Il pudore ha geografie tutte sue. Cambia da paese a paese, da pianerottolo a pianerottolo. Nel suo racconto c’è qualcosa di tenero e grottesco insieme.
Mi dice un amico che dalle sue parti — un paese che non nominerò per rispetto della privacy e del folklore — la biancheria intima femminile, specie se di pizzo, non viene esposta ad asciugare in bella vista. Non finisce sullo stendino accanto ai jeans, non sventola fiera accanto ai calzini da tennis dei bambini. Non rimane tristemente appesa al filo di un balcone.
Viene nascosta, mimetizzata, come una reliquia imbarazzante. Un segreto da tenere tra le pieghe delle lenzuola matrimoniali.
Perché — dicono — non si sa mai chi passa sotto i balconi.
Senza sapere questa cosa, mi sono sempre fermato ad osservare la finta edera — quel tentativo disperato di decorare l’intimità, di filtrare gli sguardi senza rinunciare alla parvenza. O alle cosiddette “gelosie”: nome perfetto per dire quanto lo sguardo dell’altro sia sempre un po’ invasione, un po’ desiderio, un po’ minaccia.
Ma qui c’è di più.
La leggenda metropolitana vuole che orde di uomini perennemente arrapati presidino i palazzi abitati dalle belle signore con lo sguardo rivolto verso l’alto, pronti a cogliere un bordo di pizzo come si coglie un presagio erotico. Come se la mutanda ben stesa ad asciugare potesse suscitare in chi guarda qualcosa di inarrestabile: desiderio, turbamento, decadenza morale. Invito a osare. Un’orgia di pensieri peccaminosi a partire da uno slip taglia 42. Di pizzo, Nero.
Curioso, specie in quest’epoca in cui si espone tutto — opinioni, corpi, drammi personali — senza filtro. Ma i pizzi, no. Quelli restano tabù, roba da tenere tra le mura di casa, tra il bagno e il cassetto della lingerie.
Immagino donne infilarsi tessuti in acrilico ancora umidi pur di evitare l’asciugatura all’aria aperta.
Immagino le stesse donne stendere fila di mutande col pizzo durante la notte, muoversi nel buio come fate silenziose, e risvegliarsi quando ancora l’alba tarda ad arrivare, per difendere l’oggetto del peccato dallo sguardo altrui.
Immagino uomini coi baffi tornare dal lavoro e gettare l’occhio del controllo sullo stenditoio come primo e unico atto casalingo.
Perché la biancheria intima, quella vera, non è pensata per essere vista. È pensata per essere scelta. E ammirata da pochi. È pensata per dare messaggi che non possono essere fraintesi.
E immagino queste mutande stese tra lenzuola bianche e canottiere, nascoste come missive proibite. Perché lì, in quel merletto umido di bucato, qualcuno vede un pericolo: l’invito al peccato, l’innesco del desiderio, l’apertura alla disponibilità. Come se il desiderio abitasse gli stenditoi, acrobata invisibile che si infila ovunque, a sfidare il senso del pudore e le sue regole sociali.
Ma la cosa più affascinante è che in quel gesto — impedire la visione dell’intimo all’occhio pubblico — c’è qualcosa che va oltre il semplice pudore. È una forma di educazione sentimentale del bucato. Un codice culturale non scritto, tramandato di madre in figlia, tra mollette colorate e acqua profumata d’ammorbidente.
l'intimità fatta tessuto, il desiderio cucito in serie per essere riservato a pochi...
La cultura del ‘non si sa mai’ come monito imperante e forma di discreta pudicizia. È l’intimità fatta tessuto. Il desiderio cucito in serie per essere riservato a pochi.
Una mutanda di pizzo come detonatore sociale.
Nell’epoca della messa in piazza, la privacy si difende così, con un silenzioso non detto, con la coreografia discreta di una mano che, piegando lo slip asciugato tra l’umidità delle mura domestiche, rifiuta lo sguardo pubblico come si rifiuterebbe un selfie davanti a una spiaggia di sabbia bianca.
È una forma di resistenza minuscola, ma testarda.
Un micro-gesto domestico che sussurra: “Non tutto si mostra.”
L’intimo è intimo. Punto.
Quasi fosse un’estensione dell’anima.
Che, guarda caso, è femmina.
Perché nessuno si preoccupa dell’intimo maschile.
Nel mentre scrolliamo storie in cui tutto è ostentazione, tra seni rifatti e drammi lacrimogeni, tra sguardi ammiccanti, muscoli allenati e minigonne generose, arrossiamo davanti a un triangolino di pizzo nero steso all’aria.
Il pudore come oggetto vintage che striscia tra gli stendini, si appende con due mollette blu e resta lì, come un manifesto non firmato della nostra identità. Ci ricorda che non tutto ciò che può essere mostrato deve necessariamente esserlo. Che c’è bellezza anche nel mistero, nell’intimità che sceglie il buio per asciugarsi.
È proprio questa mutanda di pizzo, negata allo sguardo, che ci racconta, in fondo, chi siamo.
Un Paese che di contraddizioni vive, e si nutre, e prospera.