Come se non bastassero le perduranti difficoltà economiche del giornalismo nell’era digitale, il mondo dell’informazione oggi affronta una nuova minaccia. Una duplice minaccia, a dire il vero, ma portata da un unico responsabile: l’intelligenza artificiale.
Facciamo un passo indietro. La crisi economica in cui il giornalismo è attualmente immerso è iniziata quando il mondo dell’informazione ha scelto – in maniera quasi inconsapevole, in quel turbolento periodo di passaggio dalla carta al web negli anni Novanta – di accettare il modello “informazione gratuita in cambio di pubblicità”.
È un modello che non ha funzionato: i guadagni garantiti dalla pubblicità online non sono mai stati sufficienti a sostenere il giornalismo di qualità, mentre il conseguente bisogno di avere un enorme traffico di click e mantenere i costi i più bassi possibili ha favorito l’emergere di un giornalismo sensazionalista, affrettato e dai compensi ridottissimi.
Con l’eccezione di poche testate che hanno puntato su un modello di business differente – basato sulla fidelizzazione del pubblico e sulla costruzione, nel tempo, di una massa critica di abbonati o sostenitori (l’esempio canonico italiano è Il Post) – la maggior parte delle testate online (comprese quelle dei grandi quotidiani tradizionali) hanno fondato le loro speranze di sostenibilità economica esclusivamente su due grandi vettori di traffico: i social media e i motori di ricerca.
I social media, a partire dal vecchio Facebook, hanno da tempo abdicato a questo ruolo di distributori dell’informazione, soprattutto per evitare che i link degli articoli portassero gli utenti al di fuori del social stesso.
L’altro grande vettore di traffico, vale a dire i motori di ricerca, è così nel tempo diventato sempre più importante: secondo quanto riporta il Wall Street Journal, “nel mondo dei media, le ricerche su Google generano circa il 40% di tutto il traffico ricevuto dai siti web più importanti”. Ma c’è un problema: sempre più spesso le persone effettuano ricerche usando ChatGPT o ricevono su Google delle risposte generate dall’intelligenza artificiale (la modalità chiamata AI Overviews).
Lo spostamento delle ricerche a favore dei sistemi di intelligenza artificiale generativa e l’adozione di questa tecnologia da parte di Google, Bing e tutti gli altri – che invece di mostrare link, forniscono così agli utenti direttamente il contenuto desiderato – ha portato i gruppi editoriali a una perdita stimata attorno al 20-40 % del traffico generato da Google, stando sempre al WSJ.
Nel complesso, secondo una ricerca condotta dal Brookings Institute, le ricerche effettuate tramite large language model rendono inutile cliccare sui link (anche quando mostrati) nel 75% dei casi, e ciò causa un calo del traffico generato dai motori di ricerca che nel 2026 si pensa sarà del 25%. Numeri e scenari particolarmente foschi per le realtà editoriali, e che rischiano di peggiorare man mano che si diffonde l’abitudine di utilizzare ChatGPT al posto di Google, che intanto diventa sempre più simile al suo rivale.
Come riporta l’esperto di tecnologia Casey Newton nella sua newsletter, da quando Google ha integrato AI Overviews nel suo motore di ricerca, “la percentuale di click alle pagine da cui ha derivato l’informazione è calata del 70-80%”. Vale a dire che, in prospettiva, le realtà che fanno affidamento sui click ottenuti da Google devono prepararsi a perdere potenzialmente tre quarti delle visite ottenute tramite i motori di ricerca.
“Secondo una ricerca condotta dal Brookings Institute, le ricerche effettuate tramite LLM rendono inutile cliccare sui link nel 75% dei casi, e ciò causa un calo del traffico generato dai motori di ricerca che nel 2026 si pensa sarà del 25%”.
Una minaccia esistenziale: per la tenuta economica del mondo dell’informazione ma anche per la qualità dell’informazione e per i giornalisti. La possibilità di impiegare sistemi in stile ChatGPT per produrre in tempi rapidissimi una marea di testi non sta infatti rivoluzionando solo il mondo dei motori di ricerca, ma sta anche facendo la fortuna economica delle cosiddette AI content farms: vere e proprie fabbriche di contenuti generati tramite intelligenza artificiale in grado di pubblicare enormi quantità di articoli rielaborando automaticamente notizie già presenti online.
La società di monitoraggio Newsguard ha individuato oltre 1200 di questi siti, in cui un singolo “autore” arriva a pubblicare anche centinaia di articoli al giorno. Che si tratti anche di realtà professionali si capisce analizzando l’attività di alcune di esse. Un gruppo editoriale chiamato Gamurs Group e specializzato in videogiochi vanta per esempio 17 testate online e 66 milioni di lettori al mese. Recentemente ha pubblicato un annuncio di lavoro per un “AI editor” che avrebbe il compito di scrivere “tra i 200 e i 250 articoli alla settimana”. Ovvero circa 30/40 al giorno, festivi compresi.
