Senza speranza, “senza turbamenti nella mente e nel cuore”[1], non ci sarebbe il varo di alcuna nave. Non è un caso che Papa Francesco, rivolto alle nuove generazioni, abbia suggerito loro di mettersi in mare aperto per “non farsi rubare la speranza”.
"Che cos’è la speranza? Turbamento della mente e del cuore, e dunque fonte di debolezza? O forse un tonico quotidiano capace di moltiplicare le energie umane?" - Speranza, Giuseppe Goisis, Editore EMP, 2020
Senza follia non ci si avventurerebbe in mari tumultuosi e in preda alle tempeste, anche virtuali, come quelli attuali. Il viaggio, che la nave rende possibile, tiene aperta la possibilità che altrove, oltre(passando[2]) il presente e i luoghi frequentati, ci possa essere l’isola che non c’è, una vita più umana e degna di essere vissuta, a portata di mano e alla quale tutti possiamo aspirare.
La destinazione non è predefinita né profetizzata, emergerà come scelta dall’incontro di persone con culture diverse, dalla condivisione di approcci, saperi e percorsi transdisciplinari, dalla sete di conoscenza e di verità, dalle visioni, dalle aspettative e dalle interrelazioni di tutti coloro che si imbarcheranno e di tutti loro con i territori (contesti) da essi visitati.
La nave
La nave che definisce il senso del progetto STULTIFERA NAVIS, a cui io e Francesco Varanini, con la collaborazione di Francesco Saviano, abbiamo dato origine, non è solo metafora del viaggio che si vuole intraprendere. L’itinerario su cui si incammina non è condizionato dall’ostilità della toponomastica come quella che caratterizzava la Fuegia (Terra del fuoco) delle scoperte Magellaniche (Porto della Fame, Canale Ultima Speranza, Baia Desolata, Punta delle angosce, Baia non entrare, e via “malaugurando”[3]). Racconta molto di una visione del mondo condivisa e da condividere con altre persone, in relazione tra loro, alla ricerca di senso, dentro categorie interpretative e di costruzione della realtà, che fanno emergere l’insensatezza esistenziale del nostro essere nel mondo globalizzato, tecnologico e complesso attuale. Un mondo “spazzato da venti impetuosi”, senza più armonia, pericolosamente in preda al caos (Caoslandia la definizione geopolitica usata da Limes), nel quale ci troviamo tutti (gettati) a vivere un presente che ci vede alla costante e infruttuosa ricerca di senso e di verità.
Il senso a cui facciamo riferimento per il nostro progetto è frutto di (ap)percezioni, sensazioni, attività intellettuali ed esperienze. Più che alle narrazioni, ormai in crisi come ha ben raccontato Byung-Chul Han[4], sempre più distaccate dal reale e tutte dentro quello che il critico letterario Jonathan Gottschall ha chiamato lo “storiverso”, il progetto della Stultifera Navis mira ai racconti, legati alle esperienze empiriche di ognuno, ma distanti dalle forme di individualismo, personal branding e autopromozione che caratterizzano oggi molte narrazioni online. Racconti che mostrano indifferenza a semplici tecniche di problem solving, capaci di comprendere e contenere, ma alla giusta distanza critica, i mondi incorporei e digitalizzati, senza esperienza e anestetizza(n)ti, nei quali molti di noi si sono stabilmente insediati.
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La nostra iniziativa
Il progetto punta a coltivare il senno della ragione che, nei tempi della tardo-modernità, molto tecnologici e psico-mentalmente dilatati, vissuti sempre in accelerazione e sorpassi competitivi, serva a costruire un diverso senso comune, umano e umanistico, pur in tempi ormai ibridati dalle macchine e dalla tecnologia (“indietro non si torna”, ne siamo convinti anche noi, “semmai si precipita”). Una tecnologia alla quale stiamo felicemente e ludicamente regalando quello che siamo, incantati e vittime di una venerazione irrazionale e di culti fideistici che sembrano il prodotto di una magia (tecno-magia la chiamerebbe Vincenzo Susca).
