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Che cos’è il bello oggi? Dalla Grecia antica a Kant e Adorno, fino all’epoca dei social media e della tecnologia digitale, il bello è stato messo in discussione, frammentato e ridefinito. Per Leonardo Da Vinci la bellezza nasce dalla percezione dell’imperfetto e dell’incompleto, ma oggi la tendenza a eliminare ogni limite attraverso filtri, correttori e algoritmi di perfezione trasforma il brutto in pessimo, cancellando la funzione generativa dell’imperfezione. Ha ancora senso parlare di “bello” come categoria critica, o resta soltanto come resistenza al degrado estetico e alla banalizzazione digitale?


Che cos’è il bello oggi?

Dalla Grecia antica a Kant e Adorno, fino alla nostra epoca segnata dall’eccesso di immagini, il bello è stato messo in discussione, ridefinito, frammentato. Se per Leonardo Da Vinci lo si poteva cogliere in relazione al brutto, oggi sembra che al brutto si sia sostituito il pessimo: non più un contrappunto creativo, ma una saturazione che svuota di senso. Questo articolo esplora il destino del bello nella cultura contemporanea e si interroga se abbia ancora senso parlare di esso come categoria, o se sia rimasto soltanto come resistenza critica al degrado estetico che ci circonda. 

Il concetto di bello attraversa la storia della filosofia come una questione centrale, spesso legata al problema della verità e del bene, ma anche alla tensione tra sensibilità ed intelletto. Già in Platone il bello appare come ciò che rende evidente l’idea stessa di armonia e proporzione, innalzando l’anima verso la contemplazione del mondo delle idee. Nel Simposio il bello non è mai puro oggetto estetico, bensì un gradino per l’ascesa conoscitiva: dal fascino dei corpi si passa alla bellezza delle anime, poi alle forme del sapere, fino alla contemplazione del bello in sé, eterno e immutabile. 

Con Aristotele il discorso si fa più legato alla percezione: il bello coincide con la misura, l’ordine e la simmetria, qualità che producono piacere nei sensi ma anche consonanza nell’intelletto (Metafisica). Questa linea verrà ripresa nel Medioevo, dove Tommaso d’Aquino connette il bello alla luminosità e all’integrità, come manifestazione dell’ordine divino nel mondo. 

Con l’età moderna il bello si emancipa dal suo fondamento metafisico e teologico. In Kant, soprattutto nella Critica del giudizio, il giudizio estetico è libero da ogni interesse, né conoscitivo né morale: il bello è ciò che suscita un piacere disinteressato, universale senza essere concettuale. Per Hegel, invece, il bello è la manifestazione sensibile dell’idea, la sua incarnazione concreta nell’opera d’arte: in questo senso l’arte diventa un momento dello Spirito assoluto. 

L’estetica contemporanea, da Nietzsche a Benjamin, sposta il discorso: il bello non è più soltanto armonia o espressione dello spirito, ma anche dissonanza, rottura, possibilità di destabilizzare il senso comune. Nietzsche ridimensiona l’armonia classica e afferma la necessità di tenere insieme apollineo e dionisiaco (La nascita della tragedia), mentre Benjamin riflette sullo statuto estetico nell’epoca della riproducibilità tecnica, dove l’aura dell’opera d’arte viene meno e il bello si trasforma in esperienza collettiva e politica. Più vicino a noi, Adorno, nell’Estetica, parla di un bello che non può essere disgiunto dal brutto: l’arte autentica porta in sé le lacerazioni della società, non le nasconde. 

È in questo quadro che assume rilievo il modo in cui Leonardo da Vinci esplorava la relazione tra bello e brutto. Nei suoi studi anatomici e nei disegni delle “teste grottesche” accentuava tratti deformi per capire come l’espressività umana emergesse dall’imperfetto. In queste opere, il bello non appare come un assoluto, ma come differenza: si definisce attraverso ciò che è incompleto, irregolare, in tensione con la forma ideale. La bellezza è un’esperienza situata, relazionale, costruita sul contrasto con ciò che manca o stona, un’analisi che spinge a chiedersi se oggi, in un’epoca in cui le categorie estetiche sono frammentate e dominate dalla perfezione digitale, abbia ancora senso parlare di bello come valore universale.

Se il brutto, in passato, rappresentava la condizione di possibilità del bello, oggi sembra essersi trasformato in un altro registro: il pessimo. Non più un contrappunto necessario, bensì una deriva che invade l’esperienza estetica e la banalizza. La proliferazione di immagini, prodotti culturali e oggetti estetici mediatici rende difficile distinguere ciò che possiede ancora forza formativa da ciò che è soltanto consumo. In questo senso il pessimo non è più lo sfondo dialettico che consente al bello di emergere, ma la sua saturazione, la sua riduzione a cliché. 

