“La conoscenza è un processo, non un oggetto. Non può essere stoccata, ma solo coltivata.” — Ikujiro Nonaka, The Knowledge-Creating Company
La documentazione, nell’impresa contemporanea, viene spesso considerata un’attività di supporto: una funzione amministrativa, una pratica accessoria, a volte persino un male necessario. In realtà, ogni atto documentale è, implicitamente, una scelta di governance del sapere.
Non si tratta soltanto di registrare informazioni. Documentare significa decidere cosa l’organizzazione ritiene importante, cosa merita memoria, chi ha diritto di accesso al sapere, e con quali modalità quel sapere viene messo in circolazione.
Questa riflessione, che si colloca a cavallo tra il knowledge management, l’epistemologia applicata e la teoria delle organizzazioni, si propone di analizzare la documentazione non come supporto tecnico, ma come pratica culturale e forma di governo.
Nel paradigma classico del knowledge management — quello che emerge negli anni Novanta e viene consolidato da autori come Nonaka e Takeuchi — si assiste a un passaggio chiave: dalla gestione dell’informazione alla generazione della conoscenza come processo dinamico (Nonaka & Takeuchi, The Knowledge-Creating Company, 1995). Il modello SECI (Socializzazione, Esteriorizzazione, Combinazione, Interiorizzazione) mostra come il sapere tacito e quello esplicito si trasformino l’uno nell’altro in cicli di apprendimento continuo.
Tuttavia, questa trasformazione richiede ambienti cognitivi adatti. La conoscenza non si conserva in quanto tale: ha bisogno di contesto, tracciabilità, connessione, apertura all’interpretazione. Senza tutto questo, il sapere esplicito si svuota, perde significato e, paradossalmente, si volatilizza.
Come afferma Thomas Davenport (Working Knowledge, 1998), “la conoscenza è un flusso, non una scorta”.
In questa prospettiva, un documento non è un contenitore di verità, ma un’interfaccia per la co-costruzione di senso. E l’architettura documentale diventa il terreno dove si negoziano versioni, significati, autorità.
Nella pratica quotidiana, molte organizzazioni adottano sistemi come SharePoint per la gestione della documentazione interna. Si tratta di strumenti potenti, nati per l’archiviazione strutturata, ma fondati su un modello gerarchico e chiuso: directory, permessi granulari, logiche di accesso rigido.
Questo modello si rivela inadatto nei contesti dove la conoscenza è distribuita, situata, emergente — ovvero in gran parte delle organizzazioni del XXI secolo. Il risultato è una documentazione formalmente esistente ma inefficace dal punto di vista cognitivo e collaborativo.
Sistemi alternativi come Atlassian Confluence, concepiti per supportare il lavoro agile, si basano su una struttura reticolare e ipertestuale. Ogni pagina è un nodo connesso ad altri, storicizzato, leggibile, contestabile. Ogni contenuto può essere annotato, integrato, collegato a processi (ticket Jira, commit Git, flussi di lavoro).
Questo passaggio è radicale: da un archivio a un ecosistema, da un sistema statico a un ambiente di apprendimento distribuito (Snowden, Cynefin Framework, 2007).
Ma la vera posta in gioco non è tecnica. È politica.
Se la conoscenza abilita l’azione, allora chi detiene la conoscenza detiene il potere decisionale. In Against Democracy(2016), Jason Brennan teorizza l’epistocrazia come alternativa alla democrazia: un modello in cui solo i competenti hanno diritto a partecipare alle decisioni pubbliche. In ambito aziendale, questo si traduce in un quesito cruciale:
Chi può accedere alla documentazione critica? Chi la produce? Chi ne controlla l’evoluzione?
Spesso il sapere viene custodito da pochi individui, inaccessibile agli altri. La documentazione non è aggiornata, non è condivisa, non è leggibile. Il risultato è una oligarchia cognitiva che blocca l’innovazione, aumenta la dipendenza, e limita l’apprendimento collettivo.
Progettare la documentazione in modo partecipativo — visibile, strutturata, contestualizzata — significa quindi costruire una topologia del sapere accessibile, in cui le conoscenze siano tracciabili, criticabili, rielaborabili.
Karl Popper, ne La società aperta e i suoi nemici (1945), afferma che il fondamento della democrazia è la critica pubblica. Senza accesso alla conoscenza, non è possibile alcuna critica. Senza documentazione trasparente, non è possibile alcuna responsabilità.
Sottovalutare la funzione epistemica della documentazione comporta costi organizzativi enormi.
Tra i più ricorrenti:
- tempo perso nella ricerca di informazioni già esistenti
- duplicazione dei contenuti
- errori causati da versioni obsolete o ambigue
- rallentamento dell’onboarding
- frustrazione diffusa tra i team di progetto
In un caso reale da me seguito in passato, la scelta di migrare da SharePoint a un sistema basato su Confluence ha portato, in sei mesi, a una riduzione del 27% del tempo speso nella ricerca documentale, e a un aumento significativo dell’engagement nella produzione di contenuti tecnici.
Ma il dato più interessante è stato qualitativo: la documentazione è passata da essere percepita come un obbligo a diventare una pratica collettiva di apprendimento.
La documentazione non è un’attività ancillare, né un semplice “compito da chiudere”. È il luogo in cui l’organizzazione racconta se stessa, decide cosa è rilevante, cosa viene tramandato, chi può sapere.
Documentare è un atto epistemico. Ma anche un atto politico, perché modella il potere, la memoria, l’identità.
In un’epoca in cui la conoscenza è il vero capitale strategico, ogni scelta documentale è una decisione di governo.
Un’organizzazione che documenta bene non solo funziona meglio. Pensa meglio.