Chi più chi meno siamo precipitati tutti dentro uno schermo, trasformati a nostra insaputa in semplici oggetti (profili e avatar vari dalla vita propria), diventati sempre più proprietà privata di piattaforme, poteri, potenti e potentati che li fagocitano, trasformandoli in merci. Ridotti a codice software siamo e agiamo dentro gli schermi, ci siamo atrofizzati muscolarmente (anche il cervello è un muscolo), ci riflettiamo e ci rispecchiamo narcisisticamente in essi, assistiamo incoscienti alla standardizzazione e serializzazione delle nostre vite che su di essi si agitano senza senso. Alle loro superfici specchio (…delle mie brame) abbiamo affidato noi stessi. Li abbiamo trasformati nel nostro habitat naturale, dimenticando di avere un tempo esistenziale, percorso attraverso un corpo, un volto e uno sguardo, dentro un Nostroverso (il neologismo che dà il titolo al mio libro Nostroverso – Pratiche umaniste per resistere al Metaverso) fisico, sensibile e corporeo, fatto di sensi, affetti e socialità, dal quale ci siamo, smaterializzandoci, da tempo esiliati. Alla lentezza abbiamo sostituito la velocità, al dialogo l’interazione, alla socialità i social, alla permanenza la mobilità perenne, alla vita la sopravvivenza, in una parola ci siamo persi.
Il mondo digitale si è fatto sempre più artificiale trasformandoci in cyborg, esseri umani protesizzati e potenziati, prometeici, senza più pulsioni spirituali, mistiche o trascendentali. La trasformazione va in profondità, ci vuole esperti e calcolabili, capaci di risolvere problemi e di offrire soluzioni, meno di pensare, criticamente e in profondità, di problematizzare, di interrogarci e socraticamente porci (porre) delle domande sulle questioni fondamentali. Mentre distratti rinunciamo a pensare, siamo diventati cacciatori e produttori senz’anima di routinari MiPiace, che soffrono di patologie legate alla loro scarsità, sovrabbondanza o assenza, alla cui quantità è demandato il sentirsi bene che spesso coincide con l’essere esistenzialmente più isolati e soli (“Alone togheter”). In contatto con tutti, convinti di avere accesso a tutto, senza avere alcuna consapevolezza che il contatto esiste dentro spazi trasparenti ma chiusi, privati. Senza coscienza che quello che si ha può essere facilmente tolto, cambiando un semplice algoritmo di cui non si conosce nulla, neppure l’etica, e di cui non si controlla alcunché.
Valori umani
La solitudine non è solo il risultato dell’esserci isolati dentro schermi illuminati, diventati la chiave di accesso alla vita, alla realtà e al mondo. Non dipende dall’esserci dematerializzati in tanti ologrammi, che vivono di vita propria, dentro piattaforme acquario o nei mondi chiusi delle APP. Nasce anche dall’aver abbandonato valori umani come la solidarietà, la collaborazione, la compassione, la dignità, la fiducia, la componente trascendente e spirituale tipicamente umana, oggi sottomessa da pratiche, logiche e comportamenti prevalentemente utilitaristici, ludici, produttivisti, algoretici e computazionali.
Tra tutti questi valori, la perdita della fiducia assume una rilevanza particolare. Nei tempi duri che stiamo vivendo non ci si fida più di nulla e di nessuno. Si è persa la fiducia negli altri, nella verità (cosa sia oggi nessun lo sa!), nella rappresentanza e nella politica (come darsi torto?), nei media (sempre più filtri e filtrati) e negli intellettuali (dalle torri d’avorio sono passati alle piattaforme digitali, per diventare pop, influencer), in Dio (anche nell’Homo Deus che lo ha sostituito) e nei miti, ma soprattutto nel futuro, percepito sempre più come denso di nubi e potenziali catastrofi (altro che sofoni o trisolariani!), per questo annegato dentro un presentismo diffuso che ha assorbito anche il passato, cancellandolo, e quindi impedendo di costruire scenari futuri densi di avvenire.
