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Nell'intreccio tra pelle e frammenti si manifesta una delle competenze più delicate dell’esistenza: la capacità di restare abbastanza integri per non smontare l’altro e abbastanza aperti perché l’altro possa davvero raggiungerci.


Nel mio lavoro, che attraversa progettazione, narrazione e osservazione dei processi umani, incontro spesso forme di fragilità che non trovano una descrizione adeguata nel solo linguaggio verbale. Appartengono a una zona anteriore alle parole, in cui l’esperienza si deposita sul corpo, nel modo in cui l’Io si dispone verso l’altro e nella capacità, talvolta incerta, di percepire la realtà come dotata di continuità.

In questa regione sensibile, due immagini psicoanalitiche si rivelano particolarmente utili. Da una parte l’Io-pelle formulato da Didier Anzieu, dall’altra il fenomeno dell’oggetto smontato descritto da Donald Meltzer insieme alla sua idea di modalità autistica. Pur appartenendo a tradizioni teoriche differenti, queste due prospettive compongono un unico sguardo che illumina le oscillazioni più sottili dell’esperienza relazionale.

Nella lettura di Anzieu, la pelle non è soltanto un organo ma una figura simbolica essenziale. È il primo contenitore delle emozioni, la superficie che protegge, che filtra, che tiene insieme. La cura materna iniziale, fatta di calore, voce e contatto, permette al bambino di costruire un involucro interno capace di accogliere gli stimoli senza esserne travolto. L’Io-pelle diventa così la condizione necessaria per un senso di unità, per la percezione di continuità e per la possibilità di incontrare l’altro senza temere di dissolversi.

Quando questo involucro è saldo, il soggetto può sostenere la complessità delle relazioni e reggere l’impatto emotivo dell’altro. Se invece l’Io-pelle è fragile o assottigliato, l’incontro diventa un rischio. Ogni presenza appare troppo vicina, troppo penetrante, troppo densa. È in questa vulnerabilità che si inserisce l’altra immagine, quella proposta da Meltzer.

Osservando bambini con funzionamento autistico grave, Meltzer identifica una modalità primitiva di percezione in cui l’oggetto non è vissuto come una figura intera ma come una somma di superfici sensoriali. L’altro perde consistenza, non appare più come persona dotata di interiorità ma come un insieme di qualità elementari: un movimento, una tonalità, una consistenza.

Questo smontaggio non riguarda la realtà esterna ma la necessità interna del soggetto di ridurre la complessità di un incontro che non può tollerare. Durante momenti di stress, lutto o paura, questa modalità può riattivarsi anche nella mente adulta.

Lo sguardo si fissa su dettagli isolati, la scena si frammenta, il volto dell’altro si appiattisce. La relazione non scompare del tutto ma entra in sospensione. Il frammento diventa una difesa contro la piena intensità dell’esperienza. Smontare l’altro significa ridurre la sua capacità di coinvolgerci emotivamente. È un gesto di protezione, non di indifferenza.

Il collegamento tra queste due immagini risulta allora evidente. La forma dell’altro dipende dalla solidità della pelle psichica che lo accoglie. Se l’Io-pelle è compromesso, l’altro non può mantenere la propria unità nella nostra percezione. La mente frantuma ciò che non riesce a contenere. L’oggetto perde forma perché l’Io non riesce a sostenere la relazione nella sua pienezza. Il ritorno della forma è possibile solo quando il contenitore interno si ricompone. Un gesto di cura, una distanza regolata, un tempo più disteso possono restituire spessore all’Io-pelle. A quel punto ciò che appariva frammentato si ricostruisce in una figura coerente. La voce torna voce, lo sguardo torna volto, la presenza dell’altro riacquista profondità.

La percezione riconquista la sua tridimensionalità e la relazione può riprendere il suo movimento. Questo doppio sguardo, fondato sul corpo che contiene e sull’oggetto che prende forma, non è soltanto un esercizio teorico. È una lente attraverso cui osservare molti gesti quotidiani: l’esitazione di fronte a uno sguardo diretto, la sensazione di essere invasi, la tendenza a ritirarsi quando l’emotività eccede la soglia di tollerabilità. È un invito a riconoscere che la percezione dell’altro non è un fatto puramente esterno ma un processo che nasce dall’incontro fra due spazi interiori.

Comprendere questa dinamica significa restituire dignità alla vulnerabilità. La perdita della forma dell’altro non indica aridità ma un tentativo di protezione, spesso inconscio, da un impatto emotivo troppo intenso. E significa anche riconoscere che la forma può tornare, che il volto può ricomporsi, che il confine interno può ritrovare la propria funzione. In questo intreccio tra pelle e frammenti si manifesta una delle competenze più delicate dell’esistenza: la capacità di restare abbastanza integri per non smontare l’altro e abbastanza aperti perché l’altro possa davvero raggiungerci.


Pubblicato il 11 dicembre 2025

Frida Riolo

Frida Riolo / Strategic Innovator | Design Thinking |