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L'intelligenza artificiale contemporanea ci pone di fronte a interrogativi fondamentali sulla natura della mente e della coscienza. Dagli anni Ottanta, programmi come BACON di Langley, sviluppato per simulare la scoperta scientifica attraverso l'analisi di dati numerici, e SME (Structure-Mapping Engine) di Gentner, progettato per modellare il ragionamento analogico umano, hanno tentato di riprodurre computazionalmente funzioni cognitive complesse. Tuttavia, questi sistemi operano su rappresentazioni già strutturate, eludendo il problema cruciale di come la mente costruisca significato a partire dall'esperienza grezza. Questo articolo esplora l'ipotesi che l'autentica agenzia cognitiva richieda una funzione sintetica capace di unificare percezione e concettualizzazione sotto un'identità soggettiva. Attraverso l'analisi critica dei modelli computazionali attuali e il confronto con dispositivi meramente reattivi, argomento che il problema della coscienza artificiale non può essere risolto solo mediante l'incremento della sofisticazione algoritmica, ma necessita di un ripensamento radicale della natura stessa della soggettività e dell'esperienza cosciente.


La questione centrale non è meramente tecnica, ma filosofica: cosa distingue un sistema che elabora informazioni da un agente che comprende? La sfida riguarda il passaggio dalla prestazione funzionale alla vera cognizione, dall'applicazione di regole alla capacità riflessiva di riconoscere le proprie rappresentazioni come significative.

Uno dei problemi centrali nella scienza cognitiva contemporanea riguarda il modo in cui siamo in grado di conferire senso alla mole di informazioni sensoriali che riceviamo costantemente dall'ambiente. Questo problema della rappresentazione non si riduce alla sola percezione, ma coinvolge processi più complessi di sintesi e interpretazione. Nella presente ricerca ho approfondito l'ipotesi che una struttura sintetica – la quale colleghi direttamente la ricezione sensoriale con la costruzione concettuale – sia necessaria per un'autentica agenzia cognitiva, e che alcuni modelli ispirati a questa logica possano orientare nuove applicazioni dell'intelligenza artificiale.

Ho identificato due dimensioni principali del problema: da un lato, la percezione "a basso livello", che include i dati sensoriali grezzi; dall'altro, quella "ad alto livello", nella quale intervengono categorie e concetti per produrre rappresentazioni complesse. Queste due dimensioni, spesso trattate separatamente, si intrecciano e si condizionano a vicenda. Ho formulato l'ipotesi che la distinzione tra sensibilità e intelletto, sebbene concettualmente utile, non corrisponda a due moduli effettivamente separabili nella mente o in una macchina cognitiva.

La letteratura specialistica sull'argomento critica duramente i modelli computazionali tradizionali, che presuppongono l'esistenza di rappresentazioni già strutturate. La storia dell'intelligenza artificiale ci offre esempi paradigmatici di questo approccio: si considerino i programmi BACON (Langley et al., 1987) e SME (Falkenhainer, Forbus, Gentner, 1989), i quali partono da dati già organizzati e producono output coerenti, senza tuttavia affrontare il problema della costruzione del senso. Un approccio teoricamente più promettente dovrebbe invece limitare l'input a segnali estremamente semplici, come sequenze alfabetiche, e analizzare come il sistema possa costruire rappresentazioni a partire da essi. In questa prospettiva, programmi come Copycat rappresentano tentativi significativi di integrazione tra percezione e astrazione.

Parallelamente, ho esaminato modelli computazionali che tentano di emulare la costruzione autonoma di regole e significati. L'idea di fondo è che l'agenzia cognitiva non dipenda dalla sostanza materiale dell'agente, bensì dalla funzione che questi realizza: ciò che rileva è l'organizzazione delle operazioni. In questo quadro teorico, un sistema può essere considerato cognitivo se è in grado di costruire rappresentazioni attraverso l'autoapplicazione di regole generate a partire da input sensoriali. I risultati ottenuti mostrano che è possibile generare output sofisticati, ma rimane aperta la questione cruciale se tali sistemi siano davvero capaci di interpretare, cioè di attribuire significato.

Il nodo concettuale decisivo risiede nella capacità di considerare i propri stati interni come rappresentazioni del mondo: non semplicemente reagire, ma riconoscere il proprio reagire come dotato di significato. Questo è ciò che distingue un agente cognitivo da un sistema meramente reattivo. A differenza dell'intenzionalità derivata – che possiamo attribuire a dispositivi come i termometri – un'autentica agenzia cognitiva richiede la capacità di considerare l'esperienza come propria. Ogni catena di interpretazioni, per essere epistemologicamente valida, deve far capo a un soggetto che interpreta.

In questo quadro concettuale, ho proposto che la condizione minima per la cognizione sia la possibilità di unificare le rappresentazioni sotto un'identità soggettiva. Non è sufficiente disporre di molte operazioni ben strutturate: occorre la capacità di ricondurle a un centro operativo unitario. Questa funzione non è riducibile a una somma di regole: implica una forma di riflessività. È ciò che consente di distinguere un agente sensoriale da un agente propriamente cognitivo.

Per chiarire questo aspetto cruciale, è utile considerare la distinzione tra modelli computazionali e dispositivi reattivi complessi, quali sistemi di controllo automatizzato a sensori multipli. Anche qualora tali dispositivi applichino regole articolate e condizionate, non per questo divengono agenti cognitivi. La loro attività non implica autocoscienza né la capacità di considerare le proprie operazioni come rappresentazioni significanti. Analogamente, una macchina che applica regole rimane, dal nostro punto di vista teorico, priva della dimensione soggettiva che caratterizza l'esperienza cosciente.

L'unificazione operata da un programma computazionale, benché coerente e articolata, non equivale alla sintesi dell'esperienza. Manca la possibilità che il sistema riconosca le proprie rappresentazioni come tali, cioè come proprie rappresentazioni. In altri termini, è assente quella funzione interna che rende possibile una forma minima di autocoscienza. Da una prospettiva filosofica, appare evidente che, pur conseguendo risultati funzionali elevati, un siffatto sistema non può essere considerato un agente cognitivo in senso pieno.

Questa analisi conduce a una conclusione metodologicamente prudente ma teoricamente netta: i modelli computazionali attuali, anche quando molto avanzati, non sono sufficienti a fondare un'autentica agenzia cognitiva. Il passaggio dalla prestazione alla coscienza non può essere spiegato esclusivamente attraverso regole, per quanto articolate e sofisticate. È necessaria una funzione ulteriore, intrinsecamente legata alla riflessività del soggetto.

Ciò non implica che l'impresa sia destinata al fallimento, ma che essa debba riconoscere i propri limiti epistemologici attuali. L'ipotesi di una macchina dotata di capacità riflessiva autentica rimane un orizzonte teorico da esplorare, ma richiede un ripensamento radicale dei paradigmi funzionalisti. La sfida non consiste semplicemente nell'emulare la mente, bensì nel comprendere cosa significhi davvero "possedere" una mente. In questa direzione euristica, modelli ibridi che integrino computazione, embodiment e pragmatica dell'azione possono fornire nuove piste di ricerca scientifica.

StultiferaBiblio

Pubblicato il 24 agosto 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto