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Di parole in forma di carezze tutti hanno oggi un grande bisogno, forse ne hanno anche un insopprimibile desiderio. Un bisogno diventato urgenza a causa di un contesto comunicazionale e relazionale, mediato tecnologicamente e dentro l’infosfera, nel quale a prevalere è la brutalità del linguaggio, spesso declinato in parole violente, velenose, nella forma di schiaffi, calci e pugni in faccia, ma anche la sua auto-referenzialità, il cinismo, la comunicazione tautologica e centrata sul sé che lo caratterizzano. Il bisogno insoddisfatto che genera solitudini, ansie, disturbi psichici e depressioni, alimenta solipsismi e crea “eremiti di massa che comunicano le vedute del mondo quale appare dal loro eremo, separati l’uno dall’altro, chiusi nel loro guscio come i monaci di un tempo sui picchi delle alture.” - 𝗨𝗻 𝘃𝗶𝗮𝗴𝗴𝗶𝗼 𝗶𝗻 𝗽𝗶ù 𝗽𝘂𝗻𝘁𝗮𝘁𝗲 𝗰𝗼𝗻 𝘁𝗲𝘀𝘁𝗶 𝘁𝗿𝗮𝘁𝘁𝗶 𝗱𝗮𝗹 𝗺𝗶𝗼 𝗹𝗶𝗯𝗿𝗼 𝗢𝗟𝗧𝗥𝗘𝗣𝗔𝗦𝗦𝗔𝗥𝗘 - 𝗜𝗻𝘁𝗿𝗲𝗰𝗰𝗶 𝗱𝗶 𝗽𝗮𝗿𝗼𝗹𝗲 𝘁𝗿𝗮 𝗲𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗲 𝘁𝗲𝗰𝗻𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗮.


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“Ci sono parole importanti, di uso quotidiano, il cui significato nel tempo si è dilatato fino a diventare incerto, fino a renderle vaghe e prive di contorno, così che oggi, come i liquidi prendono la forma dei recipienti che li contengono, possono essere adatte a contesti diversi senza però significare più nulla di sicuro.”  – Massimo Angelini, Ecologia della parola 

Sì, pensare non basta. Le parole non pronunciate diventano briciole, ci saziano per un istante ma si dimenticano altrettanto in fretta. Solo quando escono dalla bocca rivelano il loro valore… Però possiamo scriverle. Sì, ma allora occorre qualcuno che sappia leggerle […]”Cucinare un orso, Mikael Niemi 

Lasciaci oltrepassare la gioia e il dolore - Lasciaci oltrepassare l’astio e l’affetto - Lasciaci oltrepassare le parole dure e quelle vane, le parole vuote dell’amoreLasciaci oltrepassare.” -- Abbas Kiarostami 

“Non voglio parole che mi spieghino e nemmeno che sgroviglino né chiariscano. Non voglio parole che mi riempiano e nemmeno che mi facciano sentire sciocca e con poca scuola alle spalle. Non voglio parole che complichino senza un cuore al centro. Non voglio parole che si diano arie. Ho bisogno di parole leggere eppure capaci di sfamare e dissetare, parole che mi domandino tanto, tutta la testa da mozzare e un cuore ingenuo da allenare al passo delle bestie nella foresta, vigile e sempre a casa, eppure sempre in pericolo. Voglio parole disobbedienti ma anche candide. Parole capriole e parole solletico, parole lampi, fulmini e tuoni, parole aghi che cuciono e parole che strappano la stoffa del discorso.” Chandra Livia Candiani - Salutare le parole   - articolo della rivista Doppiozero


Parole in forma di carezze

Chi è capace di entrare in connessione empatica con gli altri, è abituato all’ascolto, e a guardare negli occhi il suo interlocutore o la sua interlocutrice, sa che con le parole è possibile ferire un corpo così come accarezzarlo dal di dentro, armonizzando mente e cuore, emozioni e pensieri.

