Ciò che vediamo non è il declino della religione, ma la sua astuta migrazione nel regno dei mercato. Assistiamo a una transustanziazione del sacro che avrebbe fatto piangere d'invidia gli alchimisti medievali.
L'economia si è appropriata della riverenza un tempo riservata al divino, completa di una propria immacolata concezione di valore, del proprio sacerdozio e della propria liturgia, della sua escatologia implacabile. Questo è il trionfo finale del capitalismo: non ha solo conquistato il mondo materiale, ma ha colonizzato la nostra immaginazione spirituale, forgiando una fede più totalizzante di quanto qualsiasi chiesa abbia mai osato tentare.
L'architettura teologica è mozzafiato nella sua completezza. Dove il Dio di Calvino eleggeva le anime con grazia indecifrabile, il Mercato elegge i vincitori attraverso altrettanto misteriosi meccanismi della mano invisibile. La sofferenza trova la sua teodicea nel linguaggio dell'efficienza: la disoccupazione di massa diventa "aggiustamento del mercato del lavoro", la devastazione ecologica viene ridefinita come "esternalità negative", la miseria umana si santifica come "riforma strutturale". Una successione apostolica di economisti e amministratori delegati interpreta il nuovo vangelo, con le loro proclamazioni incise in indici, valutazioni e previsioni. I fedeli consumano e investono con il fervore dei comunicanti, esaminando i punteggi di credito e i rendimenti trimestrali alla ricerca di segni di salvezza. Come nell'alta chiesa, la blasfemia è intollerabile: i dissidenti sono eretici, liquidati in cerimonie di annientamento reputazionale.
Eppure questa divinità fittizia si dimostra molto più spietata dei suoi predecessori.
Il dogma tradizionale, seppur severo, preservava la possibilità di redenzione; anche la divinità più iraconda potrebbe, col tempo, mostrare misericordia. Il Mercato non conosce tale debolezza. I grafici azionari non offrono alcuna promessa di riconciliazione celeste ma istituzionalizzano un inferno terreno, un sistema che trasmuta la grazia in credito, il perdono in liquidità e la salvezza in una merce per sempre valutata oltre la portata dei dannati. Weber e Tawney intravidero il carattere religioso del capitalismo ma non colsero l'inversione cruciale, una teologia priva dei suoi misteri consolatori, ridotta all'aritmetica fredda del profitto e delle perdite. Dove il Dio di Giobbe almeno dialogava con la sofferenza umana, il Mercato risponde al dolore con indifferenza algoritmica.
Il mercato che temiamo non è quindi una mera ironia, ma una confessione schiacciante: la nostra fede più alta è stata annessa da un meccanismo non di redenzione ma di esposizione, non di trascendenza ma di giudizio infinito. L'antica promessa che i mansi erediteranno la terra è ora soppiantata dalla certezza di ferro che solo i profittici sopravviveranno. Il mercato non offre un regno a venire, solo una prova perpetua; Non un sentiero verso la trascendenza, ma un presente eterno di competizione, scarsità e paura.
English orignal text
CAPITALISM'S NEW GOSPEL
The secular West has not so much abandoned God as found a more exacting deity. What we witness is not the decline of religion but its cunning migration into the kingdom of markets—a transubstantiation of the sacred that would make medieval alchemists weep with envy. The economy now commands the reverence once reserved for the divine, complete with its own immaculate conception of value, its own priesthood and liturgy, and its unforgiving eschatology. This is capitalism's final triumph: it has not merely conquered the material world but colonized our spiritual imagination, forging a faith more totalizing than any church ever dared attempt.
The theological architecture is breathtaking in its completeness. Where Calvin's God elected souls through inscrutable grace, the Market elects winners through equally mysterious workings of the invisible hand. Suffering finds its theodicy in the language of efficiency: mass unemployment becomes "labour market adjustment," ecological devastation is recast as "negative externalities," human misery sanctifies itself as "structural reform." An apostolic succession of chief economists and CEOs interprets the new gospel, their proclamations inscribed in indices, ratings, and forecasts. The faithful consume and invest with the fervor of communicants, scrutinising credit scores and quarterly returns for signs of salvation. As in the high church, blasphemy is intolerable: dissenters are heretics, liquidated in ceremonies of reputational annihilation.
Yet this ersatz divinity proves far more ruthless than its predecessors. Traditional dogma, however severe, preserved a possibility of redemption; even the most wrathful deity might, in the fullness of time, show mercy. The Market knows no such weakness. Stock charts offer no promise of heavenly reconciliation but institutionalize an earthly hell—a system that transmutes grace into credit, forgiveness into liquidity, and salvation into a commodity forever priced beyond the reach of the damned. Weber and Tawney glimpsed capitalism's religious character but missed the crucial inversion—a theology stripped of its consoling mysteries, reduced to the cold arithmetic of profit and loss. Where the God of Job at least engaged in dialogue with human suffering, the Market responds to pain with algorithmic indifference.
The Market We Fear is thus no mere irony, but a damning confession: our highest faith has been annexed by a mechanism not of redemption but of exposure, not of transcendence but of endless adjudication. The ancient promise that the meek shall inherit the earth is now displaced by the iron certainty that only the profitable shall survive. The market offers no kingdom to come, only a perpetual ordeal; not a pathway to transcendence, but an eternal present of competition, scarcity, and fear.
Our Market, who art in numbers,
Let thy logic reign.
Deliver us from surplus cost,
Redeem us in quarterly fire,
For only the profitable shall be saved.