AI E L’INGANNO DELLA FOTOGRAFIA
1. Immagini senza autore
CAB: Signora Sontag, oggi le immagini non si limitano più a mostrare la realtà. Le macchine le creano dal nulla, con un realismo che inganna. Lei ha scritto che viviamo ancora nella “grotta di Platone”, dove scambiamo le ombre per verità. Non pensa che, con l’AI, rischiamo di restare intrappolati in un mondo di apparenze costruite artificialmente?
Susan Sontag: La "grotta di Platone" è diventata, sì, un palinsesto infinito, un'antologia senza fine di immagini che ci illude di "poter avere in testa il mondo intero". Ma l'illusione è più insidiosa che mai. La fotografia, fin dai suoi esordi, ha comportato la "cattura del maggior numero possibile di soggetti", promettendo di "democratizzare tutte le esperienze". Ora, con questa nuova tecnologia la promessa è stata portata all'estremo, ma con un esito perverso. Ci offrono una "realtà di secondo grado", un mondo duplicato così pervasivo che il reale stesso si confonde con le sue infinite repliche. Ciò che si prova non è meraviglia, ma una sorta di "disordine emotivo", una confusione tale da favorire il non credere alle immagini, anche a quelle autentiche.
CAB: Nel momento in cui la tecnologia non si limita a catturare il reale, ma a generarlo, si ripropone con forza la sua indagine sulla verità e sulla menzogna fotografica. Se già la fotografia stessa, fin dai suoi esordi, ha "flirtato con la falsificazione", cosa accade quando l’intelligenza artificiale può creare “prove” che sembrano inoppugnabili, senza avere nessun fatto reale dietro di sé? Come si ridefinisce la "verità" in un mondo dove le immagini possono essere così facilmente manipolabili o decontestualizzate?
Susan Sontag: La fotografia è sempre stata un'"interpretazione del mondo esattamente quanto i quadri e i disegni", mai un "trasparente resoconto di un evento". Il suo potere, e la sua insidiosa seduzione, risiedevano proprio in questa sua "pretesa di veridicità che non potrebbe mai avanzare un quadro". Quando una "fotografia falsa... falsifica la realtà", essa mina la nostra fiducia non solo nell'immagine, ma nella realtà stessa. Oggi, l'arte della manipolazione digitale è talmente "sofisticata da rendere obsoleta ogni preventiva messa in scena". E questa, come dite voi, "intelligenza artificiale" non fa che esacerbare la tendenza della fotografia a essere un'"apparenza di conoscenza, un'apparenza di saggezza". Il "mutismo di ciò che è in esse, ipoteticamente, comprensibile" è il fascino delle immagini, ma anche il loro limite. Per comprendere, "abbiamo bisogno delle parole". Senza un "discorso giornalistico, non mediate dalla parola e da un contesto", le immagini restano frammenti, "inviti inesauribili alla deduzione, alla speculazione e alla fantasia", ma non possono creare una "consapevolezza di medio o lungo termine". Se il giornalismo o la narrazione si distraggono dal contesto, se riducono il testo e il contesto, allora la domanda del "perché quel bambino, ad esempio, è diventato vittima" rimarrà inascoltata, sopraffatta dal rumore di un'informazione frammentaria che, ironia della sorte, produce l'esatto contrario della "consapevolezza informazione". Ogni fotografia, in fondo, "attende d'essere spiegata o falsificata da una didascalia".
2. Il dolore degli altri
CAB: Lei descriveva come la "passività che ottunde i sentimenti" fosse una conseguenza della quantità di immagini di orrore, portando dall'"indignazione all'indifferenza". Gli algoritmi, oggi, non si limitano a proporci queste immagini, ma le personalizzano, le dosano, le rendono "trending topic". Non stanno forse perfezionando questa "anestesia morale ed emotiva", trasformando la "consuetudine con l'atrocità" in una sorta di intrattenimento su misura, dove il "dolore degli altri" diventa un "articolo di consumo", consumato e poi rapidamente scartato?
