Alcune dinamiche sociali non esplodono mai in superficie, ma s’insinuano e agiscono in profondità in totale silenzio. Ad esempio succede quando scorri il feed di LinkedIn, lo spazio digitale nato per facilitare connessioni professionali. Proprio questo è l'attimo in cui sopraggiunge un sentimento difficile da definire con un’unica parola: una sorta di ronzio interiore, una vibrazione stonata che non è ancora ansia né fastidio, ma che avverti come una corrente fredda che penetra da una fessura dimenticata.
È il momento in cui compaiono i post dei nostri pari con la regolarità di un rito collettivo: ex compagni di università, colleghi sparsi per il globo, figure che un tempo condividevano con noi l’insicurezza della giovinezza e che ora sembrano avanzare con passo deciso ostentando nuovi titoli, master prestigiosi, certificazioni in campi che non sapevamo esistessero, riconoscimenti ottenuti “con umiltà” ma proclamati con una solennità quasi sacrale e corredati da una foto in cui l’espressione dice: “sto andando da qualche parte e lo sto facendo molto più velocemente di te”.
Ogni annuncio appare come l’ennesimo gradino di una scala che continua ad allungarsi mentre noi restiamo (o crediamo di restare) fermi, immobili, vincolati a un terreno che di colpo sembra più stretto e vuoto.
La pressione della vetrina
Pur nella patina di professionalità che lo distingue dai social più spensierati, ciò che accade su LinkedIn nella sua essenza psicologica non è diverso dalla logica che su Instagram e TikTok produce corpi irreprensibili, volti levigati e vite filtrate.
Là l’inadeguatezza riguarda il corpo; qui riguarda la mente, la carriera, la traiettoria esistenziale.
Se gli altri social esibiscono corpi idealizzati, LinkedIn esibisce curriculum inappuntabili, resi impeccabili dalla luce diffusa della retorica professionale.
E il meccanismo che li muove, quella coreografia dell’apparire che Guy Debord chiamava “società dello spettacolo”, è identico: l’identità non è più ciò che siamo, ma ciò che riusciamo a raccontare di essere.
Anche l’effetto psicologico è lo stesso: la sensazione che tu non basti, che tu debba sempre raggiungere un altro gradino, che tu sia irrimediabilmente in ritardo rispetto a una corsa che non hai mai scelto di iniziare.
Ogni “sono lieto di annunciare…” porta con sé una domanda muta:
“E tu? Perché non stai annunciando nulla?”
Ogni certificazione aggiunta riattiva un antico sospetto:
“Sto facendo abbastanza? Ho studiato abbastanza? Sono abbastanza?”
Ogni “nuovo ruolo” altrui mette in ombra il tuo ruolo attuale, quello che fino a pochi giorni fa consideravi forse non perfetto, ma dignitoso.
Così LinkedIn diventa un palcoscenico in cui il lessico dell’euforia, i vari thrilled, honored, excited, humbled, funziona come il trucco scenico di un attore che recita la parte del professionista sempre in ascesa, sempre in movimento, sempre “on the rise”.
Un lessico che non descrive la realtà ma la copre, la sostituisce, la rende più sopportabile e quasi luminosa.
A differenza di Instagram, però, la platea di LinkedIn è composta da persone che potrebbero assumerti, giudicarti o ignorarti.
E allora il palcoscenico diventa ufficio.
La messinscena diventa curriculum.
Il pubblico diventa rete professionale.
La comparazione come ferita
Si attiva allora quel movimento interiore che la psicologia sociale descrive come “comparazione sociale ascendente”: l’atto di misurarsi, quasi senza accorgersene, con chi sembra aver raggiunto un livello superiore di riconoscimento o di successo.
Il problema è che su LinkedIn la sofferenza è invisibile; le esitazioni non vengono pubblicate; i fallimenti non vengono certificati; dunque il confronto avviene sempre con figure che appaiono più solide, più competenti, più vincenti.
Il feed diventa quindi un atlante di vite ottimizzate dove nessuno inciampa, nessuno si ferma e nessuno dubita mai. Un mondo impossibile eppure tremendamente convincente.
Nasce così il senso di inadeguatezza: non dall’assenza di successi personali, ma dalla presenza onnipervasiva di successi altrui, montati come un coro greco che ripete incessantemente che dovremmo essere altro, di più, più veloci, più formati, più competenti, più internazionali.
Un tempo nuovo, una ferita antica
In fondo non c’è nulla di nuovo: già Kierkegaard, filosofo danese considerato il “padre” dell’esistenzialismo, denunciava che la comparazione fosse il veleno dell’esistenza, la radice dell’angoscia moderna.
Eppure LinkedIn ha istituzionalizzato questa ferita rendendola rituale: ogni scroll è un piccolo esame di coscienza e ogni annuncio altrui è un invito a chiedersi perché non stiamo avanzando con lo stesso ritmo.
La cosa più sconcertante è che LinkedIn non si presenta come un social frivolo: è proprio la sua serietà a renderlo più subdolo, e non abbiamo difese contro l’ansia sociale travestita da professionalità.
Non immaginiamo che un profilo curato possa ferire.
Non pensiamo che un post di congratulazioni possa destabilizzare la nostra identità.
Eppure accade: accade ogni giorno, silenziosamente, senza clamori.
Rallentare per non sparire
In fondo LinkedIn non è il male: è solo uno strumento, ma come ogni strumento riflette un modello di vita.
Se lo viviamo come competizione, ci schiaccia.
Se lo viviamo come vetrina, ci ingabbia.
Se lo viviamo come misura del nostro valore, ci umilia.
La liberazione, se così vogliamo chiamarla, non consiste nel fuggire ma nel cambiare postura. È necessario comprendere che esiste una differenza fondamentale tra il “restare indietro” e il “non correre nella stessa direzione degli altri”.
Che la lentezza non è un difetto, ma un modo di sottrarsi alla logica dell’accumulazione infinita.
Che la traiettoria di una vita non si misura in annunci, ma in profondità.
Che la crescita non è lineare, non è continua, non è collettiva e non esiste un’unica traiettoria valida per tutti.
Forse la vera resistenza oggi è proprio l’inoperosità consapevole: l’atto voluto di sottrarsi a ciò che ci consuma; di non partecipare a ogni gara; di non rispondere a ogni appello all’eccellenza.
Questa la verità nascosta che nessun post professionale dirà mai: l’inadeguatezza non è un difetto da correggere ma il luogo in cui si forma il pensiero critico.
Un luogo scomodo, ma fertile; inquieto, ma autentico.
Un luogo in cui, finalmente, possiamo permetterci di essere ciò che siamo e non ciò che dovremmo sembrare.