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Immersi in un flusso inarrestabile di dati e interazioni che l’Ai pare meglio governare tanto da affidarle maldestramente il nostro pensare, scambiamo il solo computo con quel tumultuoso marasma di cum-prendere e cogitare che sempre la esonda e proprio nel fine: cedendo spesso nella facoltà di discernere, di scegliere, di dare forma alle nostre azioni secondo principi che noi stessi sempre dobbiamo darci.

Il pazzo è un sognatore da sveglio (Immanuel Kant)

Non era forse questa l’ormeggio immaginato per salire a bordo della Stultifera Navis, nel nord dell’un tempo fiorente scalo di Koningberg: dove attende quel composto concittadino, al secolo Kant, cui subito concedere il timone!

Ma quale migliore congiuntura - a recuperare il senso provvidenziale del Kairos di matrice greca - di un sabato mattina di maggio insolitamente uggioso e piovoso, che invita a sostare ed indugiare nel pensiero rischiarato da Paola Rumore ed il suo acuto saggio “Le ragioni di Kant?[1]

Certo pochi si immaginerebbero la figura schiva e riservata, lontana dal fascino dell’avventuriero alla Achab, promosso a novello condottiero, per quello che effettivamente può suonare quale provocazione o financo palese paradosso: stante il preciso cartografo delle terre conosciute che Kant fu, visse “ancorato” a quella ridente cittadina che era la Konigsberg prussiana, [2]

“Si misura l'intelligenza di un individuo dalla qualità d'incertezze che è capace di sopportare.” (Immanuel Kant)

Facendone una casa, che nell’ebraico Bet dice del mantenervi però sempre una porta aperta, da cui incontrare il mondo e ricordarsi di essere in cammino.

Quel camminare metodico e rigoroso, scandito dall’orologio della piazza, con cui Kant ha spaziato il mondo nel suo sguardo acuto e penetrante, per nulla arido e inaccessibile come molta fredda manualistica lo presenta per farne l’incubo di generazioni di studenti: bensì pensatore fine, animato dallo spirito più vibrante dell'Illuminismo, capace di una prosa anche garbata, ironica e brillante, ad irrorare la presunta freddezza del sistema kantiano.

Una vitalità e ed una urgenza vibra nelle sue "ragioni”, che sono poi le nostre nel cercare di capire e “destinare” il viaggio della nostra Stultifera Navis: dal cui ponte le lande del digitale non possono che apparire vaghe ed incerte, sospese nelle nebbie gelatinose dai contorni sfuggenti ed evanescenti, che nulla hanno del nitore e della puntualità scenografica delle xilografie del Durer che accompagnano e rendono viva la graffiante satira di Brant.

Ragioni che specialmente quando parliamo di libertà si muovono dai registri della ragione teoretica, che indaga il mondo com'è, a quella pratica, che ci dice come dovremmo agire: in quel respiro di apertura cosmopolita che da sé basterebbe a rendere Kant attuale, a dispetto del suo confino in una modernità da cui ci appare lontano

Una sagoma imponente ma ancora irretita nello sforzo titanico di centrare il soggetto in quel mondo da cui il pensiero contemporaneo ci ha poi giustamente sbalzato fuori: in nome delle conquiste della fisica quantistica e delle esplorazioni novecentesche nei territori dell’inconscio, da cui siamo riemersi feriti nel microcosmo della nostra presunta sovranità razionale in noi stessi.

Tanto da farlo a volta sembrare un recupero archeologico, per un filosofo cui manca la “prossimità” con il fatto tecnologico che fa ad esempio di Heidegger, Baudrillard, la scuola francofortiana i capisaldi di una papabile filosofia del digitale.

Ma Kant è potente magnete cui richiamarci per parlare di rischiaramenti e libertà oggi, nel mare vasto e tumultuoso del digitale: perché è quando la nave sembra perdere la rotta- sballottata tra le correnti ed i gorghi vorticosi di “mostri tecnologici” alla Scilla e Cariddi, o peggio preda del canto delle sirene che ammaliano nel luccichio delle nuove mirabilia tecnologiche- che la bussola di Kant si palesa preziosa più che mai.

