Go down

Milano sembra bella. Ma è un inganno gentile, come certi volti che affascinano non per armonia ma per carattere. È una città piena di difetti: rumorosa, impaziente, spesso arrogante. E non è nemmeno particolarmente simpatica. Eppure ha una qualità rara: non ti permette di addormentarti. Le altre città italiane, con la loro calma e i loro monumenti immobili, finiscono per sembrare musei di sé stesse. Milano no: anche quando ti sfianca, anche quando ti fa rimpiangere un posto dove si respira davvero, ti costringe a restare vivo.


Girando per le bancarelle di libri usati, mi sono imbattuto in un volume usurato dal tempo, e da chissà quanti lettori prima di me: Pensare Milano di Attilio Schemmari. Un libro dimenticato, ma sorprendentemente attuale. Schemari racconta la città come un palinsesto, costruito strato su strato: memoria, ferite, ricostruzioni. È la Milano che rinasce su se stessa dopo ogni crisi, che cresce riscrivendo la propria forma. L'autore mostra una città capace di accogliere il nuovo senza cancellare del tutto le proprie radici, un equilibrio fragile tra utopia e distopia, tra memoria e dimenticanza. Milano, scrive, è il luogo dove il "fare" prevale sul "ricordare": una forza che produce movimento, ma lascia dietro di sé una malinconia discreta.

Passeggiando tra le vetrine dei negozi, dove la città si riflette come in uno specchio, capisci che qui apparire non significa fingere, ma partecipare. A Milano tutto è pubblico: anche la discrezione è una forma di linguaggio. La città non ti chiede di mostrarti, ma di esserci — con misura. Basta osservare alcuni passanti: la caviglia scoperta sotto il pantalone, la scarpa indossata senza calzino. Non è trascuratezza, è un codice. Un gesto minimo che dice molto: chi lo fa sa che è scomodo, che la pelle sfrega, che a fine giornata si soffre un poco. Ma questo non si deve mostrare apertamente. Milano si veste come parla: con precisione apparentemente casuale, nascondendo il disagio dietro lo stile.

Simmel avrebbe sorriso davanti a questo teatro quotidiano. La vita metropolitana, diceva, costringe l'individuo a costruire segni per non scomparire nell'anonimato. Milano ha fatto di questa condizione una regola: ha trasformato la necessità di apparire in una forma di disciplina. Non è vanità, è metodo. Il milanese non ostenta: calibra. È l'unico italiano che può permettersi l'ironia di un'eleganza sobria e al contempo incomprensibile.

La città è nello stesso tempo spettacolo e fabbrica, salotto e cantiere. Debord avrebbe riconosciuto la sua logica di vetrina, Benjamin la sua modernità perenne: Milano si mette in mostra, per "fatturare". Non è mai del tutto sincera, ma non mente mai del tutto. Sotto la superficie brillante batte un cuore pratico e tenace. Quello del caffé e brioche consumato come nemmeno Bolt sarebbe capace: correndo i cento metri verso la prima fermata della metro.

E sotto quella superficie, molti soffrono. Pagano mille euro al mese per un monolocale dove a malapena ci sta un letto. Corrono da un aperitivo all'altro con il conto in rosso. Sorridono alle cene di lavoro mentre calcolano mentalmente quanto gli resta fino a fine mese. Ma nessuno lo ammette. Tutti vogliono sembrare felici di stare qui e non altrove, come se confessare la fatica fosse tradire un patto segreto con la città. Milano è anche questo: un luogo dove il disagio si porta con stile, dove la sofferenza si nasconde dietro la performance quotidiana dell'efficienza e del successo.

Milano è una scuola di equilibrio. Ti insegna che la grazia può nascere dalla fretta, che l'efficienza non esclude la poesia. È una città che ti allena a sembrare sereno anche quando sei stanco, a correre elegante anche quando non sai più verso dove. Forse è proprio questo il suo insegnamento più profondo: convivere con la pressione senza smettere di cercare bellezza. In ogni gesto quotidiano — un caffè preso al volo, un saluto distratto, una decisione improvvisa — c'è una forma di disciplina estetica. Milano trasforma la necessità in stile, la fatica in ritmo. È una città che insegna a resistere con eleganza, anche quando resistere costa caro.

Chi la conosce davvero sa che la sua bellezza non sta nelle mode, ma nella capacità di rigenerarsi senza perdere il senso del limite. La caviglia nuda, allora, non è solo una civetteria: è il simbolo perfetto di una città che accetta di soffrire pur di apparire disinvolta, che sa sopportare il disagio senza lamentarsi, che si mostra al mondo con una grazia trattenuta che nasconde vesciche e sacrifici.

Per chiudere con le parole di Guido Vergani, Milano è «non bella, ma un tipo».


StultiferaBiblio

Pubblicato il 02 novembre 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / etiam capillus unus habet umbram suam