In un tutto-presente senza nostalgia, che ci ha tutti accecati ed ha estirpato ogni radice col passato, un presente che si è smarrito, ormai desacralizzato e senza dei, né in cielo né in terra, il rischio è che tutto possa apparire assurdo, lasciando emergere paure, frustrazioni, angosce, ansie e visioni apocalittiche relative al futuro degli umani sulla terra. A queste visioni non ci si può arrendere, pesa la responsabilità verso gli altri, in particolare verso le nuove generazioni. A esse bisogna fornire strumenti culturali capaci di dare forma al loro sguardo sul mondo e di irrobustire le loro capacità solidali e cooperative nel costruirlo. È necessario fornire alternative all’impiego che della loro attenzione e del loro tempo fanno, sempre connessi come sono a protesi tecnologiche che li incantano e li ipnotizzano con la luce degli schermi a cui sono ormai soggiogati. Educarli a un sano rapporto con il medium tecnologico è un modo per aiutarli a capire il contesto nel quale si trovano immersi, a riflettere su ciò che è buono, giusto, vero, e su ciò che non lo è, a gestire criticamente l’iper-consumismo irrazionale a cui sono stati condannati, a porsi domande grandi come quelle sulla disuguaglianza, sulla guerra, sulla discriminazione di genere e sul potere, in qualsiasi forma esso si (rap)presenti. Domande alle quali nessuna intelligenza artificiale generativa è in grado di dare le risposte che dovrebbero essere date.
Lontano da visioni apocalittiche
Chi si metterebbe in viaggio prefigurando per sé e per gli altri, uragani tempestosi, burrasche, tempeste, cicloni e onde capaci di affondare qualsiasi vascello in navigazione? Chi si sente così folle da imbarcarsi in un progetto che non segue percorsi prestabiliti e già sperimentati, che non ha sponsor politici, paganti o obiettivi commerciali, di guadagno e neppure di visibilità? Ma soprattutto chi ha oggi il coraggio di partire veramente, per non rimanere in surplace come capita oggi a molti che, pur aumentando la velocità con cui si muovono, finiscono come Alice per non andare da nessuna parte?
“Now, here, you see, it takes all the running you can do, to keep in the same place, if you want to get somewhere else, you must run at least twice as fast as that!”– “Attraverso lo specchio” di Lewis Carroll
Considerando la quantità di visioni apodittiche e apocalittiche in circolazione, il cinismo diffuso, il narcisismo di molti e il conformismo (anche introverso) diffuso, immergersi in un nuovo progetto culturale non può che essere una follia (me lo stanno dicendo, inascoltati, amici e parenti), ma è anche espressione di coraggio, che oggi manca a molti, forse perché hanno cinicamente e nichilisticamente perso ogni speranza. Proporsi come iniziatori e costruttori di un nuovo progetto, in tempi percepiti come dotati di scarse alternative, è un modo per alimentare la speranza costruendo futuri possibili. Ogni crisi è anche un’opportunità, un nuovo inizio, offre la possibilità di ricominciare da capo, di farlo insieme ad altri coraggiosi, che percepiscono anche loro la stanchezza derivante da uno storytelling sempre più avulso dall’esperienza e dal vissuto, che sentono forte il disincanto (“Addio e grazie per tutto il pesce!”) rispetto alle promesse mirabolanti della tecnologia (per come oggi è narrata) e alle tante altre promesse di cui si è riempita la narrazione mediale e politica di questi tempi.
Il coraggio che serve
Il coraggio che serve è dettato dalla volontà di dare un senso (etico prima ancora che estetico) alla vita, alla propria e a quella degli altri, in un periodo nel quale il senso non si sa più cosa sia. Il coraggio è più facile da esercitare se il viaggio lo si fa insieme ad altri, persone in carne e ossa, non semplici profili smaterializzati o avatar digitali. Persone, cittadini di un mondo reale, stanche della (sudditanza) finta cittadinanza online, con le quali non ci si relazioni in modo astratto ma, coltivando l’incontro, ci si confronti, si dialoghi e ci si metta in sintonia, per far lavorare la mente e scaldare l’anima, per andare al cuore delle cose, per dare un senso alle parole e al linguaggio usato nel conversare, per chiamare fatti, entità e situazioni con i loro nomi, per condividere valori, visioni del mondo e progetti futuri.
Il coraggio non basta ma serve, per stare dentro le policrisi dei nostri tempi senza disperarsi e superando l’indifferenza, per trovare la forza di alimentare istinto (di sopravvivenza?), immaginazione, intelligenza umana e capacità esistenziali pratiche, necessarie per evitare abulia depressiva e atrofia cognitiva. Due sintomi che caratterizzano la vita umana di moltitudini di persone che hanno rinunciato all’azione, delegando ad altri le loro scelte, in cambio di regalie utilitaristiche e gratificazioni ludiche, che impediscono loro di agire, nel senso ad esso dato dal filosofo Miguel Benasayag, di trascendere il loro semplice macchinico funzionare.
In un modo nel quale ci si limita sempre di più a reagire (in modo binario, stimolo-risposta), testimonianza dell’essere diventati passivi, “soggetti” che subiscono la realtà adattandosi e semplicemente funzionando, bisogna tornare a immaginare altri (altrovi) possibili, da oltrepassare. Come ha scritto Benasayag, serve uno sguardo straordinario sull’ordinario per far emergere un evento capace di rendere straordinaria una realtà. Ma questo sguardo non può essere che “una produzione in cui convergono la conoscenza, l’intuizione e quella attività di produzione di senso che appartiene al vivente”. Una capacità produttiva assente nella macchina, seppure dotata di intelligenza artificiale. Una IA a cui molti oggi si rivolgono perché incapaci di dare un senso alle loro vite, alle loro passioni e alle loro paure.
Agire o funzionare?
Superare l’indifferenza, non accettare passivamente l’intrusione informativa, sensoriale e mentale a cui si è costantemente sottoposti da media digitali e piattaforme social, (ri)trovare il coraggio, agire non limitandosi a fare o a semplicemente funzionare, è un modo per riacquistare la vista, così da guardare in faccia la realtà, senza paura, di reimparare ad a(u)scoltare il battito della vita (non serve un iWatch) di scoprire le tante tracce lasciate da tutti coloro che da tempo agiscono al di fuori degli sche(r)mi, in libertà e consapevolezza, con responsabilità, cura degli altri e prestando attenzione al bene comune, assumendosi anche la responsabilità di definire cosa esso sia.
I numerosi Hansel e Gretel (Stultifera Navis li accoglierà e racconterà) che hanno disseminato nel tempo, con i loro semi di speranza e rinascita, i contesti ibridati tecnologici attuali non devono sentirsi soli. Ad essi mi aggrego anche io, con le tasche piene di “semi di girasole”, nella convinzione che il disincanto tecnologico è grande, che l’impoverimento esistenziale a cui stiamo assistendo non riesce a eliminare il desiderio di molti di qualcosa di diverso, di più grande e di più interessante da vivere che non sia una vita vetrinizzata, imprigionata dentro la luce dopaminica irradiante da uno schermo.
Tutto oggi sembra alimentare visioni cupe, distopiche. Non c’è solo la crisi economica che ci perseguita dal 2007/2008 generando disuguaglianze, nuove povertà e ingiustizie sociali, determinate anche dall’accelerazione nell’automazione e meccanizzazione in corso. Una crisi che non ha evitato un aumento della concentrazione di potere e ha portato ad una concentrazione di ricchezza mai vista prima (“La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi. Vero!”). Non c’è solo la crisi geopolitica determinata da una globalizzazione percepita da molti (soprattutto in Occidente) come foriera di cambiamenti indesiderati nelle sfere di influenza del mondo. Non c’è solo la crisi per il dominio del mondo che ha generato le guerre in corso ma è anche il risultato della perdita di autorevolezza e reputazione della politica e delle classi dirigenti del mondo (mentre Putin fa strategie appellandosi alla Madre Russia, Blinken a Kiev suona e canta “Rocking in a free world”). Non c’è solo la più grave crisi ambientale e climatica che il pianeta terra abbia mai sperimentato, che per alcuni potrebbe portare alla distruzione della natura, il cui esito potrebbe essere la sesta estinzione, quella del genere umano sulla terra.
C’è anche una crescente alienazione dell’uomo che determina isterie varie, malattie psichiche diffuse, nevrosi e paranoie collettive che trovano un riscontro nell’emergere di populismi e totalitarismi vari, nella ricerca di leader forti a cui affidarsi (legarsi), anche se appaiono dei mostri. Questa alienazione è da un lato frutto di modelli capitalistici che non stanno in piedi senza lo sfruttamento, fino alle forme di schiavitù attuali, dell’uomo sull’uomo, ma anche alla cessione di potere fatta da moltitudini nei confronti della tecnologia, o della tecnica se si preferisce e delle poche entità multinazionali che la governano. Le due cose messe insieme stanno determinando continui corti circuiti a cui è sempre più difficile porre rimedio.
“Mi indicheresti, per favore, la strada che devo seguire per uscire da qui? -Dipende tutto da dove vuoi andare – disse il Gatto – Dove non mi interessa poi tanto – disse Alice – Allora non importa quale strada tu prenda – disse il Gatto” – Alice nel Paese delle meraviglie
Serve porsi delle domande
Il rimedio non esiste, forse perché lo si cerca nella direzione e nel posto sbagliato. Lo si troverebbe forse, se si provasse a cambiare testa e mentalità, a rimodellare la nostra concezione del mondo, il come lo guardiamo e lo sperimentiamo, il come lo percepiamo e lo raccontiamo. Un modo per cambiare la visione del mondo è tornare a porsi domande, evitando di rivolgersi a Oracoli macchinici (“pappagalli stocastici” che hanno sostituito le più casalinghe Pizie) come le varie ChatGPT in circolazione. Abituati a trovare la pappa pronta e risposte per tutto, abbiamo disimparato a confezionare domande intelligenti e pragmatiche (nel significato dato al termine da Paul Watzlawick). Per formulare queste domande non basta avere informazioni, bisogna saperle organizzare in conoscenze, un passaggio obbligatorio se si vogliono confezionare domande utili a soddisfare bisogni reali, ma anche desideri.
“[nell’era tecnologica attuale siamo sempre di corsa, in velocità e accelerazione, in realtà] “siamo in cammino ma non camminiamo, siamo a bordo di un veicolo su cui ci spostiamo senza mai fermarci […] niente va a passo d’uomo […] la vertigine non è solo all’esterno, l’abbiamo assimilata nella mente” – Ernesto Sabato, Resistenza, Castelvecchi, Roma 2004, Pag.71/72”.
La nave, metafora del nostro progetto Stultifera Navis, nasce per superare le vertigini centrifugate della corsa, per definire spazi delimitati dalla forza centripeta della lentezza, dall’incontro, dal dialogo e dalla conversazione, dall’agire insieme, impegnandosi con senso di responsabilità a definire direzione, destinazioni e destino dell’impresa. Una specie di compagnia dell’anello ma allargata, plurale, che si mette per mare con l’intento di resistere (l’imperativo è che bisogna farlo), di risalire le correnti (l’immagine che mi viene è quella del fiume di Riverworld dello scrittore di fantascienza Farmer), di scoprire l’isola che non c’è, non per spegnere incendi ma per riaccendere fiammelle, attivare fari territoriali capaci di irradiare nuova luce e con essa nuova speranza. In questo senso la nave è anche un ponte, gettato nel vuoto (da non confondersi con quello del ponte sullo Stretto), un vuoto assimilabile al disordine e alla nostra incapacità di governarlo, all’opacità (buio) nel quale siamo tutti precipitati, adattandovisi. Il nostro ponte ha l’obiettivo di creare un ponte aereo, un passaggio, una passerella himalayana che, come il Passo del Gigante, impedisca di cadere nel baratro o di guardare compiaciuti l’abisso nel quale stiamo per cadere, raccontandoci ad ogni movimento che siamo salvi perché non abbiamo ancora toccato terra.
Alla tékhne risolutrice di Prometeo bisogna affiancare il lògos interrogante di Socrate, interrgarsi sul chi siamo!
Immersi dentro crisi reali
Ciò che ci può oggi aiutare è la nostra percezione della crisi. Una crisi che è reale, inevitabile, giunta per molti studiosi al cosiddetto punto zero, non gestibile ricorrendo alle nostalgie dei bei tempi andati, e frutto di diffuse paranoie, ansie e paure reali, legate al disincanto e al crollo di ogni speranza. Il primo passo da compiere è il superamento della negazione della crisi, nella consapevolezza che con essa si debba venire a patti, accettandola come realtà della realtà. Inutile rifiutarla ideologicamente, inutile esorcizzarla con scelte ribellistiche, populistiche, autoriyatie e fondamentalistiche, inutile adeguarvisi, inutile rassegnarsi ad essa deprimendosi, meglio attivare le antenne di cui, come esseri umani, siamo dotati per individuare i segn(i)ali di ciò che sta emergendo e cercare di impegnarsi preparandosi alle sfide in arrivo, con l’obiettivo di cambiare la vita, quella individuale e quella collettiva. Per questo, pur essendo terrorizzati, mettersi in movimento, combattere (la menzogna, la disinformazione, l’ingiustizia, la disuguaglianza, il capitalismo della sorveglianza, ecc.), salpare, mettersi in mare aperto, è la soluzione, una forma di resistenza a cui tutti possiamo partecipare.
“Venne data loro la possibilità di scegliere tra diventare re o corrieri del re. Come bambini vollero tutti essere corrieri. Per questo ci sono soltanto corrieri, scorrazzano per il mondo e, poiché di re non ce ne sono, gridano i messaggi ormai privi di senso l’uno all’altro. Volentieri porrebbero fine alla loro miserevole vita ma non osano farlo per via dell’impegno che si sono presi.” – Frammenti/Aforismi di Zürau, raccolta di pensieri, detti e riflessioni sparse che Franz Kafka annotò su 103 foglietti e che Roberto Calasso ha pubblicato per Adelphi
A fare la differenza sono i valori, la cultura, bisogna recuperare la fede nell’uomo, contribuire a definire un umanesimo rinnovato capace di contenere altre forme viventi e non viventi, senza cedere alla rassegnazione, facendoci largo nella notte per ritrovare la luce. Recuperare i valori è necessario perché viviamo tempi nei quali i più non credono più a nulla, non sanno più distinguere verità da falsità, si sentono logorati e impossibilitati ad agire, proprio quando l’imperativo etico suggerisce a tutti di farlo, appassionatamente e insieme ad altri, unico modo per lasciare dietro di sé ansie e angosce, paure e schizofrenie varie. L’imperativo etico è parte integrante del progetto della Stultifera Navis, fondato più su una visione etica del soggetto umano che al dare un’etica alle macchine e alle IA. Investire sull’etica umana è un modo per contrastare la decadenza e la sottomissione all’etica delle macchine e alle regole per essa definite dai numerosi sacerdoti che le predicano dentro chiese laiche e millenaristiche che hanno fatto del progresso, del profitto e del dominio la loro inscindibile trinità.
Serve un nuovo umanesimo
La nave chiama a raccolta tutti coloro che credono nell’umanesimo, siano essi filosofi o scienziati, poeti o artisti, intellettuali o semplici persone, uomini o donne qualunque sia la loro percezione di sé, tutti accomunati dalla sensazione che qualcosa, nel funzionamento del genere umano sulla terra, si sia rotto e debba essere riparato. La sensazione nasce dal disincanto crescente che mette in crisi l’immaginario collettivo determinato dalla mitologia costruita ad arte sulle “magnifiche sorti e progressive” (dalla poesia La Ginestra di G.Leopardi) dell’ordine tecnologico nel quale tutti vorrebbero abitare. Nasce dalla consapevolezza dell’effetto placebo degli schermi e della complicità massificata che ha reso possibile la somministrazione globale di un “farmacon” tecnologico che ha dato a pochi proprietari di piattaforme digitali un immenso psico-potere su moltitudini, controllando le esistenze di quanti le compongono.
Il disincanto nasce dalla ritrovata capacità di notare quanto poco libera e gioiosa sia la vita onlife dei molteplici paradisi artificiali o metaversi in costruzione, di quanto sia vacua la prospettiva illusoria di liberazione da vincoli e costrizioni, tipici della realtà, promessi dagli oracoli della Rete. La consapevolezza aiuta forse a comprendere che il problema vero non sia tanto la tecnologia in sé ma la smania di potere, molto umana, forse inumana e disumana, di coloro che la usano per soddisfare le loro ambizioni di successo e dominio sulla terra. Ciò che sta emergendo è la percezione della fine dell’utopia e l’emergere preoccupante di potenziali distopie che descrivono tutte un futuro poco promettente, anche nella sua prospettiva anarchica e libertaria che tanto piace alle gerarchie dominanti attuali (pensate a Musk che vuole migrare milioni di persone su Marte o a Jeff Bezos che parla di farle trasmigrare su mega-astronavi in orbita nell’universo).
Come e perché partecipare
Il come partecipare lo ha descritto in modo semplice ma efficace, Francesco Varanini:
“È SEMPLICISSIMO: LEGGENDO E SCRIVENDO.”
Mai come oggi è forte la necessità di leggere, e di leggere fino in fondo, con l’obiettivo di capire, comprendere e comprendersi, per ascoltare il pensiero degli altri e darsi il tempo di capire anche il proprio. La comprensione è prodromica alla scrittura, insieme alla lettura la precede.
C’è anche bisogno di scrivere, scrivere ancora, continuare a scrivere, senza mai arrendersi.
Scrivere è un modo per continuare a pensare e ad agire, nella speranza che non tutto è perduto, lottando anche con sè stessi per non cadere nel disfattismo e nel cinico e narcisistico nichilismo. Finite le grandi narrazioni del Novecento, non disponiamo più di strumenti adeguati per (ri)cercare e/o percepire l’emergente, per leggere gli eventi, per dare un senso ai fatti e alla realtà del Reale, per comprendere le criticità e la distruzione che avanza (un esempio su tutto la Guerra Grande di cui parla Limes o la Guerra a pezzi di Papa Francesco), per capire che le informazioni senza conoscenza non servono a nulla, che non basta raccontarsi di essere felici o di essere performanti per esserlo veramente. Forse per questo ci si rivolge ad algoritmi, IA generative varie e motori di ricerca per trovare risposte a tutto, proprio quando ciò che servirebbe è uscire dall’inerzia per cominciare a capire che non siamo mai soggetti di alcunché ma la semplice produzione delle relazioni che abbiamo con altri e con i contesti nei quali insieme a loro ci troviamo.
Fuori da canoni conformistici
In un mondo dominato dallo storytelling ci si sta rendendo conto che la scrittura deve uscire dai canoni conformistici nei quali è stata relegata, deve superare i vincoli di canali istituzionali(zzati) che finiscono per privilegiare le tendenze del momento e ciò che fa audience (visibilità), deve favorire la scrittura di testi nuovi, fuori dal rumore di fondo del mainstream contagioso e sonnambolico, favorendo eccentricità, diversità, approfondimento, multidisciplinarietà e transdisciplinarietà. Molte delle narrazioni a cui ci siamo abituati non sono vera narrazione ma semplici strumenti informativi, raccoglitori e comunicatori di dati, atti, eventi, tutti senza memoria perché non conta il legame tra di essi ma la sequenza, la quantità, la velocità nel comunicarli: “morto uno, via un altro” e speriamo che i MiPiace aumentino. La narrazione di cui noi sentiamo il bisogno è legata al vissuto di ognuno, è frutto di riflessioni, integrazioni ed elaborazioni capaci di dare forma alle esperienze vissute, da compiere da soli e/o in compagnia di altri.
Per dare corpo a una tale narrazione serve una scrittura non condizionata dal marketing, dalla propaganda e dai modelli di business che sostengono molte iniziative editoriali online. Bisogna favorire capacità inventive, immaginazione e creatività delle persone, al di fuori di piattaforme di blogging che hanno aperto la porta alla pubblicazione di qualsiasi cosa, anche se di scarsa qualità finendo per diventare veicolo potente delle falsificazioni e manipolazioni della realtà alle quali assistiamo ogni giorno e delle quali siamo tutti vittime.
Il progetto Stultifera Navis non è una piattaforma, non promuove attività di blogging, è aperto, accogliente e in continua evoluzione. Non si ferma alla lettura e alla scrittura ma alla loro trasformazione in strumenti culturali. Da progetto potrebbe trasformarsi in rivista, domani, chissà!
“Noi non siamo nati per leggere”[5], ha scritto Maryanne Wolf. Investire sulla lettura è un modo per (ri)plasmare il nostro cervello consentendo la formazione di un sapere non orientato alla ripetitività ma alimentato, in modo creativo, da sempre nuove conoscenze. La scrittura poi, sia che avvenga su una pagina bianca o sulla superficie di uno schermo, è un’esperienza di creazione, immaginazione, annotazione, ritrattazione (trattare di nuovo, riscrivere), è un modo di liberare potenza di vita (Giorgio Agamben), di resistere al paradigma dell’informazione e al controllo che attraverso di essa il potere esercita su di noi.[6]
Lasciare tracce
L’obiettivo che anima la Stultifera Navis è di lasciare tracce, seminare germogli di pensiero critico, provare a cambiare le cose mentre si cambia sé stessi, resistendo a narrazioni e costruzioni della realtà, sempre filtrati dai media, che non resistono alla prova dei fatti perché non tengono conto della complessità del Reale. Dalla lettura e dalla scrittura, esercitate da una comunità attenta di persone in carne e ossa, possono nascere relazioni sociali, originali, capaci di facilitare lo scambio di esperienze, oltre che dei loro racconti. Il tutto a partire da una verità: la crisi esistenziale e la perdita della centralità dell’umano, la sua complice resa alla volontà di potenza e alla forza di accelerazione della tecnologia, entrambe alimentate dalle molteplici narrazioni prometeiche umane che le celebrano. Il tutto reso più preoccupante dalla perdita della privacy e di ogni protezione sui propri dati personali, dalla diffusione di un controllo sempre più esteso e capillare che cambia i contesti nei quali gli individui sono chiamati a esercitare le loro libertà di scelta.
