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Nel corso della mia attività con la pubblica amministrazione, ho contribuito alla progettazione di sistemi documentali aperti, tra cui la piattaforma PAFlow. Non si trattava semplicemente di digitalizzare il cartaceo, ma di ripensare le condizioni stesse della trasparenza e della responsabilità pubblica. Ogni decisione doveva essere tracciabile, ogni passaggio verificabile, ogni codice leggibile. La scelta dell’open source non fu un vezzo tecnico, ma una scelta politica: l’idea che la conoscenza amministrativa sia un bene comune, e che il codice che la struttura debba restare accessibile, modificabile, condiviso. L’altro giorno mi è capitato di sorridere leggendo l’ennesimo articolo trionfalistico sull’intelligenza artificiale nella pubblica amministrazione. L’entusiasmo era palpabile, ma il contenuto inesistente: si parlava vagamente della possibilità di usare l’IA per valutare i curriculum dei dipendenti pubblici, per identificare i più “adatti” a svolgere non si sa bene cosa. Nessuna riflessione sul fatto che un CV scritto male possa portare un algoritmo a scartare una persona competente. Nessuna considerazione sulla dimensione motivazionale, relazionale, umana che è indispensabile nei contesti pubblici. Solo la solita narrazione ansiogena dell’efficienza algoritmica, accompagnata dal coro dei “fuffa-guru” di LinkedIn, gli stessi che fino a ieri vendevano aria di Napoli in bottiglia e oggi propongono corsi su IA con lo stesso fervore da televendita di fanghi alle alghe. Viviamo in un’epoca in cui la produzione di conoscenza è diventata un campo di battaglia invisibile. Parlare di epistemologia — ovvero di come costruiamo e legittimiamo il sapere — è oggi un atto politico. L’articolo che segue nasce da questa consapevolezza. Perché integrare davvero significa anche destabilizzare: affrontare i conflitti tra saperi, riconoscere le esclusioni, decidere da che parte stare.


Il pensiero critico viene invocato, ma raramente esercitato. La velocità della trasmissione ha preso il posto della profondità dell’elaborazione. In questo scenario, l'epistemologia — cioè il modo in cui costruiamo, validiamo e trasmettiamo sapere — non è una questione accademica: è il centro stesso del problema politico contemporaneo.

Chi lavora da decenni tra pubblica amministrazione, difesa, trasformazione digitale e governance del sapere ha visto dall’interno come l'informazione venga trattata: non come bene comune, ma come leva di potere, spesso svuotata di contesto, strumentalizzata, monetizzata. Lo conferma Michael A. Peters in un'opera che merita attenzione: Knowledge Socialism: The Rise of Peer Production and Collective Intelligence (2020, Springer). Peters e i suoi coautori descrivono l'emergere di un modello alternativo al capitalismo cognitivo: una forma di socialismo del sapere che valorizza collegialità, intelligenza collettiva, apertura radicale e produzione tra pari.

dove le strutture premiano la competizione individuale, la conoscenza si impoverisce; dove invece si costruiscono ambienti cooperativi, la qualità del sapere cresce, anche sotto stress organizzativi

Mi ci sono ritrovato pienamente. E non per adesione ideologica, ma per verifica esperienziale: ho osservato che dove le strutture premiano la competizione individuale, la conoscenza si impoverisce; dove invece si costruiscono ambienti cooperativi, la qualità del sapere cresce, anche sotto stress organizzativi. Non si tratta solo di cambiare piattaforme o metodologie. Si tratta di ripensare il rapporto tra sapere e potere.

Negli anni Novanta si è affermato il paradigma dell’economia della conoscenza, figlio di un impianto neoliberale che ha trasformato l’università in una fabbrica di titoli, l’educazione in prodotto, e la ricerca in investimento competitivo. La parola "conoscenza" è stata piegata a logiche aziendali, la collaborazione accademica ridotta a co-autorialità forzata per scopi di carriera, mentre la valutazione è stata standardizzata in indicatori quantitativi. Peters e gli altri autori del libro hanno chiamato questo sistema knowledge capitalism, mostrando come la conoscenza sia diventata una merce, e il pensiero critico una formalità rituale.

La reazione a questo processo non può consistere solo nel rivendicare autonomia intellettuale. Serve un ribaltamento epistemico: riconoscere che il sapere non è solo contenuto, ma forma di relazione sociale. Qui si innesta il concetto di knowledge socialism, che Peters sviluppa intrecciando Marx, Lyotard, Peirce, Deleuze, e il concetto di comunità d’inchiesta. L’idea è che la conoscenza, per essere davvero generativa, debba fondarsi su pratiche collettive, non proprietarie, orientate all’apertura e alla trasformazione reciproca.

L'integrazione profonda non è una somma di saperi. È un conflitto fertile tra forme di razionalità diverse. Implica un superamento dei compartimenti stagni tra discipline, integrando approcci realistico-critici, post-strutturalisti e tecnoscientifici.

In questa visione, la conoscenza si sviluppa come un’ecologia distribuita e multidimensionale, capace di attraversare diritto, IA, formazione, etica computazionale.

Nel mio lavoro l’ho vista emergere ogni volta che un progetto complesso — un sistema informativo per la PA, una piattaforma interoperabile, un programma di trasformazione digitale — obbligava attori differenti a interagire senza un linguaggio comune. Il problema non era tecnico. Era epistemico. Non sapevamo come dirci le cose. E quando non esiste una grammatica comune, le decisioni diventano opache, i conflitti si irrigidiscono, la progettualità si spegne.

