Il basilico del supermercato è un piccolo mistero domestico. Lo portiamo a casa rigoglioso e profumato, lo mettiamo sul davanzale, gli diamo acqua e luce. Eppure, dopo pochi giorni, lo troviamo afflosciato e ingiallito, come una promessa mancata. Non è colpa nostra: è stato progettato per durare poco. Cresciuto in un vaso troppo piccolo, nutrito a forza per diventare bello in fretta, non ha radici profonde. È pensato per essere venduto, non per vivere.
Questa pianta è una metafora perfetta di come funzionano oggi molte certificazioni professionali nel project management. Fogli timbrati, badge digitali, attestati plastificati: segni di passaggio più che strumenti di conoscenza. Come il basilico da scaffale, appaiono perfetti, ordinati, rassicuranti. Promettono competenza e appartenenza, ma si esauriscono in fretta. Non generano cultura, non trasformano i processi, non insegnano davvero a pensare. Mostrano che si è superato un test, non che si sappia risolvere un problema complesso.
Anche la loro crescita avviene in un ambiente artificiale: corsi lampo di pochi giorni, quiz a scelta multipla, schemi semplificati. E come il basilico fuori dalla serra, questi “saperi” fanno fatica a sopravvivere nel mondo reale, dove i progetti sono ambigui, i team sono imprevedibili e i sistemi non seguono mai il manuale.
L’industria delle certificazioni funziona come un sistema fiscale simbolico. Ogni pochi anni bisogna pagare il rinnovo: lo chiedono le aziende, i selezionatori, perfino gli algoritmi dei social. La certificazione diventa così una tassa sull’esistenza professionale, più che un’occasione di crescita. Bauman, in Modernità liquida, ha descritto il nostro tempo come un’epoca di identità instabili: la certificazione prova a rispondere a questa fragilità promettendo solidità. Ma è un’illusione: non racconta chi sei, solo cosa hai fatto in un momento preciso.
Questo sistema genera burocrazia e autoreferenzialità. Nascono enti accreditati, regolamenti, moduli e audit, mentre chi “certifica” finisce per contare più di chi sa fare davvero. Il sapere pratico, che nasce dall’esperienza e dalla riflessione critica, viene ridotto a un format standardizzato, ripetibile e vendibile.
Eppure il sapere, come il basilico vero, non si compra: si coltiva. Richiede tempo, pazienza, fallimenti e osservazione. Peter Senge, ne La quinta disciplina, parla dell’organizzazione che apprende come di un organismo vivo, capace di riflettere su se stesso e adattarsi. Nulla a che vedere con i modelli precotti delle certificazioni, dove tutto è già deciso: ruoli, processi, framework. La conoscenza autentica, invece, si sviluppa in modo rizomatico, cresce in direzioni imprevedibili e si intreccia con l’esperienza. È ciò che Deleuze e Guattari chiamavano sapere nomade: non si accumula, si attraversa.
Anche il “miglioramento continuo” venduto dalle certificazioni è spesso una caricatura. Il vero Kaizen, nella cultura giapponese, è un atto etico prima ancora che tecnico: attenzione, cura, ripetizione intelligente. Non si misura con i KPI, ma con la consapevolezza. Takuan Sōhō, maestro zen del XVII secolo, scriveva che la vera abilità si manifesta quando l’agire diventa naturale. Questo tipo di competenza non si certifica: si riconosce nei gesti e negli atteggiamenti.
Le certificazioni trasformano il miglioramento in un prodotto: un upgrade da acquistare, un livello successivo da sbloccare. È una gamification del sapere che crea più ansia che competenza e che, come notava Bourdieu, serve spesso a distinguere più che a capire. Il loro valore principale è simbolico: sono marcatori di appartenenza, valute di status, strumenti per entrare in certi network. Funzionano come dispositivi foucaultiani: classificano, normalizzano, escludono. Chi non ha il bollino rischia di sparire, indipendentemente dalla sua esperienza o dal suo pensiero critico.
Uscire da questa logica non significa distruggerla, ma svuotarla di potere. Significa “rifiutare il vaso”: scegliere la coltivazione lenta del sapere, fatta di domande più che di risposte, di comunità di apprendimento invece che di esami da superare. Il project management, nella sua essenza, non è un metodo da certificare ma una forma mentis: un modo di leggere la complessità e di orientarsi nel cambiamento.
Forse la soluzione non è accanirsi per salvare il basilico del supermercato. La sua fragilità non è un incidente, ma la conseguenza del modo in cui è stato cresciuto: troppo in fretta, troppo compresso, troppo lontano da ciò che lo renderebbe davvero vivo. La vera alternativa è smettere di comprarlo e tornare al gesto più semplice e potente: coltivarlo dal seme.
Chiunque abbia seminato una pianta sa che il tempo è parte della conoscenza. Dal seme alla foglia c’è un percorso fatto di attesa, di errori, di osservazione quotidiana. È un sapere che non si trasmette con un manuale né si ottiene con un certificato: lo si costruisce nel rapporto con la pianta, giorno dopo giorno, imparando a riconoscere i segnali, a intervenire quando serve, a lasciare che la vita segua il suo ritmo.
Allo stesso modo, imparare davvero significa uscire dai percorsi prefabbricati. Significa leggere ciò che non è previsto nei programmi, discutere con chi la pensa diversamente, accettare di sbagliare e riprovare. È un atto lento, ma trasformativo, proprio come la germinazione.
Le certificazioni continueranno a esistere, così come esistono i bolli dell’auto: utili per dimostrare che la tassa è stata "pagata", ma non certificano che quell'auto la si sappia davvero guidare in sicurezza per sé e per gli altri.
La conoscenza vera, come il basilico coltivato dal seme, ha radici profonde e continua a profumare anche molto tempo dopo.