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Martedì, ore incerte


Stamattina, svegliandomi, ho avuto la netta sensazione di non essere del tutto qui. O meglio: di essere qui solo in parte, come se la mia presenza fosse sospesa tra il materasso e il soffitto, tra il ricordo del sogno appena dissolto e l'urgenza del giorno che già premeva alla finestra.

Mi sono chiesto: dove finisce l'io quando cessa di pensarsi? Quando non lo osservo, quando non lo nomino, quando non lo convoco con quella ostinazione quasi puerile che ci fa dire "io penso", "io voglio", "io soffro" – dove va a nascondersi questa entità tanto ingombrante quanto evanescente?

Ho fatto colazione guardando le briciole cadere sul tavolo. Ogni briciola, un frammento. Ogni frammento, una traccia di relazione: il grano che fu seminato, la mano che impastò, il forno che trasformò. Il pane che mangio è la somma di gesti altrui, di elementi che si sono incontrati secondo leggi che mi precedono e mi trascendono. E io, dunque? Io sono forse meno composito del pane?

La verità – e questa mi colpisce con la forza quieta delle evidenze improvvise – è che noi siamo costituiti da ciò che ci attraversa. Siamo il punto di intersezione di infinite linee che vengono da lontano e proseguono oltre noi. Siamo punti di incontro temporanei in una rete di relazioni che esisteva prima di noi e continuerà dopo di noi

Pensavo questo mentre camminavo verso il centro. Le persone che incrociavo mi sono parse tutte necessarie, come se ciascuna portasse con sé un frammento della mia possibilità di esistere. Il panettiere che aveva sfornato il pane, il tipografo che aveva composto il giornale, l'operaio che aveva asfaltato la strada sotto i miei passi. Senza di loro, letteralmente, non sarei qui. Non in questo modo, non con questi pensieri, non su questo marciapiede.

Ho sentito allora quanto sia illusoria – e insieme quanto sia potente – l'idea di essere un individuo separato. Quell'io che mi porto dietro come un bagaglio ingombrante, quell'io che si lamenta, che rivendica, che chiede "perché proprio a me?", è in realtà una finzione necessaria, un espediente linguistico che ci permette di orientarci nel flusso dell'esperienza. Ma è solo questo: un punto di vista provvisorio, non una sostanza.

Mi sono seduto al caffè e ho ordinato un espresso. Mentre lo bevevo, ho pensato alla catena prodigiosa che aveva reso possibile quel momento: le piantagioni lontane, il lavoro di raccolta, il viaggio attraverso oceani, la tostatura, la macinatura, la macchina che lo aveva estratto. E dietro tutto questo, secoli di conoscenze accumulate, di scoperte condivise, di tecniche affinate. Nulla di ciò che vivo è semplicemente mio.

Eppure – e qui sta il paradosso – questa dissoluzione dell'io non comporta la scomparsa della responsabilità. Al contrario. Se tutto è interconnesso, se ogni mia azione si propaga come un'onda invisibile nel tessuto del reale, allora ogni parola, ogni gesto, ogni intenzione acquista un peso immenso. Non posso più nascondermi dietro la scusa dell'insignificanza. Sono responsabile non nonostante la mia piccolezza, ma proprio in virtù di essa: perché quella piccolezza è parte di un tutto che la comprende e la supera.

Tornando a casa, ho guardato le mie mani. Queste mani che scrivono sono state bambine, saranno vecchie, un giorno non saranno più. Ma le parole che tracciano rimarranno, intrecciandosi ad altre parole, generando pensieri in menti che non conosco, contribuendo a quel grande conversare che è la cultura umana.

Forse è questo che significa esistere: essere un transito, non una stazione. Essere il luogo dove il mondo si pensa per un momento, prima di proseguire altrove.


StultiferaBiblio

Pubblicato il 22 novembre 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / etiam capillus unus habet umbram suam