La risposta? Non un nuovo standard, ma un metodo riflessivo: creare spazi in cui i linguaggi possano frizionare senza annullarsi. Dove il sapere giuridico possa confrontarsi con quello tecnico senza gerarchie precostituite. Dove il dubbio diventi risorsa, non rallentamento.

L’Intelligenza Artificiale sta ridisegnando il paesaggio cognitivo. Ma la domanda non è quanto sia avanzata, piuttosto chi decide cosa può essere automatizzato? Chi stabilisce le metriche di "efficienza" del pensiero? Michael Peters lo chiarisce bene: l’AI non è solo uno strumento, è un apparato ideologico. Può amplificare la creatività collettiva, ma anche ridurre la complessità umana a modelli funzionalistici. Se lasciata senza governance partecipativa, l’IA tende a replicare — e potenziare — le asimmetrie del potere.

sulla IA la domanda da porsi non è quanto sia avanzata, piuttosto chi decide cosa può essere automatizzato? Chi stabilisce le metriche di "efficienza" del pensiero?

La sua capacità di "aiutare" è reale. Ma va decifrata. Perché spesso, sotto la promessa di supporto, si nasconde una normalizzazione del pensiero. Non è solo un suggerimento: è una forma di selezione. L’automazione, quando diventa invisibile, può spegnere il pensiero critico. Ogni scorciatoia cognitiva ha un costo. E il costo è la perdita dell’alternativa. Quando automatizziamo i percorsi decisionali, rischiamo di abbandonare la possibilità di pensare altrimenti.

La convergenza biodigitale — l’ibridazione crescente tra sistemi biologici e digitali — apre scenari epistemici e politici inediti. L’interfaccia uomo-macchina non è neutrale. Ridefinisce i confini della soggettività, della responsabilità, dell’apprendimento.

Neurotecnologie, biofeedback, intelligenze aumentate: strumenti straordinari, se collocati dentro un quadro etico-epistemico consapevole. Pericolosi, se governati da logiche estrattive, brevettuali, mercantili. Anche qui, la questione non è tecnica. È politica. La domanda non è "come funziona?", ma "quale umano rende pensabile questo dispositivo?".

Chi lavora con sistemi ad alta densità cognitiva lo sa: senza scrittura, la conoscenza si dissolve. Non parlo di reportistica, ma della capacità di formalizzare decisioni, tracciare razionali, costruire memoria operativa condivisa. Nei progetti dove tutto corre, saper scrivere bene significa ridurre ambiguità, gestire l’asincronia, garantire continuità.

Ma non è sufficiente parlare di accesso aperto o condivisione. Serve un’attività critica continua sui presupposti che rendono legittimo il sapere. E questa critica deve includere anche ciò che consideriamo “nostro”. È qui che si inserisce l’esigenza di una nuova grammatica della presenza critica: capace di esprimersi, ascoltare, contraddire e ricomporre.

È un impegno concreto, che si costruisce nel tempo, dentro contesti spesso difficili e attraversati da tensioni. Non basta sommare discipline diverse per ottenere innovazione. Occorre invece creare connessioni reali tra modi di pensare che solitamente non dialogano. Significa costruire spazi in cui la complessità non venga ridotta o semplificata, ma affrontata per quello che è. È questo che ho imparato lavorando sul campo, e che continuo a considerare necessario.

Nel corso della mia esperienza, ho compreso che l'integrazione autentica non si esaurisce mai in un’operazione tecnica. Al contrario, è sempre un gesto epistemico, etico, politico. Non è sufficiente adottare strumenti nuovi: è indispensabile interrogarsi sui valori che ne guidano l’uso, sulle esclusioni che implicano, sui mondi che rendono possibili o invisibili. In un’epoca in cui le scelte operative sono anche scelte di senso, diventa urgente porsi domande scomode. Non per produrre soluzioni facili, ma per evitare di cadere in quella forma di ignoranza sofisticata che accumula dati e procedure, ma smarrisce le ragioni del proprio agire.

l'integrazione autentica non si esaurisce mai in un’operazione tecnica.

Immaginate un laboratorio intellettuale aperto, dove studiosi provenienti da contesti culturali e accademici diversi si ritrovano attorno a una stessa domanda: è possibile pensare la conoscenza come un bene condiviso, non privatizzato, non dominato dalle logiche del profitto?

È proprio da questa tensione comune che nasce Knowledge Socialism: The Rise of Peer Production and Collective Intelligence, un progetto corale che riunisce contributi da tutto il mondo. Al centro di questa impresa troviamo Michael A. Peters, filosofo dell’educazione, tra i primi a immaginare un “socialismo della conoscenza”: non come ideologia, ma come infrastruttura viva, capace di sostenere la cooperazione intellettuale e la redistribuzione del sapere.

Accanto a lui, Tina Besley, che da anni studia le politiche educative e il modo in cui le istituzioni possono – o non possono – favorire una cultura della conoscenza pubblica. C’è poi Petar Jandrić, teorico dell’educazione post-digitale, che esplora le nuove forme di scrittura collettiva e di produzione accademica emergenti nell’era delle piattaforme. E infine Xudong Zhu, impegnato sul fronte dell’internazionalizzazione dell’educazione, promotore di modelli cooperativi tra sistemi formativi.

Insieme, questi autori non si limitano a commentare il presente: propongono una visione attiva e politica. Il libro è un invito a costruire ambienti in cui la conoscenza non sia merce, ma relazione; non sia performance, ma pratica condivisa. Una prospettiva che punta a rendere il sapere non solo accessibile, ma anche orientato al bene comune.


StultiferaBiblio

Pubblicato il 25 luglio 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto