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Non è il mestiere che nobilita l’uomo, ma la capacità di attribuirgli un senso. In ambito organizzativo, questa capacità si traduce nella costruzione di strutture narrative condivise: la documentazione non è un atto secondario, bensì il fondamento dell’identità cognitiva di un’impresa.


L’accelerazione digitale spinge le aziende a frammentare il lavoro in cicli brevi, iterativi e asincroni, trascurare la funzione epistemica della documentazione equivale a recidere la memoria collettiva. E, senza memoria, non vi è né apprendimento né progetto.

Nel quotidiano delle software house, documentare viene spesso interpretato come adempimento procedurale, un’attività “a margine”, buona per i compliance manager o per chi scrive manuali. In verità, ogni documento è un artefatto strategico. 

Esso delinea confini, definisce priorità, determina cosa vale la pena sapere e cosa può essere ignorato. Verba volant, scripta manent – ma ciò che viene scritto, e soprattutto come viene scritto, non è mai neutrale. È una presa di posizione rispetto al reale.

L’esperienza dimostra che le crisi progettuali raramente derivano da carenze di talento tecnico. Nella maggior parte dei casi, affondano in una gestione opaca della conoscenza: documenti dispersi in directory labirintiche, versioni discordanti, informazioni chiave custodite in silos personali o peggio, non verbalizzate. 

Il costo organizzativo dell’entropia informativa si manifesta in ritardi, errori, duplicazioni e demotivazione sistemica. È una forma di cecità strutturale, una perdita di visione che colpisce l’organismo aziendale nel suo sistema nervoso.

La transizione da strumenti rigidi e gerarchici – come Microsoft SharePoint configurati con logiche top-down – a piattaforme orientate alla collaborazione distribuita come Atlassian Confluence non è semplicemente un’evoluzione tecnica. È una ristrutturazione culturale. 

In Confluence ogni pagina non è un file, ma un nodo in una rete cognitiva. Annotabile, versionata, connessa a ticket Jira, a workflow, a commit Git o lavagne MIRO. 

Si passa da un modello archivistico a un ecosistema ermeneutico, dove l’informazione è sempre aperta a reinterpretazione e aggiornamento. Il sapere non viene custodito: viene curato. Scientia non habetur nisi per signa – la conoscenza non si possiede se non attraverso i segni.

Ogni documento, così inteso, diventa un luogo di confluenza tra linguaggio e responsabilità. Scrivere bene non è solo una questione di stile: è un atto di governance. La qualità del linguaggio determina la qualità del pensiero operativo. 

Una frase ambigua può generare ambiguità nei requisiti, che si traducono in ambiguità nel codice, che a loro volta generano bug, ritardi e conflitti. Documentare significa ridurre la latenza cognitiva nei team, minimizzare la necessità di chiarimenti ex post, e – soprattutto – rendere ogni attore autonomo nel proprio perimetro di azione.

È qui che si innesta la riflessione sul design dei microservizi. Un buon servizio, in una architettura distribuita, non è quello che sa fare di più. È quello che sa fare solo ciò che gli compete. 

E nulla oltre. La coesione funzionale – concetto antico ma mai superato – diventa parametro di salute architetturale. Un servizio coeso è prevedibile, manutenibile, resiliente. Un servizio che conosce troppo del contesto esterno, che accede a basi dati condivise o si affida a regole business non sue, diventa un fattore di instabilità sistemica. Quod nimis scit, cito perit.

Lo stesso vale per i team. Se bisogna conoscere quattro domini funzionali diversi per modificare una singola API, si ha un problema di boundaries. La distribuzione tecnica senza distribuzione semantica è una chimera. In questo senso, progettare bene significa pensare bene i limiti. Non solo ciò che un modulo o una persona deve fare, ma soprattutto ciò che non deve fare.

Questa è la lezione più profonda che ho tratto dalla lettura di alcune opere fondamentali sul tema delle reti concettuali e della conoscenza distribuita. 

In particolare, l’approccio proposto da Francesco Varanini nel suo lavoro sulle reti cognitive – dove ogni nodo è al tempo stesso portatore e trasformatore di significato – mi ha aiutato a vedere la documentazione non come una struttura statica ma come una forma di dialogo permanente.

Anche Carlo Mazzucchelli, con la sua proposta di “umanesimo reticolare” all’interno del progetto Stultifera Navis, evidenzia il valore delle connessioni lente, critiche, consapevoli, come antidoto all’automazione inconsapevole del sapere.

A questi si affiancano i lavori di Katy Börner, che ha cartografato la conoscenza scientifica in forma visiva, mostrando come le mappe cognitive possano diventare strumenti strategici per la navigazione del sapere; di Manuel Lima, che ha mostrato come gli alberi e i cerchi possano rappresentare strutture profonde della conoscenza umana; di Thomas Davenport, che ha messo a punto strumenti per visualizzare le reti di sapere all’interno delle organizzazioni, e di Albert-László Barabási, che ha teorizzato il principio della scalabilità nei sistemi connessi, utile anche per interpretare la diffusione (o il blocco) della conoscenza nei team. Verna Allee, infine, ci ha insegnato che i network di valore non sono solo infrastrutture tecnologiche ma ecosistemi relazionali: ciò che collega le persone e le idee è ciò che genera prosperità.

Una software house, oggi, deve quindi agire cum grano salis: documentare per capire, segmentare per coesistere, limitare per crescere. Se documentiamo bene, non è solo l’organizzazione a funzionare meglio. È il pensiero stesso che si fa più lucido, più robusto, più capace di orientare decisioni complesse in contesti incerti.


Pubblicato il 27 aprile 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto