Non serve un confine per dividere due campi. Basta una grandinata. Quando cade, non chiede permesso né rispetta recinzioni: colpisce tutto, e ti ricorda che la terra non è mai davvero “tua”. Il solco che la pioggia cancella, che io ridisegno ogni anno, è la prova che il campo del vicino non è mai davvero “del vicino”. In agricoltura, lo impari presto: la fragilità è un bene comune.
È così che capisci quanto siano ingannevoli le linee che tracciamo per sentirci al sicuro. Le aziende, invece, continuano a disegnare recinti mentali: “Qui finisce la mia proprietà, qui inizia la mia responsabilità.” È una finzione comoda, ma costosa. Perché i sistemi naturali e sociali non funzionano per compartimenti: si contagiano.
Oggi il cacao è in crisi in Africa occidentale, il caffè in America Latina, il riso in Asia, le nocciole nel Mediterraneo. Quattro prodotti simbolo, quattro storie diverse, un solo destino: la vulnerabilità climatica e geopolitica che il mercato chiama “fluttuazione”.
Abbiamo trasformato la scarsità in estetica, e l’etica in una postilla a piè di bilancio. “Limited edition”, “premium”, “small batch”: parole che vendono la mancanza, ma svuotano di senso chi la vive davvero.
Il Brand, nel suo linguaggio asettico, assorbe il dolore della filiera e lo restituisce come semplice “variazione di prezzo”. Non una storia, ma un costo. È la forma più elegante di censura economica: rendere invisibile la fatica trasformandola in margine.
Edmund Burke scriveva che la società è un patto tra i vivi, i morti e i non ancora nati. Ma il management moderno sembra averlo dimenticato, trattando la terra come un conto corrente, non come un’eredità temporanea. E quando il tempo scade, non lascia un’eredità ma un debito.
Chi coltiva sa che il “meno” non è un fallimento. È una misura. È la linea che non vedi ma che ti dice: "Fin qui puoi prendere, da qui in poi devi restituire".
E allora? Dobbiamo smettere di comunicare la scarsità come marketing e renderla un atto di onestà. Raccontare il limite come forma di rispetto, non di debolezza. Perché ciò che davvero dà valore alle cose non è la loro quantità, ma la loro durata nel tempo. Il “meno” non è un difetto da correggere. È la misura esatta di ciò che può durare.
E capire questa misura, oggi, è forse la più radicale forma di modernità.