La pazienza è una virtù, la sopportazione no. Sembra una battuta, una di quelle frasi che si dicono per chiudere un discorso, e invece è proprio qui che il discorso comincia. Perché in questa distinzione apparentemente sottile c'è tutto il dramma dell'uomo che deve scegliere come stare al mondo, se da padrone di sé stesso o da servo delle circostanze.
Per capirlo davvero, bisogna tornare alla Sicilia. Non quella di oggi, ma quella del 73 avanti Cristo, quando Gaio Verre arrivò come pretore e si comportò come un predone. Per tre anni depredò templi, estorse denari, torturò cittadini romani, crocifisse uomini liberi. E la Sicilia sopportò. Sopportò con quella capacità di incassare i colpi che i siciliani hanno perfezionato nei secoli, ma che non è pazienza – è qualcos'altro, qualcosa di più oscuro e di più velenoso.
Cicerone, nelle Verrinae, non attaccò solo Verre. Attaccò quel sistema di sopportazione che aveva reso possibili i suoi crimini. Attaccò l'omertà, la corruzione, la paura mascherata da prudenza. E quando scrisse quella domanda che risuona ancora oggi – quousque tandem, fino a quando? – pose il discrimine fondamentale: fino a quando sceglierete di subire anziché di agire?
Perché quella non fu pazienza. La pazienza è ciò che gli stoici insegnavano: la capacità di distinguere tra quello che dipende da noi e quello che non dipende da noi. Epitteto, che era stato schiavo e conosceva bene cosa significhi sopportare, lo diceva con una chiarezza che dovrebbe essere insegnata nelle scuole: le nostre opinioni, i nostri impulsi, le nostre scelte – queste dipendono da noi. Il resto – il corpo, la ricchezza, la reputazione, il potere – non dipende da noi. La pazienza sta tutta qui: nell'esercitare il proprio potere dove davvero ce l'abbiamo, cioè nelle nostre reazioni, nei nostri giudizi, nelle nostre decisioni.
Marco Aurelio, che pure era imperatore e avrebbe potuto permettersi qualsiasi forma di rabbia, scriveva nei suoi Colloqui con sé stesso che la cosa migliore è togliere alla rabbia il suo nutrimento: il giudizio che qualcuno ci abbia fatto un torto. Non dice: fingi che non ti abbia fatto niente. Dice: guarda la cosa per quello che è, senza aggiungere la tua interpretazione velenosa. Tra il fatto e il giudizio sul fatto c'è lo spazio della nostra libertà.
I siciliani sotto Verre non esercitarono questa libertà. Subirono, impotenti o corrotti o spaventati, e questa sopportazione permise a Verre di continuare. La sopportazione è questo: un'abdicazione mascherata da virtù. È l'arte di sembrare accomodanti mentre dentro si accumula un arsenale di rancori. È fingere di accettare mentre si marcisce.
Seneca, che era un uomo pratico nonostante tutte le sue ricchezze, aveva capito bene la differenza. Diceva che la rabbia è una pazzia temporanea, ma sapeva anche che la sopportazione vigliacca è una pazzia permanente. Chi sopporta rinuncia alla propria prohairesis, a quella capacità di scelta che secondo Epitteto è l'unica cosa veramente nostra, l'unico spazio di libertà che nessuno può toglierci.
"La rabbia è una temporanea follia" - "Il miglior rimedio contro la rabbia è l'attesa" - "È più facile escludere i sentimenti dannosi che governarli, non accoglierli piuttosto che moderarli una volta accolti" - (Seneca "De Ira" - Sulla rabbia)
La pazienza vera l'ebbe Sthenio di Termini, che si ribellò a Verre, che corse a Roma, che rischiò tutto per denunciare. Quella fu virtus. Quella fu pazienza nel senso stoico: non reagire con violenza cieca, ma agire con determinazione razionale. Trasformare l'energia della rabbia in azione responsabile.
Come si impara questa virtù? Seneca praticava ogni sera l'esame di coscienza: cosa ho fatto oggi? Come ho reagito? Dove mi sono lasciato trascinare? È un esercizio quotidiano, un continuo ricominciare che tempra la volontà. Il secondo metodo è l'analisi razionale: guardare con freddezza i costi della rabbia e della sopportazione. Il terzo è quello che gli stoici chiamavano amor fati: non rassegnazione, ma accettazione attiva di ciò che è, per poterlo trasformare.
Essere consapevoli di dove stiamo andando è già mezza salvezza. Stiamo crescendo nella nostra libertà interiore o ci stiamo rattrappendo nella servitù volontaria? Il confine è netto. Sta a noi riconoscerlo. E chi sceglie di sopportare, rinuncia all'unica cosa che nessuno può togliergli: la dignità della scelta.