ricerca della verità, alla ricerca di una conoscenza oggettiva, si è poco servita del gusto e dell'olfatto perché questi sensi, come in vario modo hanno argomentato Aristotele, S. Tommaso, Cartesio, offrono una conoscenza più centrata sul soggetto e difficilmente comunicabile all'esterno. Effetto di questo disinteresse è la scarsa attenzione dedicata alla formazione del gusto e dell'olfatto nell'ambito educativo. La nostra cultura ha talmente condizionato il nostro modo di percepire e conoscere la realtà che utilizziamo meno i sensi considerati ‘minori’ nel nostro approccio con il mondo, al punto che, anche nell’ambito del cibo, tendiamo a privilegiare l'aspetto visivo, l’estetica. Il gusto e l’olfatto, inoltre, sono, più degli altri sensi, connessi con il piacere e se la cultura greca li ha trascurati perché il saggio tende alla valorizzazione dell’anima e alla moderazione nella vita, quella cristiana, centrata sull’esaltazione della spiritualità e della volontà, li ha ancor di più emarginati e, in alcuni periodi della sua storia, demonizzati. Soltanto con Feuerbach e Nietzsche la rivalutazione del corpo e dei sensi ha restituito importanza anche a quelli 'minori'. Nietzsche si spinge ad affermare:
“Quali raffinati strumenti di osservazione abbiamo nei nostri sensi! Il naso, per esempio, di cui ancora nessun filosofo ha parlato con riverenza e gratitudine, è talora il più delicato strumento che sia posto a nostra disposizione”[6]
La bocca, come luogo di passaggio tra il dentro e il fuori, è il veicolo del cibo ed è il veicolo del logos. L'alimentarsi e il comunicare percorrono la stessa strada, l'uno la via all'ingiù, l'altro la via all'insù, ma si ritrovano nelle metafore che quotidianamente utilizziamo per rappresentare oggetti, persone, azioni: ci colpisce la “dolcezza” di una donna, la descrizione “piccante” in un testo, la battuta “acida” di qualcuno; “mastichiamo” appena una lingua straniera, “siamo nauseati” dal comportamento di un collega, troviamo “insipido” un conoscente. Il pensiero “si alimenta” continuamente di termini e metafore che riguardano il cibo: Pindaro si riferisce al miele per esaltare la dolcezza della poesia; le mistiche medievali si nutrono del digiuno nel loro processo di ascesi verso Dio; Dante paragona, nel Convivio, le canzoni del suo testo ad altrettante vivande accompagnate da commenti che rappresentano il pane.
In definitiva, l’analogia tra nutrimento del corpo e nutrimento della mente è evidente e possiamo rintracciarla in tanti altri testi della letteratura di tutti i tempi.
Note
[1]G. B. Vico, Principi di scienza nuova di Giambattista Vico intorno alla comune natura delle nazioni in questa terza impressione. Dal medesimo Autore in gran numero di luoghi Corretta, Schiarita e notabilmente Accresciuta, Napoli 1744, Stamperia Muziana. G. B. Vico, La Scienza Nuova, a cura di Paolo Rossi, Rizzoli, Milano 1988, p. 265.
[2]“Quello è degno di osservazione: che ‘n tutte le lingue la maggior parte dell’espressioni d’intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e degli umani sensi e delle umane passioni. Come “capo”, per cima e principio; “fronte”, “spalle”, “avanti e dietro”; “occhi” delle viti e quelli che si dicono “lumi”, ingredienti delle case; “bocca” ogni apertura; “labro”, orlo di vaso o d’altro; “dente” d’aratro, di rastello, di serra, di pettine; “barbe”, le radici; “lingua” di mare; “fauce” o “foce” di fiumi o monti; “collo” di terra; “braccio” di fiume; “mano” per picciol numero; “seno” di mare, il golfo; […] ivi, p. 284.
[3]Genesi 3, 9-11, testo CEI 2008
[4]Tucidide, Storie, II, 36-41
[5]Francesca Rigotti, La filosofia delle piccole cose, interlinea edizioni, Novara 2004, pag. 37
[6]F. Nietzsche , 1889, Crepuscolo degli idoli, trad. it. Adelphi, Milano, 1992. pp.41-42