Oggi, quell’oltre interroga la nostra epoca più di quanto possa sembrare. Non è più, forse, lo spazio epico della conquista o dell’eroismo, territori abitati un tempo dagli dèi e dagli eroi, presenze che segnavano confini e tracciavano percorsi. Viviamo, invece, nel tempo dell’immanenza esasperata, in cui tutto tende a coincidere con l’adesso, il visibile, l’utile.
se l’oltre non è più un altrove stabilito — Dio, il Destino, il Progresso — allora può diventare movimento interiore
L’oltre ha perso la sua aura, è diventato diffidenza verso l’invisibile, fastidio per ciò che eccede la misura dell’io immediato. Ma è proprio in questa condizione che quel frammento di Saffo assume una forza inattesa. Perché se l’oltre non è più un altrove stabilito — Dio, il Destino, il Progresso — allora può diventare movimento interiore, rottura della stasi, atto minimo di resistenza contro il dominio del presente come chiusura. L’oltre può coincidere con il coraggio di sottrarsi all’obbligo della performance, con la scelta di abitare la fragilità senza tradurla subito in efficienza. O ancora, con il tentativo di riscoprire una parola che non sia strumento, ma forma di cura, di interruzione, di verità.
Se l’oltre è movimento, è necessario pensare che si compia in prima persona, un atto irriducibilmente singolare e non trasferibile. In questa luce, l’oltre non è un orizzonte condiviso, un progetto comune, ma piuttosto un confine che ciascuno misura e reinventa nel proprio spazio intimo, in quell’intimità performativa che Goffman definisce scena in cui l’attore plasma la propria identità. Superare significa allora non soltanto andare “oltre” qualcosa, ma prendere su di sé la responsabilità del proprio passo, il rischio dell’azione che non può essere delegata né giustificata da un senso universale. L’oltre diventa così la promessa di sé a se stessi, un gesto che si dà e si mantiene nella tensione di una relazione costante con la propria immagine, la propria voce interiore e, inevitabilmente, la propria intimità.
Ma prima ancora di ogni contenuto, è la forma stessa del verbo a custodire un’idea di mondo.
L’ottativo — modo della possibilità senza garanzia — è una voce che oggi risuona come straniera. Non afferma né ordina, non descrive né pretende. È una lingua marginale, che abita i confini del dire. Dire ἰοίην non significa “andrò”, ma “che io possa andare”: è un movimento che si apre senza assicurarsi l’approdo, una forma verbale che contiene l’incertezza senza ritrarsene. In un tempo dominato dall’indicativo del fatto e dall’imperativo della prestazione, l’ottativo rappresenta una grammatica alternativa dell’esistenza. È l’eco di una lingua che non comanda né possiede, ma si affida. Forse è proprio questa la voce del desiderio autentico: non quella che reclama, ma quella che regge la distanza senza dissolverla.
L’invocazione saffica non chiama a raccolta divinità esterne: è un’esortazione che parte da sé, e proprio per questo è radicale. Non si attende salvezza da altro, ma si affida a un desiderio profondo, quasi primordiale, che nasce nell’io e si protende fuori da esso. È una speranza che non si fonda sull’illusione, ma sulla necessità di non restare immobili, di non accettare passivamente il dato.
anche il desiderio ha bisogno di lingua
Ma anche il desiderio ha bisogno di lingua. E se oggi fatichiamo a nominare l’oltre, è forse perché il lessico che lo evocava si è assottigliato fino a svanire.
Le parole che un tempo aprivano varchi — attesa, promessa, soglia, rivelazione — sono state logorate dall’uso o espulse dal discorso pubblico. È rimasto un lessico tecnico, operativo, performativo. La lingua dell’efficienza ha eroso la possibilità stessa di evocare l’oltre senza ridurlo. Eppure, in quella parola sola, ἰοίην, si trattiene qualcosa che resiste: non un concetto, ma un respiro, che si fa fenditura. Forse oggi la prima forma di resistenza consiste nel custodire parole che non servono a nulla, se non a ricordarci che il linguaggio può ancora aprire invece di chiudere e sospendere invece di risolvere.
