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Ogni città parla con la propria paura. Lo fa in silenzio, nei dettagli che riempiono lo spazio urbano: sbarre alle finestre, cancelli chiusi, telecamere che scrutano, cartelli che ammoniscono. Questi segni, spesso invisibili per abitudine, non proteggono soltanto beni materiali. Difendono identità fragili, confini morali, la sensazione di appartenere a un ordine ancora comprensibile. Sono sintomi di un’epoca in cui la sicurezza è diventata linguaggio, e il linguaggio stesso una forma di sicurezza.



Nel tempo, queste strategie difensive hanno mutato forma. Non si limitano più all’architettura fisica: si estendono alla vita digitale. Dietro ogni profilo social o piattaforma di lavoro si nascondono nuovi muri invisibili — algoritmi di accesso, filtri, pseudonimi, controlli di privacy. Ogni gesto tecnico si traduce in un gesto psicologico: il bisogno di tracciare il confine tra ciò che mostriamo e ciò che temiamo di rivelare.

Difendiamo non solo lo spazio, ma l’immagine. Non solo la casa, ma il sé proiettato nella rete.

La soglia, un tempo luogo dell’incontro, è divenuta dispositivo di selezione. Nelle case, si manifesta con citofoni dotati di telecamera o con porte blindate che promettono tranquillità a caro prezzo. Nelle reti, la soglia è una schermata: chi può vedere, scrivere, entrare. Non più un “venire incontro”, ma un “filtrare”. La relazione non è più apertura, ma amministrazione dell’accesso.

Eppure, come notano alcuni sociologi italiani che hanno studiato la percezione della sicurezza urbana, questi “segnali di difesa” rivelano sempre qualcosa in più del loro scopo apparente. Come osservano le ricerche coordinate da Valeria Ferraris sul rapporto tra spazio urbano e insicurezza percepita, l’ambiente costruito riflette e amplifica le nostre paure collettive: un’ansia di controllo che si traduce in estetica della chiusura.

Lo stesso meccanismo si ritrova nella sfera digitale, dove la protezione si trasforma in isolamento. L’antropologia della soglia — quella linea che separa il dentro dal fuori — si è spostata dai muri di casa alle interfacce dello schermo. Eppure, l’effetto psicologico è lo stesso: la difesa come linguaggio, la paura come infrastruttura emotiva.

Le città ci mostrano questo doppio legame in modo eloquente. In una ricerca condotta da Marco De Nadai e colleghi, si è dimostrato come i quartieri “visivamente più sicuri” — quelli con facciate curate, verde pubblico, finestre che affacciano sulla strada — siano anche i più vitali. La bellezza e la vita sociale diventano così antidoti naturali all’insicurezza, confermando ciò che molti urbanisti italiani intuiscono da decenni: la paura non si sconfigge con più chiusure, ma con più presenze.

La dimensione filosofica di questa osservazione è chiara: la difesa non è solo un gesto pratico, ma un atto ontologico.

Riguarda il modo in cui concepiamo l’essere-con-gli-altri. Se la fiducia è l’apertura al possibile, la difesa eccessiva diventa negazione del mondo. È il segno di una civiltà che si percepisce minacciata non da un nemico esterno, ma dall’imprevedibilità stessa del contatto umano. Le società iperconnesse sono, in realtà, le più isolate. Non temono la violenza, ma la vulnerabilità. L’altro non è più un volto da incontrare, ma una variabile da controllare. Così, come osserva Loredana Sciolla nei suoi studi sui legami sociali, la fiducia — fondamento invisibile di ogni comunità — cede lentamente il passo alla diffidenza sistemica.

Difendersi è naturale, ma quando la difesa diventa il nostro unico linguaggio, smettiamo di comunicare. Ogni serratura, ogni password, ogni filtro ci protegge e, insieme, ci allontana. Ci illude di essere padroni di noi stessi, ma ci priva della possibilità di essere trasformati dall’incontro. L’intelligenza collettiva, come mostrano le analisi più recenti sulla resilienza urbana, cresce solo dove circola fiducia. Le mura, fisiche o digitali, servono solo a trattenere l’eco della nostra solitudine.

Eppure esiste un’altra via. Le società vitali non cancellano le difese: le trasformano in riti di fiducia. Una luce lasciata accesa, un commento gentile, una finestra aperta nonostante la paura. Segnali minimi, ma sufficienti a riattivare la circolazione del senso. Nel mondo digitale, aprire una soglia può voler dire concedersi la possibilità di rispondere senza sospetto, di condividere senza esibire, di ascoltare prima di replicare. Piccoli gesti che contrastano la logica della fortezza.

Riaprire la soglia, nella città come nel linguaggio, non è un atto ingenuo ma una scelta politica. Significa credere che la sicurezza non nasce dalla distanza, ma dalla reciprocità. Una civiltà non si misura dalla forza dei suoi cancelli, ma dalla capacità di mantenere aperto almeno un passaggio, un corridoio di umanità attraverso cui il mondo possa ancora entrare.

Forse il futuro — se avrà ancora un significato condiviso — non sarà costruito da chi sa difendersi meglio, ma da chi saprà ancora aprire la porta.


Webografia essenziale

  1. Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata. Dieci temi per saperne di più (a cura di Valeria Ferraris) https://www.academia.edu/6213331/Manuale_per_la_progettazione_di_politiche_e_interventi_sulla_sicurezza_integrata_Dieci_temi_per_saperne_di_pi%C3%B9
  2. Linee Guida per l'attuazione della sicurezza urbana (ANCI) -- https://www.anci.it/wp-content/uploads/2018/10/Contenuti/Allegati/Linee%20Guida%20sicurezza%20urbana%20atto%20CSC%2026%20luglio.pdf
  3. Linee generali delle politiche pubbliche per la promozione della sicurezza integrata -- https://www.fisu.it/wp-content/uploads/2017/05/LINEE-GENERALI-DELLE-POLITICHE-PUBBLICHE_def.pdf
  4. “Are Safer Looking Neighborhoods More Lively? A Multimodal Investigation into Urban Life”, 2016, Marco De Nadai et al. -- https://arxiv.org/abs/1608.00462

Pubblicato il 31 ottobre 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / etiam capillus unus habet umbram suam