«Una nave per gli stolti?» mormorò Gigi, rileggendo la mail di Carlo che lo invitava a salire a bordo.
«Beh… prima di rispondere, facciamoci un piccolo esame di coscienza» si disse, con quella cautela che gli veniva ogni volta che varcava una soglia nuova. Perché in un luogo un po’ straniero e un po’ familiare, bisogna sempre chiedere permesso. Non dare per scontate le regole, soprattutto quelle non scritte, quelle che si nascondono dietro i dettagli minuscoli.
Un attimo — e qualcosa lo colpì. Quel particolare che, tragicamente, stava per sfuggirgli.
Dal fondo della memoria, tornò a galla un frammento di quel latino che da ragazzo aveva considerato “superfluo”. Una lingua morta, pensava allora. Inutile. Una lingua che non gli sarebbe servita a nulla nella vita… Come sbagliava. Anche adesso, mentre rifletteva, un meccanismo scattò: «Due negazioni affermano» si ricordò, come per correggere il proprio stesso pensiero in corsa.
«Ma sì, chi è profondamente umano capirà» si rassicurò. E riprese a ragionare — un dialogo interiore che era suo, ma che avrebbe potuto appartenere a chiunque.
«Non la nave degli stolti, quanto gli stolti della nave.»
L’accento non era sulla nave, sul fasciame antico ricoperto di high-tech che pure, grazie ad un Archimede di milleni prima, restava a galla. No: l’attenzione era sulle persone che vi salivano, su chi sceglieva di navigare.
“Magari sulla polena c’è il matto dei tarocchi” fece una battuta a se stesso su quella enigamtica figura che nella sua libertà aveva però sempre un gatto che lo afferrava dove non batte il sole, come a ricordare che anche la pazzia ha un prezzo.
Rise un attimo e continuò, stavolta con fare più serio.
«A questo punto la domanda è lecita» si concesse, sollevando un sopracciglio. «Essere o non essere uno stolto?»
Rilesse la frase di Carlo:
«Posso però suggerirti di salire a bordo ed essere tu stesso a parlare del tuo romanzo e degli altri libri sulla nave.
Io stesso pubblico parti die miei libri sulla nave.
…
Potresti anche parlare di musica nel panorama attuale dominato dal ricorso all’IA.»
Un primo sguardo lo tranquillizzò: un errore di ortografia nella seconda frase.
Un refuso semplice, umano. Segno che Carlo non si appoggiava sempre alle macchine, forse nemmeno a un correttore automatico. O, più semplicemente, che in certe conversazioni la forma non era più importante del contenuto.
La conferma gli arrivò netta.
Carlo era uno vero. Uno “gen”, come Gigi stesso aveva scritto nel suo ultimo libro — il settimo — quello che aveva appena proposto proprio a lui. E Carlo gli aveva risposto in fretta, con una cortesia rara, quasi d’altri tempi.
A una sua richiesta di output, Carlo aveva risposto con un’altra richiesta di output.
Un piccolo segnale.
Un codice.
Quello di chi sapeva distinguere l’umano dalla macchina.
Di chi, anche nella forma della gentilezza, seguiva regole proprie, non la sequenza lineare a cui ci stiamo abituando oggi.
«Parlare di musica nel panorama attuale dominato dalla IA…» ripeté Gigi.
Se doveva cominciare da lì, allora la vera domanda era un’altra.
Nel mondo della musica — il mondo a cui aveva dedicato la vita — era stato uno stolto?
La risposta gli arrivò addosso come un masso.
«Cavolo sì. Se sono stato uno stolto, sono stato un sommo maestro della stoltezza» si disse, passandosi una mano fra la folta chioma ancora lunga, nonostante i Led Zeppelin si fossero sciolti quarantacinque anni prima.
Poteva essere qualcosa di diverso da uno stolto?
Lui, che aveva iniziato a fare il batterista professionista negli anni ’80?
Proprio quando le batterie elettroniche stavano trasformando un’arte secolare in una questione di ON/OFF, in campioni digitali a 8 bit disposti su una griglia da sedici caselle lampeggiante come un albero di Natale?
Il vero stolto è chi inizia una carriera dopo aver già capito, con chiarezza chirurgica, che avrebbe studiato come un ingegnere nucleare per guadagnare come una donna delle pulizie.
«Per fortuna tocca prima ai batteristi», dicevano i chitarristi, illudendosi di essere esclusi dalla macchinazione.
(“Macchinazione”… una parola che in quel momento gli piacque davvero.)
Si sarebbero ricreduti qualche decennio dopo.
Quanto era stato stolto, da ragazzo, a criticare Albano.
Sì, forse sembrava un po’ fuori moda ai suoi occhi giovani.
Ma chi altro si parava cinque ottave con una voce tecnicamente paragonabile a quella di Freddie Mercury?
Quanti possono farlo, bene, e per due ore di concerto?
Non serviva risposta. La domanda era la risposta.
Nell’era della post-produzione, cose così non esistevano quasi più.
Anche i cantanti erano diventati un ricordo lontano: l’autotune, con quei glissati impossibili, aveva replicato per la voce ciò che le batterie elettroniche avevano creato trent’anni prima.
Un nuovo genere.
Un genere dove era normale sentire una mitragliata di colpi a 200 BPM, tutti identici, tutti perfetti, tutti allineati sulla griglia digitale.
E dove, se non cantavi come una macchina — quella macchina che corregge gli errori trasformandoli in un flusso di frequenze irreale — allora eri tu quello “sbagliato”.
Sì.
Era abbastanza stolto.
Stringendo la bandana che aveva legato al suo bastone da viaggio, se la mise sulle spalle come il Matto dei Tarocchi. Aveva con sé solo il necessario. Il resto lo avrebbe trovato strada facendo.
Arrivato al porto, rimase ai piedi della scaletta d’imbarco.
«Chi osa voler entrare?» chiese una voce roca ma pulita, come uscita da un’altra epoca.
«Sono uno stolto. Se mai ce n’è stato uno… io sono quello», rispose Gigi senza esitare.
«Il tuo cuore è puro. Entra!» disse la voce ridacchiando, rivelando un capitano che sembrava uscito dalla pubblicità del tonno Nostromo.
Appena i suoi piedi toccarono il ponte, il capitano indicò una vecchia ramazza.
Il messaggio era chiaro: avrebbe iniziato come mozzo, spazzando il ponte.
Gli andava benissimo.
Perché il viaggio — quello vero — era appena iniziato.