Ma custodire parole che aprono significa anche interrogarsi su che tipo di umanità esse custodiscono. Se l’essere umano ha sempre vissuto nella tensione tra limite e superamento, oggi quel rapporto sembra essersi radicalmente trasformato.
custodire parole che aprono significa anche interrogarsi su che tipo di umanità esse custodiscono
Non viviamo più la misura come soglia da varcare, ma come soglia da cancellare. L’oltre, anziché aprire una traiettoria verso l’invisibile o l’inatteso, diventa estensione orizzontale dell’identico: più velocità, più connessione, più controllo. In questo scenario, la figura antropologica che prevale non è quella dell’homo desiderans, ma quella dell’homo replicans, impegnato a riprodurre sé stesso senza più oltrepassarsi. In un mondo dove ogni eccedenza è tradotta in disfunzione e ogni opacità è da illuminare, desiderare diventa un gesto dissonante, un’anomalia. È, però, proprio questa dissonanza a restituire all’umano una densità che non si lascia ridurre. L’invocazione di Saffo non è solo lirismo: è antropologia implicita. Parla di un soggetto fragile, consapevole del limite, eppure mai del tutto chiuso in esso. “Che io possa andare oltre” non è il grido di chi rifiuta la condizione umana, ma il respiro di chi la attraversa fino in fondo, senza anestesia.
Che io possa andare oltre: perché l’alternativa è restare prigionieri di una lingua consumata, di gesti svuotati, di identità irrigidite.
Che io possa andare oltre: perché ogni passaggio, ogni transito, ogni soglia attraversata, anche la più silenziosa, è già una forma di libertà.
Che io possa andare oltre: perché oggi, più che mai, abbiamo bisogno di soggetti che sappiano desiderare senza garanzie, che sappiano esporsi senza dèi a proteggerli, che possano dirsi a voce bassa, eppure ostinatamente, ancora capaci di speranza. L’oltre non è un luogo da raggiungere, ma un movimento da custodire. E forse è proprio questo che, nel frammento più piccolo, Saffo ha saputo trasmettere: una misura della poesia come forza che non spiega, ma spinge. Che non indica, ma sospinge. Una parola che, in un solo verbo, contiene il rischio, il desiderio e la necessità di un esistere in transito.
La domanda allora diviene: siamo ancora capaci di desiderare?
Se l’oltre non è più garantito da figure trascendenti, né orientato da racconti collettivi che offrano un senso, resta da chiedersi se il soggetto contemporaneo abbia ancora in sé la tensione a muoversi, a rischiare, a esporsi. Perché il desiderio, in quanto apertura verso ciò che manca, implica sempre una frattura: non si dà là dove tutto è disponibile, immediato, addomesticato. In un tempo in cui l’accumulazione prende il posto dell’attesa e l’algoritmo anticipa ogni gesto, il desiderio sembra rarefarsi. Non scompare, ma si deforma: si piega sul consumo, si traduce in aspettative calcolabili, si disperde in infinite simulazioni di appagamento che eludono la ferita del desiderare davvero. E tuttavia, proprio per questo, forse il desiderio non è mai stato tanto necessario. Non come volontà di potenza, non come soddisfazione, ma come mancanza abitata, gesto fragile, eppure resistente, che attraversa la propria precarietà senza fuggirla.
Essere capaci di desiderare, oggi, significa sopportare la distanza tra sé e il mondo senza rimuoverla, coltivare uno sguardo che non pretende, ma attende e che non consuma, ma si lascia toccare. La speranza, parola usurata, ma non per questo da abbandonare, può allora essere ripensata non come illusione consolatoria, ma come forma discreta di resistenza. Sperare non è proiettarsi in un futuro garantito, ma rimanere aperti all’imprevisto, mantenere vivo un senso del possibile là dove tutto spinge alla chiusura. In questo senso, il frammento ἰοίην non dice solo “che io possa andare oltre”, ma anche: che io possa ancora desiderare, che io non perda la capacità di farmi domanda, che io non rinunci alla speranza come forza senza garanzie. Non ci sono più dèi che indicano la via, né eroi che la percorrono per noi. Ma forse è proprio da questa mancanza, da questo silenzio, che può nascere un nuovo tipo di ascolto: non più rivolto all’alto, ma alla propria interiorità vigile, capace ancora di dire, con voce sottile, ma irriducibile: che io possa andare oltre.