Sul disallineamento strategico, la documentazione negletta e la nobiltà di carta
L’adozione dei framework Agile è sovente proposta quale rimedio universale ai ritardi decisionali, alla cristallizzazione procedurale e alla frattura latente tra le istanze del business e le funzioni tecnologiche. E tuttavia, per quanto l’Agile si presenti con una solida architettura teorica e una nobile intenzionalità progettuale, esso non costituisce una panacea: non sana le disfunzioni sistemiche, ma piuttosto le porta alla luce, talvolta accentuandone la portata.
L’ordine apparente e le priorità liquide
In molte organizzazioni, l’adozione dell’Agile si risolve in una facciata di efficienza. I riti vengono osservati, le cerimonie celebrate, ma le priorità strategiche restano instabili, rispondendo più a pressioni gerarchiche che a scelte razionali.
Task che dovrebbero maturare nel tempo vengono azzerati per inseguire l’ultima urgenza percepita. Ogni sprint diventa un contenitore precario di compromessi e contingenze.
In questo contesto, le attività considerate “non centrali” — come i test e la documentazione — vengono sistematicamente sacrificate.
Scrivere, testare, validare richiede tempo e metodo. Ma proprio il tempo e il metodo sono ciò che viene negato, perché ciò che non è visibile nell’immediato è percepito come irrilevante.
Il collega che mi ha scritto lo sa bene: quando si propone una stima realistica per redigere la documentazione — dieci o venti giorni — si sente rispondere che bastano due, tre. “Ma che ci vuole”, dice l’esperto di processo, fregiandosi magari di una qualche certificazione che lo autorizza a parlare con tono definitivo su cose che non conosce.
E qui tocchiamo un punto cruciale.
La nobiltà di carta e l’ignoranza certificata
È singolare constatare come, proprio in coloro che dispongono di titoli altisonanti — PMP®, Prince2®, SAFe SPC®, Agile Coach — si manifesti spesso una sorprendente leggerezza nei confronti del lavoro altrui.
La certificazione, invece di rappresentare una forma di responsabilità metodologica, diventa un blasone nobiliare, un lasciapassare per esercitare giudizi superficiali, svincolati dal contesto, con l’arroganza tipica di chi confonde la norma con il sapere.
“Per la documentazione ci vogliono tre giorni, massimo cinque.”
“Per i test ci pensa il team, in fondo è parte dello sprint.”
“L’importante è che il ticket sia chiuso.”
Ma un prodotto senza test è un azzardo.
E un prodotto senza documentazione è una minaccia latente, non solo per l’utente finale, ma per chiunque debba gestirne la manutenzione, l’estensione, la conformità.
“Scripta manent.”
Ma solo se si è autorizzati a scrivere, e lasciati lavorare con il tempo necessario alla precisione.
Agile come architettura di disciplina, non rifugio nel caos
Uno degli equivoci più persistenti è l’idea che l’Agile serva a gestire ambienti caotici. In realtà, la sua forza sta nel creare strutture di disciplina flessibile. È un meccanismo di governo del cambiamento, non una giustificazione all’improvvisazione permanente.
Quando ogni priorità può essere rinegoziata in ogni momento, non si è agili: si è disordinati. L’Agile autentico richiede:
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definizione chiara dei decisori e delle responsabilità;
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vincoli temporali negoziati e rispettati;
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protezione del team da interferenze extra-processo;
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metriche orientate alla coerenza, non solo alla velocità.
Senza questi presupposti, il framework si svuota. Il Product Owner diventa un portavoce privo di potere, lo Scrum Master un vigile inascoltato, e la retrospettiva una terapia di gruppo priva di effetti sistemici.
Agile non è un alibi per non decidere. Non è uno scudo contro la complessità. E non è una scappatoia per evitare di riconoscere il valore del lavoro invisibile: test, documentazione, manutenzione, qualità.
Chi pensa che “per scrivere due righe bastino due giorni”, sbaglia. E non lo salva nemmeno una certificazione.
“Il metodo non basta. Serve una cultura del limite, una disciplina della priorità, e il coraggio di riconoscere che nessuna urgenza vale la distruzione del lavoro ben fatto.”