Ricordandoci servano stelle ad orientarci e bussole da seguire, per una destinazione da scegliere: la “Bestimmung” di Kant, che dalla sua lapide, tanto celebre nell’ epitaffio “le stelle sopra di me e la morale in me” da cadere preda del merchandising culturale, ci ammonisce ai nostri poteri e doveri.

Nell’ indagare criticamente, cercando di fondare la nostra libertà, che palpita e vive non malgrado le regole, bensì attraverso di esse e la nostra capacità di darcele: per orientarci verso la nostra auto-nomia, e cioè letteralmente, la nostra capacità di fondare autonomamente la legge.

Non in virtù di qualcosa di esogeno, di una costrizione esterna- sia essa un tiranno algoritmico o il "mi piace" compulsivo- bensì secondo un principio che la nostra stessa ragione riconosce quale universalizzabile.

Quel principio che risuona nell’imperativo categorico – "Agisci soltanto secondo quella massima per mezzo della quale puoi insieme volere che essa divenga una legge universale" – troppo spesso tradito quale costrittivo fardello: laddove canta invece uno dei più fulgidi inni alla nostra dignità di esseri razionali, capaci di autodeterminazione

Una capacità che dobbiamo recuperare, a dispetto dei mille proclami libertari che si risolvono poi in vacua ed anodina stereotipazione omologante, specie quando della libertà si distorcano confini e significati: tra inclusioni forzate che appiattiscono le differenze, e sciocche dimenticanze di quanto la tecnologia sia sempre strumento socio-etico

Una capacità di cui Kant è allora nostro maestro: anzi, chi ci consegni all’iscrizione nel regno delle possibilità sconfinate di quella libertà che oggi i labirinti di sorveglianza, le bolle algoritmiche, la miracolosità creativa dell’AI minacciano invece di atrofizzare.

Nella costante stimolazione che offende per prima la nostra capacità di sostare, appressarci, ormeggiare ed abbordare placidamente la riflessione, senza cui ogni azione divine agito e si perde nella compulsività di un fare dromomanico ed ipertensionato che perde la forza dell’Evento, come meglio direbbe una rediviva Harend

Indubbio, infatti, il mondo in cui siamo oggi esposti possa facilmente farci preda della strumentalizzazione tecnologica, in virtù di una immediazione costante che troppo pre-para e pre-dispone: dove sempre più pervasivamente la tecnologia media appunto per noi l’immediato, indirizzando, profilando, appiattendo fratture e vuoti per inneggiare al piano ed al pieno, ad espungere preventivamente problemi ed inciampi

Invitare allora Kant a prenderne il timone della nostra bizzarra e sferzante Stultifera Navis significa consentirsi innanzitutto di riflettere, e scegliere davvero: una virtù rara e preziosa, irrinunciabile per poter riconoscere la propria voce da quella del coro, o semplicemente per silenziare l’orchestra cui le mille piattaforme offrono prosceni e scenografie pret-a portee, definendo però anche i limiti del copione.

Ecco perché Kant riemerge come un faro potentissimo e non come un relitto polveroso ed abbandonato: l'audace cartografo di quanto la nostra ragione possa criticamente fondare, assicurandola nella terraferma solida e compiuta della conoscenza scientifica di cui diviene alfiere, padre dell’illuminismo che con la fiaccola della ragione ci affranca dallo stato tenebroso e di minorità che trasla dalla poesia della caverna di Platone alle scabre stanze di un tribunale.

Quelle dinnanzi a cui nella Critica della Ragion Pura la ragione porta sé stessa: per indagare dei propri poteri e dei propri limiti, in un processo che mette in tensione e sotto esame la ragione teoretica in un gesto audace ed eroico, ai limiti della hybris filosofica, e di cui spesso si misconosce la portata.

