L'acquisto della cittadinanza può avvenire, infine, per concessione (L. 91/1992, art. 9): l'emanazione del provvedimento è soggetta a una valutazione discrezionale di opportunità da parte della pubblica amministrazione. Tale discrezionalità è parzialmente mitigata dall'obbligo del parere preventivo del Consiglio di Stato.
Lo straniero, ovvero il cittadino di origine fuori dall’Aerea politica esclusiva chiamata UE deve essere residente in Italia da almeno dieci anni. Il discorso cambia radicalmente se il cittadino proviene da un paese UE, in cui il tempo di permanenza si riduce del almeno 60%, quattro anni, (art. 9, co. 1, lett. f) e d)). Ai fini della concessione, va valutato il soggiorno regolare, mentre si esclude la rilevanza della sola residenza anagrafica (C. Stato, sez. IV, 07-05-1999, n. 799).
Ma spesso si dimentica che non è facile ottenere la residenza, in quanto tanti affittuari la negano, così si perdono anni prima che lo straniero faccia domanda.
La fase pre-referendum creo nei mesi un clima inquinato e surreale, in cui proposte virtualmente trasformative, come quelle sul lavoro, sono state rapidamente oscurate da una questione altamente simbolica e politicizzata: la cittadinanza. Il quinto quesito del referendum costituzionale del 2025 ha spostato l’attenzione sul tema dell’appartenenza nazionale, trasformando i diritti in strumenti di propaganda sia a sinistra che a destra.
L’attuale rigetto della proposta di ridurre da dieci a cinque gli anni necessari per chiedere la cittadinanza italiana è stato accolto da molti con contrarietà e delusione. Eppure, con una certa bizzarria nata dall’esperienza e dall’osservazione, mi trovo a pensare che forse è meglio sia andata così. Non per conformismo o cinismo, né per una difesa dello status quo o per rassegnazione ma perché, nella situazione attuale una cittadinanza “anticipata” rischiava di diventare non un diritto riconosciuto, ma un favore concesso. E i favori, si sa, generano debiti, non libertà. È paradossale pensare che, in un’epoca in cui si parla di inclusione e partecipazione, si continui a legare un diritto fondamentale a una forma implicita di sudditanza simbolica. Spesso si sente dire: ‘Chi sbaglia, al primo sgarro dovrebbe perdere la cittadinanza’, frase che solleva molte questioni, sia giuridiche che etiche, ma che riguarda solo i nuovi italiani non di sangue, soprattutto quelli extra-Ue.
Nel discorso politico coevo, la cittadinanza viene sempre più concepita come una ricompensa morale, anziché come un diritto derivante da contribuzione o partecipazione. Il cittadino straniero è chiamato a “meritarsi” la cittadinanza, dimostrando comportamenti esemplari, migliore di quello degli autoctoni, produttività economica, adesione culturale e una fedeltà ai cosiddetti valori italiani – valori che spesso si identificano con una forma di italianità etnica, non civica. L'art. 10 subordina l'efficacia del decreto di concessione della cittadinanza alla prestazione da parte dell'interessato (entro sei mesi dalla notifica del decreto medesimo) del giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato. Il provvedimento viene adottato sulla base di valutazioni ampiamente discrezionali circa l’avvenuta integrazione dello straniero, inclusa la valutazione delle sue fonti di sussistenza (Consiglio di Stato, sez. IV, 16-09-1999, n. 1474). L'amministrazione deve accertare la serietà dell’intento, il grado di integrazione linguistica, l’idoneità professionale, la regolarità nei contributi fiscali e la presenza di eventuali cause ostative legate alla sicurezza o all’ordine pubblico (Cons. Stato, sez. I, parere n. 1423 del 26/10/1988). Possono essere considerate anche sentenze penali, valutandone la natura e la recidiva (Cons. Stato, sez. I, parere n. 9374, 20/10/2004).
In questo quadro, ridurre i tempi da dieci a cinque anni avrebbe rafforzato una logica meritocratica e paternalistica, in cui lo Stato appare come un donatore generoso per la benevolenza del suo popolo e il cittadino naturalizzato come beneficiario grato. Un cittadino, dunque, “per grazia ricevuta” e non per diritto. Una cittadinanza fragile, condizionata, vincolata alla gratitudine e sempre esposta al sospetto. Chi ha mai sentito la frase verso un italiano di nascita “se non si comporta bene si dovrebbe togliere la cittadinanza”?
Accorciare l’iter burocratico non garantirebbe maggiore inclusione, soprattutto se tale semplificazione venisse vissuta come un atto magnanimo da parte dello Stato e del popolo. In quel caso, ogni cittadinanza diventa un credito politico e simbolico che può essere rinfacciato in ogni momento: “Ti abbiamo dato tutto”, o “Con tutti i problemi che abbiamo, pure la cittadinanza dobbiamo dare?”.
