All'inizio questo sembra allettante: la neutralità promette rispetto per il pluralismo e protezione dall'ideologia, concentrandosi però sulla competenza tecnica. Ma l'affermazione crolla sotto le sue stesse contraddizioni.
Pretendere un insegnamento privo di valori è una forma ipocrita di dittatura morale
Neutralità e moralizzazione non sono opposti ma compagni di bevute. Pretendere un insegnamento privo di valori è una forma ipocrita di dittatura morale—pretende di separare i "fatti" dai "valori" per legittimare la razionalità strumentale e il calcolo utilitaristico. Ogni curriculum è già intriso di scelte morali: ogni caso di studio privilegia certi interessi rispetto ad altri, ogni KPI codifica una visione del benessere umano, ogni teoria dell'azienda si basa su un'antropologia non detta. Quando le business school modellano attori razionali e interessati a sé stessi che massimizzano l'utilità nei mercati competitivi, non stanno descrivendo il mondo, stanno fabbricando distopie.
Rifiutarsi di affrontare le proprie scelte non elimina la moralizzazione. Istituzionalizza la cecità volontaria e sabota il pensiero critico.
E cosa produce nella pratica questo cosiddetto pragmatismo? Gli studenti diventano esperti nell'ottimizzare i nostri sistemi esistenti, senza mai mettere in discussione la loro legittimità. Essi padroneggiano strumenti sofisticati per l'allocazione delle risorse e la gestione del rischio, generando collettivamente disuguaglianze massicce, distruzione ecologica ed erosione democratica. Diventano funzionari efficienti, attuando ciecamente politiche che servono gli interessi del capitale, senza mai riconoscere la loro complicità. Questo è ciò che Marcuse chiamava l'uomo unidimensionale, tecnicamente sofisticato, politicamente docile, moralmente vuoto.
L'istruzione non deve mai essere ridotta alla trasmissione delle competenze. Le università non si limitano a riempire le persone di strumenti; plasmano la loro visione, i loro desideri e la loro immaginazione.
Le business school formano cittadini con rapporti specifici con autorità, comunità e responsabilità sociale. La moralizzazione nell'educazione non riguarda l'imposizione del dogma, ma la coltivazione della capacità di riconoscere, orientarci e posizionarci in un mondo già saturo di affermazioni morali concorrenti. Non richiede conformità, ma un impegno dialettico verso la verità, la cura e la giustizia attraverso un coinvolgimento onesto. Il dovere più profondo delle business school è coltivare la coscienza degli studenti, la capacità di critica strutturale e il senso dei valori.
I difensori della "neutralità" si definiscono protettori della libertà. In realtà, perpetuano l'ingiustizia. Rimuovere la moralità dal curriculum non è apolitico, è totalitarismo di nascosto. Indottrinare gli studenti in una visione del mondo che non hanno mai scelto è il peggior tipo di disonestà intellettuale. Il silenzio delle business school sulla moralità non è innocenza, è complicità.
English original text
The Immorality of “Not Moralising”: How Business Schools Fail Us
“Business schools shouldn't moralise. Their job is to teach management and economics, not to impose values. Moral questions belong to private conscience—or, at most, ethics electives, not the core curriculum.”
At first this sounds appealing: Neutrality promises respect for pluralism, and protection from ideology, while focusing on technical expertise. But the claim collapses under its own contradictions. Neutrality and moralisation are not opposites but drinking buddies. To demand value-free teaching is a hypocritical form of moral dictatorship—it pretends to separate “facts” from “values” in order to legitimate instrumental rationality and utilitarian calculus. Every curriculum is already steeped in moral choices: every case study privileges certain interests over others, every KPI encodes a vision of human flourishing, every theory of the firm rests on an unspoken anthropology. When business schools model rational, self-interested actors maximizing utility in competitive markets, they are not describing the world—they are fabricating dystopia. Refusing to face up to their choices doesn’t eliminate moralisation; it institutionalises wilfull blindness and sabotages critical thought.
And what does this so-called pragmatism produce in practice? Students become experts at optimising our existing systems, never questioning their legitimacy. They master sophisticated tools for resource allocation and risk management, while collectively generating massive inequality, ecological destruction, and democratic erosion. They become efficient functionaries, blindly implementing policies that serve the interest of capital, without ever recognizing their complicity. That is what Marcuse called the one-dimensional man—technically sophisticated, political docile, morally hollow.
Education must never be reduced to the transmission of skills. Universities do not simply fill people with tools; they shape their outlook, desires, and imagination. Business schools form citizens with specific relations to authority, community, and social responsibility. Moralisation in education is not about enforcing dogma, but about cultivating the capacity to recognise, navigate, and position ourselves within a world already saturated with competing moral claims. It requires not conformity, but a dialectical commitment to truth, care, and justice through honest engagement. The most profound duty of business schools is to nurture their students’ conscience, capacity for structural critique, and sense of values.
Defenders of “neutrality” style themselves as protectors of liberty. In reality, they perpetuate injustice. To strip morality from the curriculum is not apolitical—it is totalitarianism by stealth. To indoctrinate students into a worldview they never chose is the worst kind of intellectual dishonesty. The silence of business schools on morality is not innocence—it is complicity.