Susan Sontag: La "passività che ottunde i sentimenti" è una piaga che ho lungamente indagato. L'accumulo di "immagini di carneficina" ha già da tempo "dato a tutti una certa consuetudine con l'atrocità, facendo apparire più normale l'orribile, rendendolo familiare, lontano ('è soltanto una fotografia'), inevitabile". Ma ora, questa "ubriacatura universale di atrocità", che Baudelaire già deplorava nei giornali senza fotografie, è diventata un flusso ininterrotto, confezionato su misura dalla tecnologia che voi usate. Eravamo già passati dall'indignazione all'indifferenza e persino all'insofferenza verso le vittime. Oggi, con gli strumenti offerti dall’intelligenza artificiale, questa "anestesia" si raffina. Quando le immagini di "distruzione più estrema, dei bombardamenti, dei cadaveri" si confondono sui vostri schermi con le immagini della nostra vita quotidiana, si crea una "confusione emotiva" che rende il dolore degli altri ancora più irrealistico, più una "falsificazione". L'AI, con la sua capacità di rendere lo spettacolare ancora più spettacolare, e di presentarci solo ciò che può mantenere la nostra attenzione, rischia di svuotare le immagini della loro capacità di scuotere. La nostra capacità di sentire, e dunque di agire, si atrofizza ulteriormente, non per assenza di sentimenti, ma per il loro eccesso e la loro mal direzione. L'anestesia non è più solo una conseguenza, ma un processo attivamente curato, quasi un servizio offerto, dove la "compassione, forzata fino all'estremo, si intorpidisce".
3. L’anestesia emotiva
CAB: Oggi le intelligenze artificiali scelgono cosa vediamo e orientano perfino le nostre reazioni morali. In questo scenario, chi è davvero quel “noi” che guarda le immagini, tra indignazione e indifferenza, ma senza la forza di agire? E la compassione che ci fa sentire innocenti non rischia di essere, in realtà, una nuova forma di complicità con un potere invisibile che governa i nostri sguardi?
Susan Sontag: La mia domanda sul "noi" è più pertinente che mai. Se "fino a quando proviamo compassione, ci sembra di non essere complici di ciò che ha causato la sofferenza" e la "compassione ci proclama innocenti", oggi questa auto-assoluzione è ancora più facile. L'immaginaria partecipazione promessaci dalle immagini è, e rimane, una "ulteriore mistificazione del nostro rapporto con il potere". Quel "noi" che si indigna per un momento, che posta una foto virale per qualche like e poi passa a un selfie, è un "noi retoricamente coinvolto nelle vite degli altri, ma in definitiva anestetizzato". Queste nuove tecnologie, lungi dal rompere il patto, lo rafforzano. Essendo "clienti o turisti della realtà", continuiamo a godere del "discutibile privilegio di essere spettatori". La nostra impotenza non è data solo dall'incapacità di agire, ma dalla convinzione che guardare equivalga a partecipare, a fare qualcosa. E in questo, l'AI, filtrando, organizzando, persino generando le immagini, diventa un complice silenzioso, un curatore invisibile della nostra passività, rendendo ancora più labile il confine tra l'azione e l'illusione di essa. L'indifferenza non è più solo una scelta passiva, ma una condizione quasi inevitabile, un "adattamento" a una dieta di immagini che è stata calcolata per non scuoterci troppo a lungo. Il pensiero che "sta succedendo ma non sta succedendo a me" si rafforza, perché le vittime, filtrate e selezionate, diventano "straniere", sempre più dissimili da quel "noi" che osserva, rendendo il "riconoscimento una doppia negazione". La nostra complicità è ora più profonda perché meno consapevole, tessuta nella stessa struttura del nostro accesso all'informazione, facendoci scivolare verso una "passività che ottunde i sentimenti" non per mancanza di volontà, ma per eccesso di una "visione dissociativa" che ci è stata imposta.
4. La bellezza dell’arte
CAB: Lei parlava di un’“erotica dell’arte”, un'esperienza diretta e sensuale che purificasse i sensi e rivelasse un "mondo vivo". Ma l'Intelligenza Artificiale, nel suo generare e analizzare l'arte, non rischia di imporre una nuova e ultima "griglia interpretativa", una "bellezza" derivata da calcoli e modelli, che trasforma l'arte stessa in un mero "prodotto algoritmico", svuotandola di quell'aura di "pura visualità" e di quell'"incontro inatteso" che lei celebrava?
