A volte ho l’impressione che, nel celebrare la chiusura dei manicomi, abbiamo aperto le porte a qualcosa di più insidioso. Abbiamo messo in archivio l’istituzione totale proprio nel momento in cui la sua logica tornava a circolare in forme più eleganti, più efficienti, più difficili da nominare. E forse è per questo che, quando rileggo Foucault e Basaglia oggi, non ritrovo tanto il passato della psichiatria quanto il nostro presente travestito da futuro.
È un paradosso che imbarazza: crediamo di aver superato le strutture di esclusione, mentre continuiamo a costruirne di nuove. Solo che ora non hanno più muri. In questa zona d’ombra che preferiremmo non vedere, torna a farsi vivo un incontro che non è mai avvenuto. Un incontro che, se fosse accaduto davvero, avrebbe forse reso più evidente ciò che oggi ci sfugge: che il potere non ha bisogno di un manicomio per funzionare e che la cura, se smette di essere relazione, rischia di somigliare pericolosamente al suo contrario.
È qui che si insinua la necessità di rileggere il dialogo mancato tra Michel Foucault e Franco Basaglia, non come operazione nostalgica, ma come tentativo di comprendere un presente in cui le istituzioni si dissolvono e allo stesso tempo si moltiplicano.
Da tempo mi interrogo su questa strana vicinanza. Nella memoria collettiva esiste l’idea che i due si siano incontrati, che abbiano discusso, persino collaborato. Nulla di tutto questo è documentato. Eppure la sensazione di prossimità rimane, come se un dialogo sotterraneo avesse attraversato le loro opere e trovato un punto di contatto nella crisi della modernità istituzionale. Negli anni in cui Basaglia inizia il lavoro di Gorizia, la psichiatria occidentale vacilla, mentre la filosofia rilegge la razionalità come un tessuto di esclusioni.
È in questa incrinatura che i due mondi iniziano a sfiorarsi. La ricezione di Foucault nelle équipe basagliane avvenne in modo discreto. Storia della follia circolava già negli anni Sessanta. Non rappresentava un fondamento teorico, ma un prisma attraverso cui osservare il manicomio senza la lente opaca della tradizione psichiatrica.
La genealogia foucaultiana mostrava che la follia, prima di diventare un oggetto medico, era stata un problema sociale, politico, amministrativo. Questo spostamento di prospettiva consentiva di vedere ciò che l’abitudine aveva invisibilizzato: l’istituzione non curava, ma produceva segregazione. La follia che Basaglia incontrava non era un fenomeno naturale, bensì il risultato di una lunga storia di separazioni.
Con Sorvegliare e punire, l’esperienza triestina trovò un ulteriore strumento di lettura. La disciplina emergeva come un processo quotidiano, una pedagogia dei corpi. Non era necessario isolare per controllare. Bastava modulare i comportamenti attraverso piccoli gesti, protocolli, routine. Il manicomio appariva allora come una declinazione di una stessa logica che investiva la scuola, il carcere, la fabbrica. La violenza istituzionale non era l’eccezione, ma la norma silenziosa di un’intera organizzazione sociale. Questo non significò mai che Foucault venisse assunto come modello.
Le differenze fra i due restarono inequivocabili. Foucault non cercava soluzioni pratiche. Il suo lavoro era rivolto alla genealogia, alla ricostruzione delle origini di un sapere. Per Basaglia, invece, la trasformazione richiedeva un’azione diretta. Le mura, i regolamenti, la vita quotidiana dei pazienti erano gli spazi concreti su cui intervenire. La genealogia foucaultiana, pur illuminante, poteva apparire distante rispetto all’urgenza di una riforma che non poteva attendere la decostruzione completa del discorso psichiatrico. Il modo in cui i due pensavano il potere segnò forse la distanza più netta.
Per Foucault il potere è una rete dispersa, una forza che si esercita attraverso relazioni microfisiche. Non si possiede, non si detiene, ma circola. Per Basaglia il potere aveva una consistenza materiale evidente. Si manifestava nelle chiavi dei reparti, nei regolamenti, nei ruoli istituzionali. Intervenire su di esso significava modificare strutture ben identificate. La visione foucaultiana, nel suo carattere diffuso, rischiava di rendere troppo nebuloso l’obiettivo della trasformazione.
Eppure, nella loro distanza, emerge un’identificazione comune: la normalità come costruzione e la follia come esito di un sistema sociale che pretende di essere neutro. Per entrambi la diagnosi non descrive una natura, ma stabilisce una verità su ciò che un individuo è autorizzato a essere. In questo riconoscimento sta il loro punto di contatto. Basaglia restituisce alla persona la possibilità di non essere ridotta alla diagnosi.
oggi a sorveglianza non si esprime attraverso muri e cancelli, ma attraverso dati e flussi di informazione.
Foucault mostra come tale riduzione sia stata costruita storicamente. Oggi questo dialogo ritorna, forse con maggiore urgenza di quanto potessimo immaginare. La chiusura dei manicomi non ha annientato la logica che li sosteneva. L’ha dispersa nel paesaggio dei servizi sociali, dei protocolli tecnici, delle piattaforme digitali, dei sistemi di valutazione del rischio. La normalità non viene più definita da un direttore sanitario, ma da un insieme di procedure automatiche, da modelli previsionali, da criteri computazionali. La sorveglianza non si esprime attraverso muri e cancelli, ma attraverso dati e flussi di informazione.
È qui che il contributo foucaultiano acquista nuova forza. Il potere più significativo è quello che non dichiara di esserlo, quello che si presenta come gestione del rischio, prevenzione, efficienza. Allo stesso tempo, l’eredità basagliana ci ricorda che la cura senza relazione non è cura. Se manca la comunità, se la fragilità non trova luoghi di accoglienza, la logica dell’esclusione torna a emergere sotto forma di solitudine, medicalizzazione diffusa, invisibilità sociale. Il rischio contemporaneo non è il ritorno del manicomio come luogo fisico, ma la sua rinascita come sistema. Un sistema privo di confini architettonici, distribuito nei dispositivi di assistenza, nei protocolli di sicurezza, nelle tecnologie di profilazione.
Se manca la comunità, se la fragilità non trova luoghi di accoglienza, la logica dell’esclusione torna a emergere sotto forma di solitudine
La violenza non si manifesta più con l’internamento, ma con la rarefazione dei legami e la delega della cura a procedure impersonali. Per questo l’incontro mancato fra Foucault e Basaglia continua a interrogarci. Ci obbliga a tenere insieme genealogia e prassi, analisi e trasformazione, critica e responsabilità. Da una parte la necessità di rendere visibile ciò che tende a occultarsi sotto la veste della tutela. Dall’altra l’urgenza di costruire spazi reali, fatti di persone e non di algoritmi, in cui la fragilità non venga tradotta in rischio ma in relazione.
Non esiste una formula conclusiva.
Esiste piuttosto una domanda che ritorna con forza rinnovata: come si definisce oggi la normalità e chi ha il potere di farlo? Alla sua soglia, l’ombra lunga dell’istituzione continua a muoversi. E noi continuiamo a interrogarla, forse per la prima volta consapevoli che la sua forma non è più quella che conoscevamo.