Fai ciò che è giusto, sebbene il mondo possa perire (Immanuel Kant)

Prima di Kant, come sulle opposte sponde di un fiume, stavano infatti su un versante i razionalisti dogmatici, convinti la ragione potesse spaziare illimitatamente e cogliere le verità supreme con la sola forza del pensiero;  e dall’altro gli empiristi e scettici, legati all'esperienza sensibile,  a fronteggiarsi in un impossibile dialogo “tra sordi”: dove ciascuno proclamava il proprio dominio ma senza poter stabilire un fondamento saldo ed universalmente riconosciuto su cui accampare le proprie pretese.

Un contesto in cui la metafisica, ai tempi supposta "regina delle scienze", era campo di battaglia confuso e caotico in cui la ragione brancolava in contraddizioni e illusioni, nel gioco di conquiste e smentite che la novella scienza per giunta alimentava: dove a Kant spetta dunque il merito di avere torto la visione, primo a cogliere metaforicamente la sagoma della penna che si fa teschio negli Ambasciatori di Holbein.[3]

Primo cioè a decostruire e riassestare il quadro, e cogliere quanto il problema nel volgersi al mondo non stesse negli oggetti di indagine ma nel soggetto stesso che indagava: la ragione, che prima di azzardare qualsiasi affermazione legittima sul mondo o su quanto lo trascenda, era chiamata a rispondere di sé, in un processo dove nessuna autorità esterna avrebbe interferito.

Né Chiesa, tradizione, né esperienza sensibile, bensì solo sé stessa: giudice e giudicata, in una indagine trascendentale che si occupa delle condizioni di possibilità della conoscenza, delle sue proprie strutture, fondamenta e limiti, in un auto esame rigoroso per capire fino a dove possa spingersi legittimamente nella pretesa di conoscere.

Un processo in cui l'obiettivo risulta duplice: stabilire i confini legittimi[4] definendo l’ambito in cui la ragione teoretica possa agire in modo valido e fecondo - che è il mondo dell'esperienza possibile e dei fenomeni, e smascherare le pretese illegittime di una ragione che, spinta per propria natura verso l'incondizionato della metafisica, si invola verso l'illusione.

Un processo dall’esito drammatico e specie per quei tempi, nel limitare la giurisdizione della ragione teoretica al solo regno del fenomenico, negando nel noumeno la possibilità di cogliere alcunchè con quello “strumento” con cui conosciamo la mela che cade o il movimento dei pianeti.

Un mondo che conosciamo attraverso strutture con cui la nostra stessa mente contribuisce attivamente a modellare la conoscenza del mondo, che cede immancabilmente mondo delle "cose in sé", di ciò che sta oltre il velo dei fenomeni, e cioè le grandi domande metafisiche: Dio, l'immortalità dell'anima, e la libertà intesa come capacità di iniziare una catena causale indipendentemente dalle leggi, dove la ragione cade in antimonie e paralogisimi, cioè continue  contraddizioni o a ragionamenti fallaci.

Rimandandoci con salubrità all'esperienza del possibile.

Qui si rivela però la potenza feconda e l’eterna giovinezza del pensiero kantiano: quella che parrebbe essere una limitazione, la castrazione della nostra ragione, diviene supremo gesto di liberazione, che Kant agisce nell’assolvere la ragione salvandola proprio nel delimitarne il campo di azione legittimo: lasciando il sacro nel recinto, separato ed inviolato dal pro-fanum, [5]per evitare che la ragione cada immancabilmente nel dogmatismo, oppure finisca a fustigarsi con lo scetticismo.

Definendone l’ambito Kant ne garantisce la solidità, nella conoscenza scientifica dal “ritaglio di mondo” della fisica newtoniana, cui ancora puta caso noi ancor oggi ci ancoriamo a dispetto delle conquiste che la ragion ha poi traguardato: per l’incapacità di abitare concettualmente quanto la fisica quantistica ci abbia rivelato- od almeno per i più ed io tra quelli certamente!