Per me il progetto della Stultifera Navis è l’evoluzione naturale del progetto SoloTablet da me creato nel remotissimo 2010 con l’obiettivo di fare cultura sulla tecnologia promuovendo una riflessione critica sui suoi effetti. A differenza di quel progetto, vissuto in solitaria solitudine, da cui è scaturita una produzione di saggi che ha portato alla pubblicazione di 22 libri, la nave dei folli aspira a essere un viaggio collettivo, un’avventura vissuta insieme ad altri, l’incipit di una potenziale comunità (non community) di persone, aperte alla contaminazione e all’ibridazione di pensiero, a pratiche e modi di “esistere”, di essere umani e cittadini.
Per questo motivo, in compagnia di Francesco Varanini e di Francesco Saviano, io sono già in porto, impegnato con loro nella costruzione e nel varo della nave.
Mi sto preparando a salpare, dopo aver accolto a bordo tutti coloro che hanno deciso di unirsi a me/noi in questa nuova avventura fondata sulla capacità di resistere alle tentazioni di un universo binario e disponibili a resistere, esercitando “critiche emancipatrici, produttive, affettive e relazionali[7]”, perché convinti che ci si debba lasciare alle spalle il binarismo fondato sulle demarcazioni nette, per investire tempo e attenzione nel pensare in termini relazionali.
"La follia è ina condizione umana. Anche nella sua forma di creatività e possibilità alternative, aiuta a guardare oltre i confini stabiliti."
Bibliografia (le mie letture e scritture)
- Maryanne Wolf, Proust e il calamaro – Storia e scienza del cervello che legge, Vita e Pensiero, 2007
- Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto, Nottetempo, 2015
- Slavoj Žižek, Ucraina, Palestina e altri guai, Ponte alle Grazie, 2024
- Slavoj Žižek, Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle Grazie, 2010
- Carlo Mazzucchelli, Nostroverso – Pratiche umaniste per resistere al Metaverso, Delos Digital, 2023
- Carlo Mazzucchelli, OLTREPASSARE – Intrecci di parole tra etica e tecnologia, Delos Digital, 2022
- Guerino Nuccio Bovalino, Algoritmi e preghiere – L’umanità tra mistica e cultura digitale, LUISS, 2024
- Giuseppe Goisis, Speranza, Edizioni Messaggero Padova, 2020
- Vincenzo Susca, Tecnomagia - Estasi, totem e incantesimi nella cultura digitale, Mimesis, Collana Eterotopie, 2022
- Miguel Benasayag, Bastien Cany, Corpi viventi – Pensare e agire contro la catastrofe – Feltrinelli, 2021
- Geert Lovink, Nichilismo digitale – L’altra faccia delle piattaforme – Bocconi Editore, Milano, 2019
- Byung-Chul Han, La crisi della narrazione – Informazione politica e vita quotidiana – EINAUDI, Torino, 2023
- Giacomo Leopardi, La ginestra – Edizioni dell’Asino, 2020
- Philip Farmer, Riverworld, Il ciclo del Mondo del Fiume, Editrice Nord, 1972
Note
[1] Giuseppe Goisis, Speranza, Edizioni Messaggero Padova, 2020
[2] Carlo Mazzucchelli, OLTREPASSARE – Intrecci di parole tra etica e tecnologia, Delos Digital, 2022
[3] Riferimento tratto dal testo introduttivo di una pubblicazione (Fuegia) di Franco Maria Ricci
[4] Byung-Chul Han, La crisi della narrazione – Informazione politica e vita quotidiana – EINAUDI, Torino, 2023
[5] Maryanne Wolf, Proust e il calamaro – Storia e scienza del cervello che legge, Vita e Pensiero, 2007
[6] Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto, Nottetempo, 2015, pag. 39
[7] Patricia de Vries, Dazzles, decoys, and deities: the Janus face of anti-facial recognition masks. Platform: Journal of Media and Communication, 8(1), 72-86.