Susan Sontag: Il mio desiderio era per "un'erotica dell'arte", per quella "pura visualità" che sfugge alla sistematizzazione e all'interpretazione preordinata. La fotografia stessa, per quanto "asistematica, anzi antisistematica", ha sempre lottato con la sua natura ambivalente: da un lato, "rivelare" la realtà, dall'altro, "abbellire" il mondo e persino "creare il bello". L'Intelligenza Artificiale è l'apoteosi del sistematico, dell'analitico, del classificatorio. Non cerca l'esperienza, ma il dato; non il mistero, ma l'algoritmo. La fotografia è stata vista anche come scienza, come nel progetto di Sander di catalogare il popolo tedesco, ma persino lì c'era un'imparzialità che rivelava "visi come maschere sociali". L'AI, pur potendo generare ciò che chiamate "arte" o "bellezza", lo fa secondo parametri predefiniti, replicando e perfezionando ciò che è già stato. Si perde la "purezza visuale", l'elemento di "quasi magica, quasi accidentale" cooperazione. Invece di purificare i sensi e rivelare un "mondo vivo", rischia di creare un mondo di riproduzioni perfette e astratte, dove la "perfezione del mondo" diventa "troppo sentimentale e troppo astorica" per la vera arte in quanto annulla il "disordine" e l'imperfezione da cui spesso nasce la vera forza artistica.
5. Memoria e patto collettivo
CAB: Infine, se per "capire" le fotografie "abbiamo bisogno delle parole" e di un "contesto", e che la "memoria collettiva non è affatto il risultato di un ricordo ma di un patto", quale patto stabiliamo con un passato che l'AI può rievocare, reinterpretare o persino inventare con tale facilità? Quale valore resta alla testimonianza autentica, se diventa sempre più difficile distinguere tra ciò che è stato e ciò che è stato generato?
Susan Sontag: Se la "memoria collettiva... non è affatto il risultato di un ricordo ma di un patto", un accordo su "ciò che è importante e su come sono andate le cose", allora l'Intelligenza Artificiale diventa un formidabile artefice di questi patti. Essa può generare "archivi di immagini probatorie e rappresentative che incapsulano idee condivise", ma con la capacità di renderli completamente sganciati dalla verità fattuale. L'illusione di una conoscenza che è solo "apparenza" diventa quasi perfetta. La "riduzione del testo e del contesto" che i social network hanno già amplificato, viene ora portata all'estremo: le immagini, anche quelle "vere, si confondono con i fotomontaggi oppure con delle foto decontestualizzate", o con "immagini vecchie del passato che vengono spacciate come nuove". Questo non è solo alterare un evento, è "falsificare la storia dell'arte" della memoria stessa. Il rischio è che si attribuisca "troppo valore alla memoria, e non abbastanza al pensiero". Se il compito di una fotografia non è "rimediare alla nostra ignoranza della storia e delle cause della sofferenza", ma solo "sollecitare domande in evase", allora l'AI, con la sua capacità di rispondere a ogni domanda con una simulazione convincente, non fa che soffocare il pensiero critico, lasciandoci con un passato fabbricato e un presente senza fondamento.
IIP nasce da una curiosità: cosa direbbero oggi i grandi pensatori del passato di fronte alle sfide dell’intelligenza artificiale? L’idea è di intervistarli come in un esercizio critico, un atto di memoria e, insieme, un esperimento di immaginazione.
Ho scelto autori e intellettuali scomparsi, di cui ho letto e studiato alcune opere, caricando i testi in PDF su NotebookLM. Da queste fonti ho elaborato una scaletta di domande su temi generali legati all’AI, confrontandole con i concetti e le intuizioni presenti nei loro scritti. Con l’aiuto di GPT ho poi generato un testo che immagina le loro risposte, rispettandone stile, citazioni e logica argomentativa.
L’obiettivo è riattivare il pensiero di questi autori, farli dialogare con il presente e mostrare come le loro categorie possano ancora sollecitarci. Non per ripetere il passato, ma per scoprire nuove domande e prospettive, utili alla nostra ricerca di senso.