Un momento epico la filosofia di Kant, dunque, per un dramma della ragione che si confronta con i propri demoni e ne esce, se non vittoriosa su tutti i fronti, certamente più saggia e consapevole di quanto possa: cioè del mondo così come ci appare attraverso le forme a priori della nostra sensibilità -spazio e tempo - e le categorie del nostro intelletto -causalità, sostanza, ecc.

Un atto di umiltà intellettuale che paradossalmente rafforza la ragione, ponendo fine alle guerre metafisiche infruttuose e stabilendo un nuovo e più sicuro, fondamento per l'intera impresa filosofica e per la comprensione della condizione umana: divisa tra necessità naturale e libertà morale

Non potendo infatti la ragione teoretica né dimostrare né confutare il soprasensibile, Kant lascia aperta la porta e libera lo spazio per la fede e per la morale: affinché la ragione pratica possa postularne l'esistenza, sulla base delle esigenze della vita morale.

Puntare al Kant della ragion pratica significa così soffermarsi sull'esperienza interiore della moralità: quella severa voce del dovere che da sempre atterrisce gli studenti, ignari della ricompensa dell’immensa libertà di cui ci fa dono.

Un’ esperienza figlia della Legge Morale, che pare esigere quel qualcosa che la ragion pura sembra precludere: e cioè la libertà, di cui l'esistenza della Legge Morale in sé è invero la prova !

La moralità presuppone infatti la libertà come sua condizione di possibilità: in quanto agiamo moralmente solo se siamo liberi di scegliere al di là della necessità naturale.

Siamo liberi di seguirla o meno, indipendentemente dalle nostre inclinazioni o dalle leggi di natura, a fare scaturire di qui i Postulati della Ragion Pratica: “verità” che non possiamo conoscere teoreticamente, ma sono condizioni necessarie affinché la vita morale abbia senso e sia possibile ambire se non alla felicità, falsa chimera di ogni filosofo, all’esserne degni.

Per meglio connettere i suoi due atlanti, Critica della Ragion Pura e poi Pratica, nel “grande abisso"[6],  Kant pone poi la Critica del Giudizio quale mediatrice[7]: cercando di gettare un ponte non nell’offrire nuova conoscenza né nuovi postulati, ma esplorando nel Giudizio quella facoltà che opera diversamente, e che in particolare nella sua forma riflettente-[8]- trova un principio che suggerisce un accordo tra natura e libertà: la finalità [9]

Nella forma della scoperta del sentimento disinteressato che nasce dall’accordo spontaneo e dall’ armonia tra la nostra immaginazione e il nostro intelletto che è Giudizio Estetico: dove giudichiamo bello un oggetto naturale e proviamo un piacere come se la natura fosse stata fatta apposta per piacerci, per accordarsi alle nostre facoltà conoscitive, pur senza un concetto o uno scopo definito

Una esperienza che diviene cruciale nel suggerire una compatibilità tra il mondo fenomenico e le nostre esigenze “soprasensibili”: quali la libertà e la aspirazione ad un senso che ordini il reale, da raccordarsi attraverso il sentimento che fornisce un fondamento non per la conoscenza, ma per la speranza razionale che il regno della necessità naturale e quello della libertà morale possano coesistere armoniosamente… magari sotto l'egida di un principio soprasensibile che seppur non conoscibile teoreticamente è pensato come possibile e necessario dalla Ragione Pratica!

un inno alla libertà che non sia l'assenza ma la scelta consapevole dei vincoli che diamo a noi stessi (Immanuel Kant)

Ecco disvelarsi la piena utilità di avere a bordo Kant, nell’ invito a navigare nel digitale con rinnovata coscienza: in un inno alla libertà che non sia l'assenza ma la scelta consapevole dei vincoli che diamo a noi stessi, recuperando lo spazio per la nostra auto-nomia.