In corpi disponibili alle carezze, la carezza della parola[1] dà tepore (Ti tengo, tu tienimi[2]), è un soffio che fa vibrare la pelle, un sospiro a fior di labbra, sospende il tempo, è compassionevole e terapeutica (il remedia doloris di Seneca), può salvare la vita risvegliandola e trasformandola, serve da conforto e consolazione (“Ci sei. Io ti sento.”, “Vuoi parlare con me?[3]”), è un pungolo benefico per chiunque la riceva, è un sollievo alla solitudine, nasce dalla pausa e dalla lentezza, dal saper prendersi tempo, dal silenzio e dall’ascolto (il parlare segue l’ascoltare, così come la parola segue il pensiero), dalla comprensione, dalla capacità di selezionare con cura le parole, di scegliere quelle giuste e per analogia le migliori.

la carezza della parola dà tepore è un soffio che fa vibrare la pelle, un sospiro a fior di labbra

Carezze sono le parole rivolte da una madre all’embrione che sta crescendo nel suo ventre e al quale si rivolge con voce gentile, affettuosa, tenera e calorosa. Carezze sono le parole che animano la conversazione di due coniugi anziani che, con la televisione spenta, si scambiano memorie ancora vive del loro lungo sodalizio di coppia unitamente al ricordarsi l’un l’altro gli orari ormai scanditi dalle vitamine da prendere.  Carezze relazionali sono le parole che compongono favole, filastrocche, racconti e narrazioni per l’infanzia, quando vengono lette ad alta voce da genitori attenti allo sviluppo cognitivo e linguistico (fonologico, semantico, sintattico, morfologico e pragmatico[4]) ma anche biologico dei loro figli. Carezze benefiche, pietose e salutari sono state le parole usate da molti operatori sanitari impegnati per molti mesi nel curare e assistere i malati di Covid-19 rinchiusi nelle terapie intensive degli ospedali in completa e disperata solitudine. Carezze sono anche le prime parole di conforto che ricevono i migranti che attraversano il mare alla ricerca di un riparo e di una vita migliore e sperimentano quanto “[…] sa di sale lo pane altrui e com’è duro calle lo scendere e il salir per l’altrui scale[5]”. Carezze regalate da semplici volontari, persone generose, ammirevoli e da ammirare, dedite all’accoglienza, alla cura e all’assistenza dei migranti e dei richiedenti asilo.

nell'era dell'incertezza, dell'insicurezza, dell'ansia, dell'individualismo sfrenato e del narcisismo, tutti sentono il bisogno di carezze

Di parole in forma di carezze tutti hanno oggi un grande bisogno, forse ne hanno anche un insopprimibile desiderio. Un bisogno diventato urgenza a causa di un contesto comunicazionale e relazionale, mediato tecnologicamente e dentro l’infosfera[6], nel quale a prevalere è la brutalità del linguaggio, spesso declinato in parole violente, velenose, nella forma di schiaffi, calci e pugni in faccia, ma anche la sua auto-referenzialità, il cinismo, la comunicazione tautologica e centrata sul sé che lo caratterizzano. Il bisogno insoddisfatto che genera solitudini, ansie, disturbi psichici e depressioni, alimenta solipsismi e crea “eremiti di massa che comunicano le vedute del mondo quale appare dal loro eremo, separati l’uno dall’altro, chiusi nel loro guscio come i monaci di un tempo sui picchi delle alture.[7] Ma rispetto a loro senza un’anima! Dentro un mondo in crisi che l’anima la reclama, anche nell’accezione di coscienza, mente, psiche, entità tutte legate a un corpo attivo, in grado di elaborare i materiali che riceve e gli impulsi dal mondo esterno, in stretto rapporto con il mondo, sul quale veicola le sue intenzioni ricevendone sensazioni che rielabora in azioni.

L’impossibilità a soddisfare questo bisogno di carezze in forma di parole nasce anche “[…] dall’inquinamento che riguarda il respirare psichico dell’organismo individuale e collettivo[8], un inquinamento generato dalla manomissione semantica delle parole, dal sistema mediale, dal surplus informativo, dalla proliferazione di messaggi pubblicitari e promozionali, dalla competizione economica e per il lavoro, dalla digitalizzazione e automatizzazione di ogni cosa, compreso il corpo umano.

