Quando discutiamo del passato usiamo termini chiari ed inequivocabili. Diciamo “antichità” per riferirci ad oggetti o a periodi storici; con “retrò” e “vintage” tendiamo prevalentemente a identificare stili e mode; “tradizione” invece è più associato a valori e cultura; “vecchio” sottolinea un’anzianità anagrafica di persone o di oggetti mentre “obsoleto” etichetta una tecnologia ormai superata. Ma quando discutiamo del futuro usiamo parole altrettanto chiare ed inequivocabili? Nel migliore dei casi facciamo ricorso ai contrari dei termini che esprimono il passato. Il contrario di “antichità” è “modernità”, il contrario di “retrò” e di “vintage” è “contemporaneo” oppure “avanguardista”, il contrario di “tradizione” è “innovazione” così come quello di “vecchio” è “nuovo” o quello di “obsoleto” è “attuale”.
Eppure, queste parole non trasmettono uno spiccato slancio verso il futuro, piuttosto tendono a eleggere il presente come antitesi del passato.
Lo stesso fenomeno lo ritroviamo nella coniugazione dei verbi, dove il tempo futuro viene spesso sostituito da espressioni meno perentorie e più sfumate. Invece di dire “io andrò”, “io farò”, “io dirò” si preferisce dire “ho intenzione di andare”, “sono in procinto di fare”, “conviene che io dica”. Insomma, il linguaggio che utilizziamo ci dice che preferiamo continuare a parlare del presente forse perché il futuro lo consideriamo così indefinito che non abbiamo neanche le parole giuste per descriverlo. Quanto spesso nelle nostre riunioni di lavoro, nelle mail che ci scambiamo, nei documenti che scriviamo usiamo termini come ignoto, visione, creatività, immaginazione, ispirazione, intuizione, scoperta, lungimiranza, strategia?
Il linguaggio che utilizziamo ci confina in un presente da cui non riusciamo ad affrancarci perché abbiamo perso la capacità di sognare, ovvero di pensare fuori dagli schemi. Le nostre menti sono bloccate in ideologie, stereotipi e narrazioni obsolete che paralizzano i poteri immaginativi. Come può un consiglio d’amministrazione proiettarsi nel futuro aziendale quando è concentrato sul raggiungimento dei KPI trimestrali? Quando per validare una strategia ha bisogno di un business-case già realizzato? Quando le scelte sono basate solo sui dati? Spesso dunque il futuro che viene proposto è ingannevole, è solo un espediente per distogliere l’attenzione da un presente deludente. Chi ci parla del futuro lo fa per “categorie” impersonali, come se vivessero di vita autonoma: il futuro della tecnologia, dell’economia, della geopolitica.
Bisogna uscire dalla gabbia che imbriglia il pensiero e il linguaggio
Per uscire dalla gabbia che imbriglia il pensiero e il linguaggio, bisogna abbandonare gli schemi di adattamento, di ottimizzazione, di appiattimento su comportamenti consolidati e ripetitivi e abbracciare un nuovo modello culturale basato sul rischio, sull’immaginazione, sulla contaminazione delle idee: in buona sostanza, dobbiamo imparare a parlare di futuro per “utopie”.
La visione utopica è il seme della trasformazione futura, pensare cose apparentemente impossibili è il primo passo per realizzarle. Gli ultimi grandi personaggi visionari risalgono agli anni ’60 del secolo scorso, e le loro utopie hanno segnato la storia dell’umanità; John Fitzgerald Kennedy sognò la conquista della luna e diede avvio al relativo programma di missioni spaziali, Martin Luther King sognò il riconoscimento dei diritti umani e lottò perché si potesse avverare.
Queste persone hanno dimostrato che con i sogni si cambia il mondo: cominciare a sognare oggi il mondo che vorremo domani è dunque il primo passo per riconfigurare un linguaggio che ci permetta di narrare il futuro che stiamo immaginando e che dobbiamo costruire giorno dopo giorno, anche con le giuste parole.
Cadere nella trappola del futuro colonizzato, cioè quello che fa comodo ad altri, è pericoloso perché porta a pensare che il futuro sia già dietro l’angolo ad aspettarci. Non è così: il vero futuro è lontano da noi, dobbiamo immaginarlo e poi cercare di farlo accadere. E mentre ci avviciniamo allo scenario che abbiamo pensato, lui si è già nuovamente trasformato e allontanato. Ma quello che conta è che noi in questo modo siamo andati avanti, abbiamo cambiato pelle e linguaggio, non ci siamo fermati dietro l’angolo scoprendo che non c’era ciò che ci aspettavamo.