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Il rischio, mi sembra, è quello di smettere – per noia, per inettitudine, per sopravvenuta incapacità - di essere entità narranti per diventare invece delle mere entità pubblicanti…  un ambito in cui tutto ciò che normalmente collochiamo nel concetto di “intelligenze artificiali” già ci batte a mani basse.


Recentemente, su una nota piattaforma per la condivisione di contenuti multimediali, a partire da una affermazione del “filosofo favorito da Internet”[1], il sud coreano Byun-Chul Han, contenuta nel suo ultimo volume[2], mi sono occupato del rapporto strategico tra narrazione, crisi della narrazione e Intelligence delle Fonti Aperte[3].

In quella sede mettevo in relazione da un lato la staticità di dati e informazioni (ereditata dalla fisicità e dalla persistenza del supporto mnestico che li ospita) con la dinamicità della narrazione e dall’altro la (paventata) crisi della narrazione con la – secondo me conseguente – crisi dell’intelligence.

Se la narrazione è - come credo - quel dispositivo sociale che attraverso il linguaggio permette il superamento dei confini individuali e disciplinari (è solo narrando cose e interpretando narrazioni che possiamo sperare di conoscere ciò che è altro da noi) allora è lapalissiano che sono proprio le narrazioni (aperte) ad essere l’oggetto di studi della mia disciplina, l’Intelligence delle Fonti Aperte. Le narrazioni e quei particolarissimi organismi informativi che sanno, possono e vogliono narrare e che in OSINT chiamiamo “fonti”.

Di qui – e al di fuori del contenuto che citavo all’inizio – è automaticamente sorto un interrogativo che mi sembra particolarmente interessante e credo adattissimo a essere portato alla attenzione dei navigatori della Navis[4] (intesa proprio come luogo del racconto): esistono più dati/informazioni o più narrazioni?

No, non mi sto impantanando in una involontaria marzullata[5] (si, pare strano ma il neologismo esiste davvero), sto invece provando a replicare a una obiezione che mi è stata fatta e che sulle prime mi ha lasciato interdetto. Il rilevo - che mi è stato narrato (appunto…) più come una sentenza - suonava più o meno così: “con l’esplosione dei social network esisteranno sicuramente sempre più narrazioni che dati/informazioni”.

Vale a dire - provo a interpretare e approfondire il concetto, espresso in modo forse eccessivamente intuitivo - che il fenomeno della “mobilitazione totale”[6] che spinge gli utenti dei network sociali alla produzione senza soluzione continuità di inscrizioni (i cosiddetti post) alla fine ci porterà ad avere sempre più narrazioni… ma su sempre meno cose, su sempre meno argomenti, su sempre meno idee. O magari su soltanto una.

Che poi è quel che sembra accadere nel momento in cui proviamo ad analizzare le narrazioni mediatiche (e social-mediatiche) all’interno di uno specifico ambito disciplinare su cui abbiamo particolare competenza: ciò che da esperti osserviamo sono pochi concetti – per lo più espressi in modo assai impreciso se non proprio fuorviante – ciclicamente, raccontati, ripresi, ripostati senza troppo stare a preoccuparsi di aver esperito una qualche precedente analisi, valutazione, interpretazione, argomentazione, riflessione. Vale in tutti i campi: dall’ingegneria alla medicina, dalla filosofia al curling, passando per l’OSINT.

E allora mi domando: le prassi di cui stiamo parlando – i repost, gli RT, le condivisioni e così via– si possono realmente annoverare nella categoria delle narrazioni? Se una sera posto su Facebook[7] la foto di una pizza margherita vuol dire sto realmente narrando qualcosa? Oppure sto semplicemente caricando, pubblicando una immagine su una piattaforma sociale?

Sto effettivamente dicendo a tutti: “quanto è buona/cattiva questa pizza che sto mangiando/guardando/sognando insieme alla mia ragazza/amica/nonna in questa pizzeria/ristorante/casa, questa sera/ieri sera/tre anni fa”? Oppure sto semplicemente lasciando che gli utenti che si imbattano in quella immagine si creino autonomamente una propria, autonoma, personale, individuale, non effettivamente condivisa narrazione (di quella immagine/pizza)?

E allora forse ha davvero ragione Byun-Chul Han quando scrive che esiste la narrazione soltanto nel momento in cui si racconta una storia, ovvero nel momento in cui si prende un dato/informazione/fatto/conoscenza e se ne costruisce un racconto.

Dunque il rischio, mi sembra, è quello di smettere – per noia, per inettitudine, per sopravvenuta incapacità - di essere entità narranti per diventare invece delle mere entità pubblicanti…  un ambito in cui tutto ciò che normalmente collochiamo nel concetto di “intelligenze artificiali” già ci batte a mani basse.

E forse, tornando a Ferraris, dovremmo riscoprire il piacere del narrare non soltanto come tecnica servente al dover pubblicare… ma per il piacere, per il gusto di volerlo fare. Giacché sembra – per fortuna – che “le macchine” avranno, per molto tempo ancora, più di qualche problema con il gusto di fare le cose per il solo piacere di farle.

 


Bibliografia

[1] https://www.newyorker.com/culture/infinite-scroll/the-internets-new-favorite-philosopher

[2] Han, Byung-Chul, La crisi della narrazione. Informazione, politica e vita quotidiana. 2024 Giulio Einaudi editore

[3] OSINT, Open Source Intelligence

[4] Mi piace pensare che Stultifera Navis sia un posto per narrare e non per pubblicare

[5] https://www.treccani.it/vocabolario/marzullata_(Neologismi)/

[6] Ferraris, M., Mobilitazione totale, 2015, Editori Laterza

[7] O dove altro preferite

Pubblicato il 24 giugno 2025

Giovanni Nacci

Giovanni Nacci / Autore - Ufficiale della Marina Militare in Congedo - Coordinatore presso Osservatorio per le Fonti Aperte - Intelligence Lab, Unical

giovanninacci@giovanninacci.net