La realtà si è provata dei corpi, digitalizzati su schermi che si riempiono così immagini perfette di organismi artificiali efficienti e attraenti ma che rimangono semplici cose

Nella nostra società dello spettacolo ne è una esemplificazione la sparizione del corpo dell’attore, sostituito da organismi robotizzati, simulacri digitali o effetti speciali da Computer Graphic, Motion Capture[9] e Performance Capture[10], che generano entità ibride e artificiali. Senza organi ma con espressioni facciali, movimenti e sguardi tipicamente umani, entità programmate, binarie e digitali che possono essere scomposte e ricomposte da tecnici e registi, senza alcun bisogno della presenza materiale dell’attore o dell’attrice, fino a creare entità Altre, antiumane. La scena e lo schermo si riempiono così di immagini perfette di organismi artificiali efficienti e attraenti ma che rimangono semplici cose, osservabili come si osserva ogni altra cosa. Il corpo dell’attore ridotto a cosa perde la sua capacità di rivelarsi nel suo essere, nella sua capacità di rappresentarsi e esprimersi, anche da un punto di vista emotivo. Sostituito da entità artificiali, l’attore perde la capacità di condividere con chi lo sta ascoltando i movimenti e i suoni del proprio corpo, di rendere gli spettatori partecipi e consapevoli del suo ruolo creativo e attivo nell’evento spettacolare a cui essi stanno assistendo. In un avatar digitale al contrario le emozioni sembrano semplici eventi fisiologici, non vissuti, non partecipati anche se all’interno di realtà virtuali aumentate e immersive come quelle dei molti videogiochi che hanno spianato la strada ai nuovi metaversi in formazione.

Il corpo è stato al centro di una iniziativa che a Milano (ottobre 2021), dopo la lunga esperienza di vivere la distanza in assenza di corpo a causa della lunga pandemia, ha riaperto le attività culturali mettendo a calendario una mostra dal titolo Corpus Domini – Dal corpo gioioso alle rovine dell’anima. La mostra ha illustrato una rappresentazione dell’essere umano attraverso l’esibizione del corpo e la sua sparizione conducendo il visitatore in un viaggio attraverso il rapporto tra arte e corporeità. La sparizione raccontata è quella del corpo vero, il corpo glorioso fatto di consapevolezza e alterità, sostituito dal corpo dello spettacolo, oggi anche tecnologico e digitale. La distanza tra reale e immaginario si è ridotta rendendo il corpo sempre meno riconoscibile, anche perché sempre più assorbito dentro uno schermo. Uno schermo che “annulla la distanza tra lo spettatore e la scena, lo invita a immergersi dentro, gli offre una realtà a portata di mano, ma su cui la mano non ha alcuna presa.” La mostra suggerisce di interrogarsi su che fine abbia fatto il corpo, raccontando attraverso numerose opere di artisti internazionali come Boltanski, Carol Rama, Gina Pane, Andres Serrano, Chen Zen e molti altri, la crisi dell’esperienza sensoriale che stiamo vivendo.

La distanza tra reale e immaginario si è ridotta rendendo il corpo sempre meno riconoscibile, anche perché sempre più assorbito dentro uno schermo

La crisi è dovuta a mode culturali che premiano i corpi perfetti, levigati, modificati, ripensati ma essenzialmente finti e smaterializzati in forma di bit. È il risultato della sparizione del confine tra reale e immaginario, determinata dall’assorbimento della realtà dentro lo schermo di un dispositivo tecnologico e all’interno di format televisivi, serie e reality show che li abitano con le loro immagini, sceneggiature e narrazioni. La mostra ha indagato la scomparsa del corpo fisico, al tempo stesso va alla ricerca del corpo dello spettatore o visitatore, un corpo pieno di significati, capace di guardare attraverso il volto e gli occhi di cui è dotato, gli stessi con cui si è forse in passato innamorato, che si sono fatti incantare e guidare verso nuove emozioni e conoscenze.