Basata sulla nostra ragione nell’atto di calibrare la bussola interiore anziché farsi trascinare dalle correnti digitale o dalla generatività di AI che per quanto mirabolante resta troppo ancora opaca proprio nella responsabilità e nella accountability di sistemi.

Cercando il fondamento di un'etica digitale che non sia imposta dall'alto, ma scaturisca ad esempio nel chiedersi semplicemente se il nostro comportamento, nell’era della globalizzazione facile e frettolosa, sia universalizzabile: se consenta il porsi “comunitariamente” come soggetti attivi che plasmano la propria esperienza e contribuiscono a definire le norme dello spazio condiviso, rispettando il comandamento kantiano di guardare all’umano sempre come fine, e mai come solo mezzo

Questa la contemporaneità e l’urgenza del suo spirito, nella profondità del suo scavo nell'animo umano: nell’offrirci uno strumento affilato per orientarci e “tentare ancora quegli ideali”- -umanità, universalità, pace perpetua -che Kant è capace di formulare.

Ideali investiti di un valore intrinseco, fini che la ragione ci propone di perseguire e che possono diventano nel caos digitale la nostra àncora e la nostra stella polare.

Paradossalmente allora è una filosofia “svincolata” dalle contingenze tecnologiche ad offrirci una grammatica fondamentale per affrontare le nuove sfide che toccano la stessa essenza dell'essere umano, e porgerci il criterio per discernere la vera libertà dalla sua caricatura digitale

Nel vibrare che deve risuonare in ogni swipe, in ogni post, in ogni prompt che immettiamo nel vasto oceano digitale.

Le ragioni di Kant sono allora ancora le nostre, oggi più che mai necessarie per non farci travolgere dalle onde e per mantenere salda la barra del timone verso il regno della libertà: un regno che chiama ciascuno alla propria nostra auto-nomia morale

Nel darci una grammatica della libertà, nella capacità di leggere criticamente il testo della realtà digitale e di scriverne la nostra parte in modo autonomo, la Ragione Pratica non è più vecchio atlante impolverato dello studente che fui, ma una bussola che funziona indipendentemente dalla configurazione mutevole dei continenti digitali.

A ricordare che, immersi in un flusso inarrestabile di dati e interazioni che l’Ai pare meglio governare tanto da affidarle maldestramente il nostro pensare, scambiamo il solo computo con quel tumultuoso marasma di cum-prendere e cogitare che sempre la esonda e proprio nel fine: cedendo spesso nella facoltà di discernere, di scegliere, di dare forma alle nostre azioni secondo principi che noi stessi sempre dobbiamo darci.

“Prima di valutare se una risposta è esatta si deve valutare se la domanda è corretta.” (Immanuel Kant)

Note

[1] Paola Rumore, Le ragioni di Kant, Solferino

[2] di cui le nuove rotte commerciali e l’epoca stalinista con il nome Kalingrad e l anonima urbanistica hanno poi spento i fasti. 

[3] Holbein, Gli Ambasciatori, National Gallery Londra

[4] - cosa di per sé già sufficiente a farne tesoro, stante oggi i confine venga maledettamente vissuto solo nella accezione negativa di limite e barriera da superare per congiungere frictionless-

[5] che, come l’etimologia, ricorda è proprio quanto stia dinnanzi e quindi fuori dal tempio, fuori dal recinto 

[6] come lo chiama Kant

[7] tra il mondo della natura- governato da leggi necessarie e sfera prima, e il mondo della libertà figlio della Legge Morale e dei postulati della seconda

[8] quella che non sussume un particolare sotto una legge universale già data, ma cerca una legge per un particolare dato

[9] che oggi suonerebbe quale purposiveness.

 

Pubblicato il 12 maggio 2025

Stefano Magni

Stefano Magni / Innovation Manager/ Digital Philosopher & Humanities lover/ Marketing & Communication director/Business and Brand enabler

stefano.magni74@gmail.com