Che fine faranno i contenuti originali e i giornalisti pagati per crearli se questo processo può essere automatizzato e moltiplicato a costi irrisori? E come faranno le intelligenze artificiali a essere addestrate con informazioni e approfondimenti aggiornati, se verrà meno l’incentivo economico a produrli?
Ma non è l’intelligenza artificiale a essere nemica del giornalismo, bensì il modo in cui abbiamo scelto di usarla per rispondere a imperativi economici ben precisi. Per loro natura (se così si può dire), le intelligenze artificiali non sono infatti destinate a sostituire il lavoratore umano, semmai ad affiancarlo. Le loro capacità (rapidità nell’analisi di una grande mole di dati, traduzione, sintesi) offrono le migliori prestazioni quando affiancano, e non quando sostituiscono, i lavoratori, dotati invece di qualità che alle AI mancano completamente (creatività, giudizio, senso critico, strategia).
Eppure le cose stanno andando in maniera molto diversa: al posto di un’auspicabile alleanza tra essere umano e macchina, si sta andando incontro alla sostituzione sistematica, al solo scopo di tagliare i costi e massimizzare i profitti, anche a scapito della qualità del servizio offerto (e questo, ovviamente, non vale solo per il giornalismo ma per tutte le professioni creative e della conoscenza). In questo modo, a beneficiare della diffusione di ChatGPT e dei suoi fratelli sono solo i bilanci delle grandi aziende, mentre a perderci è l’intera società.
Considerato che gli incentivi economici per le aziende le spronano – in assenza di un’apposita regolamentazione – a tagliare i costi e a massimizzare i profitti, invertire la tendenza sarà estremamente complesso. E pensare che, se usata per supportare l’essere umano invece che per sostituirlo, l’intelligenza artificiale può diventare uno strumento estremamente utile…
Concedetemi un esempio personale, che riguarda il giornalismo ma che si può adattare a molti altri contesti. Per il mio lavoro utilizzo quotidianamente ChatGPT e altri strumenti basati su intelligenza artificiale. Ovviamente non per scrivere articoli, ma per trovare refusi, individuare la traduzione migliore per un termine di lingua che non conosco, farmi suggerire delle alternative per titoli o sottotitoli quando non mi viene in mente nulla (modificandoli a piacimento o rifiutandoli del tutto), farmi consigliare come rendere più scorrevole un paragrafo che mi sembra involuto (anche solo per “sbloccarmi” e spesso senza poi utilizzare i suggerimenti che mi vengono forniti), individuare i punti deboli: che cosa manca, che cosa andrebbe approfondito o abbreviato.
“Riusciranno gli editori a rinunciare al taglio dei costi in favore di contenuti di qualità superiore? Al momento, gli indicatori relativi al mercato del lavoro vanno in una direzione opposta”.
Insomma, esiste un modo sano e corretto di impiegare ChatGPTo che va oltre la pigra delega. Come segnala Barbara Larson, docente di Management alla Northeastern University, “il modo più intelligente per trarre vantaggio dall’intelligenza artificiale è limitarne il ruolo a quello di un assistente entusiasta ma un po’ ingenuo”. Non dobbiamo chiedere a un chatbot di generare direttamente il risultato finale desiderato, ma guidarlo passo dopo passo lungo il percorso che porta alla nostra soluzione. Questo utilizzo dell’intelligenza artificiale non è preferibile a quello sostitutivo (solo) perché ci permette di salvaguardare la nostra attività cerebrale, ma soprattutto perché è il modo giusto per sfruttarne al meglio le potenzialità.
Riusciranno gli editori a rinunciare al taglio dei costi in favore di contenuti di qualità superiore? Al momento, gli indicatori relativi al mercato del lavoro vanno in una direzione opposta e mostrano semmai come le aziende stiano licenziando e (soprattutto) assumendo meno personale umano a favore dei sistemi di intelligenza artificiale.
Eppure, anche in uno scenario fosco come quello descritto si nascondono delle opportunità.
Se il world wide web viene inondato da contenuti generati automaticamente, di scarsa qualità e ancor più bassa attendibilità, piagati dal perdurante e forse irrisolvibile problema delle allucinazioni (quando cioè un’intelligenza artificiale presenta come se fossero dei fatti delle informazioni invece errate o completamente inventate), ecco che per il mondo dell’informazione e dei giornalisti si aprono nuove possibilità. Come ha scritto la filosofa Gloria Origgi in un articolo pubblicato su Aeon, “dall’età dell’informazione ci stiamo muovendo verso l’età della reputazione, in cui le informazioni avranno valore solo se sono già state filtrate, valutate e commentate da persone di cui ci fidiamo”.
In questa transizione si apre per i giornalisti l’opportunità di diventare una bussola che orienta chi è in cerca di informazioni verificate e accurate. Un lavoro che quindi non prevede più soltanto di produrre notizie, ma di costruire un rapporto con i lettori, fornire loro un chiaro valore aggiunto rispetto al caos informativo che li circonda e di abbandonare la ricerca del click in nome di un ritorno alla qualità, all’approfondimento e alla contestualizzazione.
...completa la lettura sulla rivista LUCY Due mondi