Il punto diventa allora capire se il bello sopravviva in questa condizione, magari non più come armonia o perfezione, ma come ciò che resiste al pessimo, come ciò che continua a custodire un’eccedenza di senso capace di sottrarci alla pura ripetizione. Forse è proprio in questa resistenza, che accoglie l’imperfetto senza lasciarsi travolgere dal degrado, che oggi si può ancora parlare di bello. 

Occorre allora distinguere accuratamente tra brutto e pessimo. Il brutto ha avuto nella tradizione estetica una funzione generativa: ciò che appare dissonante, sproporzionato, imperfetto, apre lo spazio perché il bello si stagli come ciò che armonizza e ordina. Il brutto, dunque, è un concetto relazionale, che non nega il bello ma lo rende percepibile nella sua specificità. Persino nel Romanticismo e nelle avanguardie il brutto diventa materiale estetico, capace di mostrare verità negate dal bello classico. Il pessimo invece non è relazione, ma impoverimento: non costruisce contrasto, ma consuma la tensione, sostituendo alla dialettica con il bello un livellamento verso il basso. Il pessimo non è ciò che si oppone al bello, ma ciò che lo rende irrilevante, cancellando la sua capacità di emergere. Per questo il brutto poteva ancora essere accolto come categoria estetica, mentre il pessimo resta fuori dal campo dell’estetico e coincide piuttosto con la logica del degrado e della mercificazione. In questa prospettiva il problema odierno non è tanto che il bello non esista più, quanto che rischi di essere sommerso dal pessimo, che non lo sfida ma lo svuota. 

Un aspetto particolarmente rilevante nella contemporaneità è l’impatto dei social media e degli strumenti digitali sul concetto di bello. Qui emerge la tendenza a eliminare ogni limite, a voler raggiungere un bello assoluto, privo di imperfezioni, attraverso filtri, correttori, assistenti digitali e algoritmi di perfezione. In questo contesto il brutto non viene più accolto come elemento generativo, ma viene sistematicamente cancellato, trasformando l’imperfezione in un difetto da correggere. Il risultato è che il bello diventa spesso simulacro, costruzione artificiale che non dialoga più con l’incompleto, ma annulla la sua funzione critica. La tecnologia digitale, pur potendo ampliare l’accesso alle immagini e alle esperienze estetiche, rischia così di sostituire la tensione dialettica tra bello e brutto con una saturazione uniforme, in cui la perfezione digitale diventa la nuova norma e il pessimo domina non come contrasto creativo, ma come anestetizzazione dei sensi. 

Se allarghiamo questa distinzione al piano etico e politico, il quadro si complica, ma diventa più chiaro. Il brutto, in etica come in estetica, non è mai semplicemente negazione: rappresenta piuttosto il limite che ci obbliga a pensare, lo scandalo che ci mette davanti alla fragilità e alla contraddizione della vita. In politica il brutto si può intendere come la dimensione conflittuale e imperfetta delle istituzioni, ciò che costringe a riformulare costantemente il legame sociale. Il pessimo invece si presenta come degenerazione: non un limite da superare, ma una caduta che trascina con sé ogni possibilità di riscatto. È il momento in cui la politica si riduce a pura gestione tecnica o a spettacolo, svuotando il senso del vivere insieme. Eticamente parlando il pessimo è l’indifferenza, la resa al cinismo, la perdita della tensione verso il meglio. Non produce dialettica, non apre possibilità: consuma e corrode. In questo senso il pessimo non è solo un problema estetico, ma un sintomo più ampio di società che rischiano di perdere la capacità di discernere, di giudicare e dunque di orientarsi verso forme di vita più alte. Il brutto ci mette di fronte alla sfida, il pessimo ci sottrae la sfida stessa. 

Tutto ciò conduce a una domanda radicale: ha ancora senso parlare di bello come categoria? Da un lato il bello sembra essersi dissolto nella molteplicità delle estetiche contemporanee, che non riconoscono più un canone comune, ma solo pratiche locali, gusti individuali, giochi di immagini. Dall’altro però il bisogno di bello continua a riaffiorare, come esigenza di misura, di respiro, di senso che eccede la pura funzionalità. Se il bello non è più l’ideale universale di Platone né l’aura dell’opera classica, esso resta forse la cifra di un’esperienza in cui ci sentiamo toccati da qualcosa che nasce proprio dall’imperfezione e dall’incompletezza, e che non si esaurisce nel consumo. Parlare di bello oggi non significa, dunque, fissare un criterio oggettivo, ma interrogare il nostro rapporto con ciò che resiste al pessimo e sfugge alla banalizzazione. In questo senso il bello non muore, ma cambia volto: da categoria normativa si fa categoria critica, ciò che ci costringe a non smettere di chiedere se siamo ancora capaci di riconoscere qualcosa come bello.


Il bello, allora, è filosofia: esperienza, riflessione e resistenza.

 

Pubblicato il 17 settembre 2025