La virtualizzazione del corpo-macchina che ne determina la volatilizzazione in forma di profili digitali fatti di bit, non cancella il bisogno di carezze, anche sotto forma verbale di parole. La comunicazione diventata digitale avviene in assenza dell’umano incarnato, è tutta centrata sull’Io e sulle sue esibizioni, molto meno sul Noi da cui quell’Io è sempre costituito. Annulla la (com)presenza e la condivisione relazionale, è priva di volti, povera di voce e di sguardi, depauperata di carezze e baci. Le connessioni in rete non li contemplano, se non in forma di emoticon e emoji. Sono mediati tecnologicamente, passano attraverso interfacce, applicazioni, schermi e esperienze virtuali. La ricchezza dei mezzi disponibili, la numerosità dei canali utilizzabili sembrano garantire la circolazione delle idee e dei sentimenti, in realtà impediscono un vero approfondimento, servono da semplici strumenti, spesso megafoni, per la divulgazione e l’autopromozione. Pur creando innumerevoli nuove opportunità e fantasie, rese possibili dal mezzo tecnologico, questo tipo di comunicazione non elimina soltanto l’empatia, riduce la creatività, la sensibilità e l’espressività, l’improvvisazione e l’immaginazione. Eppure, oggi, il mezzo tecnologico diviene paradossalmente lo specchio in cui l’uomo si riflette alla deriva di una società che vuole divorarlo, specchio in cui le rughe del suo volto possono riscoprirsi essere sede di meraviglia pensante e creatività attiva.

il mezzo tecnologico diviene paradossalmente lo specchio in cui l’uomo si riflette alla deriva di una società che vuole divorarlo

Note

[1] Parola deriva dal termine latino paraula, dalla fusione del dittongo au in ‘o’. Paraula a sua volta è un’evoluzione di parabola, dal greco para+ballo. Para è un prefisso che indica vicinanza, ciò che sta accanto, mentre il verbo ballein significa gettare, porre.

[2] Chandra Livia Candiani

[3] Anna Maria Palma e Lorenzo Canuti, Vuoi parlare con me? Dialogare nell’esistenza, Edizioni Tassinari

[4] Kornei Chukovsky ha coniato il concetto di genialità linguistica per raccontare il passaggio dalla lingua parlata alla lingua scritta, uno sviluppo della comprensione delle parole e dei loro molteplici impieghi da parte del bambino, prima nel discorso e poi nella scrittura.

[5] Dante, Paradiso, canto XVII, versetto 58-60

[6] Il concetto di infosfera senza aggettivi a cui si fa riferimento è quello usato da Berardi Bifo che correttamente usa il concetto sia per descrivere l’epoca alfabetica (infosfera alfabetica) sia quella digitale (infosfera digitale)

[7] Umberto Galimberti “Se le nuove tecnologie rendono inutile comunicare”, pubblicato nel libro Il primato delle tecnologia -Guida per una nuova iperumanità

[8] Berardi Bifo: La sollevazione – Collasso europeo e prospettive del movimento, Edizioni Manni, 2011 Pag. 104

[9] Il motion capture (conosciuto con l'abbreviazione mocap, in italiano, "cattura del movimento"), è la registrazione del movimento del corpo umano (o di altri movimenti) per l'analisi immediata o differita grazie alla riproduzione. È principalmente utilizzato nel campo dell'intrattenimento, militare, sportivo o medico. (Wikipedia)

[10] La performance capture è una tecnologia cinematografica utilizzata per catturare movimenti ed espressioni facciali di un soggetto/attore reale per poi applicarli a un personaggio virtuale. La tecnica è stata usata in numerosi film ma per la prima volta da Robert Zemeckis nel film 'Polar Express'. Il film più famoso costruito sul perfezionamento della performance capture è stato sicuramente Avatar di James Cameron.


StultiferaBiblio

Pubblicato il 11 maggio 2025

Carlo Mazzucchelli

Carlo Mazzucchelli / ⛵⛵ Leggo, scrivo, viaggio, dialogo e mi ritengo fortunato nel poterlo fare – Co-fondatore di STULTIFERANAVIS

c.mazzucchelli@libero.it http://www.stultiferanavis.it