Non di rado volano accuse verso gli stranieri a cui viene recriminato di aver trovato lavoro solo grazie al PD. Ingiustamente si pensa che “all’italiano vero”, più preparato dello straniero a cui regalano la laurea, il diritto a lavorare sia negato e di conseguenza venga escluso. Come se dietro ogni contratto ci fosse un complotto partitico, e tu fossi l’agente segreto dell’occupazione facilitata. Il “Sì” alla riduzione dei tempi per ottenere la cittadinanza da parte di coloro che hanno queste opinioni si trasforma in un coltello a doppia lama.
La sociologa Ayelet Shachar ha descritto l’attuale sistema di cittadinanza come una forma di appartenenza stratificata, dove il cittadino naturalizzato occupa una posizione subordinata rispetto a quello nativo. Nonostante il riconoscimento formale, permane l’idea che si tratti di un privilegio discrezionale e potenzialmente revocabile, più simile a un atto di sovranità benevola che a un diritto pienamente democratico. In poche parole ogni diritto diventa “concesso” e, in quanto tale, può essere ritirato, criticato, rinfacciato.
È per questo che, con tutta l’amarezza che comporta, considero meno ipocrita l’attesa dei dieci anni. Perché tolta ogni retorica, resta la realtà di una cittadinanza difficile da ottenere, ma almeno non presentata come “dono”.
La cittadinanza non è un premio e nè un riconoscimento morale, ma una struttura giuridica e politica di appartenenza, che dovrebbe poggiare su criteri oggettivi, non su valutazioni morali. In tal senso i diritti dipendono dalla capacità del soggetto di dimostrarsi conforme, grato, silenzioso. L’opposto del cittadino critico e autonomo come dovrebbe essere in una democrazia matura. Un sistema nel quale l’accesso ai diritti dipende dalla capacità del soggetto di dimostrarsi conforme alle aspettative morali e culturali dello Stato ospitante. Una “cittadinanza parziale” riservata a temporanei o immigrati, condizionata e instabile, in contrapposizione alla cittadinanza piena e stabile dei membri autoctoni .
Non è possibile negoziare la cittadinanza, non è un favore. Dovrebbe essere un passo di civiltà. Ma non è così. Quando, ad esempio, spieghi che – in quanto extra-UE – non puoi accedere a certi lavori pubblici, molti rispondono: “È giusto così”, come se stessi cercando di rubare il pane a tavola. O addirittura si sente dire che il tizio laureato prima non ha ancora trovato, ma lo straniero “sì”, con aria sospetta. Poi, allegramente, vanno a votare “Sì” alla cittadinanza, per sentirsi buoni, progressisti, non razzisti.
Ma attenzione: se uno straniero ce la fa – trova lavoro, diventa famoso, si afferma – ecco che parte il coro greco: “Ci è riuscito solo perché è straniero! L’italiano, molto più bravo, è stato scartato. Colpa del PD, ovviamente.” Subito dopo: “Ma io non sono razzista, ho votato “Sì”! Ho tanti amici stranieri!”
Pochi hanno votato con convinzione autentica, senza paternalismi, riconoscendo che diventare italiani può essere un diritto legittimo, umano e possibile.
Alla fine, con o senza cittadinanza, restiamo sempre “gli stranieri”. O, come si preferisce dire con tono poetico e paternalista: “la diaspora”.
Da qui nasce la mia posizione, solo apparentemente provocatoria: meglio dieci anni che cinque, se quei cinque vengono presentati come regalo. Il problema non sta nei dieci anni, ma nel fatto che anche dopo dieci anni, chi ottiene la cittadinanza spesso non è ancora percepito come “vero” cittadino. Per questo, meglio dieci anni di attesa che cinque anni di falsa inclusione.
Meglio sapere che si è esclusi per ragioni amministrative che essere inclusi a condizione di non disturbare.
Meglio essere stranieri che cittadini condizionati, vincolati al debito della gratitudine e alla logica del “bravo immigrato”.
Meglio aspettare, ma con la certezza di non dover ringraziare nessuno.
Perché i diritti non sono una gentile concessione. E chi è davvero cittadino, non porta caramelle, ma pretende equità.
La cittadinanza non è un premio di fine carriera. Non è una pacca sulla spalla o un attestato di buona condotta. È il nome giuridico della dignità democratica. E se per ottenerla servono ancora dieci anni, che siano almeno anni senza inganni.
Bibliografia
- Bourdieu, P. (1986). The Forms of Capital. In J. Richardson (Ed.), Handbook of Theory and Research for the Sociology of Education. Greenwood.
- Shachar, A. (2009). The Birthright Lottery: Citizenship and Global Inequality. Harvard University Press.
- Stati Generali dell’Innovazione. (2016). Verso una cittadinanza attiva e critica. SGI Documents.
- Shachar, A. (2018). The Marketization of Citizenship in an Age of Restrictionism. Ethics & International Affairs, 32(1), 3–13. doi:10.1017/S0892679418000059
- Shachar, Ayelet, Gated Citizenship (August 3, 2022). Citizenship Studies 26 (2022), 625-637, Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=4180860 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.4180860
- Soysal, Y. N. (1994). Limits of Citizenship: Migrants and Postnational Membership in Europe. University of Chicago Press.
- https://temi.camera.it/leg19DIL/post/la-cittadinanza-quadro-normativo-vigente.html