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Stamattina ho riaperto un libro digitale che avevo sfiorato giorni fa. Il titolo ancora mi parlava — Ipnocrazia. Un concetto affascinante, evocativo, carico di risonanze contemporanee. Rappresentava, in un certo senso, una sintesi delle mie inquietudini. L’avevo acquistato d’impulso, attratto dalla promessa di una riflessione sul potere ipnotico dell’informazione. In parte ci avevo creduto. In parte avevo voluto crederci. Mi sono accorto, però, che il problema non era il libro in sé, né il fatto che l’autore si sia rivelato una finzione, un’invenzione editoriale costruita tra intelligenze umane e artificiali. Il vero problema è che non mi ero fermato. Non avevo interrogato fino in fondo la fonte. Avevo lasciato che la plausibilità del testo, la sua coerenza stilistica, la sua forma accurata mi bastassero.

Perfetto, ecco il testo rivisitato, più equilibrato nel tono verso Ipnocrazia e focalizzato sul tema più ampio del rischio d’inganno nell’epoca dei media generativi. Il punto di vista resta personale e filosofico, in pieno stile Fulcenzio.


15 maggio. Il dovere di pesare le parole
Appunti di Fulcenzio Odussomai

Stamattina ho riaperto un libro digitale che avevo sfiorato giorni fa. Il titolo ancora mi parlava — Ipnocrazia. Un concetto affascinante, evocativo, carico di risonanze contemporanee. Rappresentava, in un certo senso, una sintesi delle mie inquietudini. L’avevo acquistato d’impulso, attratto dalla promessa di una riflessione sul potere ipnotico dell’informazione. In parte ci avevo creduto. In parte avevo voluto crederci.

Mi sono accorto, però, che il problema non era il libro in sé, né il fatto che l’autore si sia rivelato una finzione, un’invenzione editoriale costruita tra intelligenze umane e artificiali. Il vero problema è che non mi ero fermato. Non avevo interrogato fino in fondo la fonte. Avevo lasciato che la plausibilità del testo, la sua coerenza stilistica, la sua forma accurata mi bastassero.

Mi sono sentito disattento. Non perché avessi commesso un errore tecnico, ma perché avevo abbassato la soglia del giudizio. Ed è lì che, oggi, si gioca la nostra vera vulnerabilità.

Viviamo in un’epoca in cui il linguaggio può essere generato, replicato, persino “ottimizzato” da modelli statistici. L’apparenza del senso è diventata merce. Ma ciò che è plausibile e soddisfacente non è necessariamente corretto. E in un ambiente saturo di testi ben formattati, accattivanti, seducenti, il nostro pensiero rischia di affondare sotto il peso della somiglianza.

Non solo i libri: i media tutti sono oggi permeati da questa ambiguità. Le immagini che scorrono, le parole che si susseguono, le opinioni che rimbalzano da uno schermo all’altro hanno la stessa natura del sogno: ci parlano come se fossero vere, ma non hanno obbligo di prova.

Eppure, continuiamo a lasciarci guidare. Condividiamo, commentiamo, costruiamo posizioni pubbliche su materiali che, spesso, non abbiamo verificato. Ci affidiamo alla fonte “nota”, al canale “autorevole”, come se la reputazione potesse supplire alla verità. E quando la finzione viene svelata, come nel caso del libro che mi ha accompagnato in questi giorni, non ci indigniamo. Ci distraiamo. Cambiamo pagina.

L’anima si perde quando si affida a ciò che luccica invece di ciò che pesa,” scrive Marco Aurelio. È una frase che oggi rileggo con una lucidità diversa. Perché ciò che mi ha ingannato non è stata la falsità, ma la somiglianza. E la somiglianza — il linguaggio che mima il pensiero — è la forma più pericolosa dell’inganno.

Non c’è nulla di scandaloso nel fatto che un’operazione editoriale abbia voluto provocare, o dimostrare quanto siamo permeabili alla narrazione ben confezionata. Lo scandalo, se c’è, non è nell’esperimento, ma nel contesto che lo rende plausibile. Una cultura che preferisce la performance alla profondità, la visibilità alla verifica, l’effetto alla responsabilità.

Ciò che ho imparato — o meglio: ciò che ho ricordato — è che scrivere resta un gesto morale. Chi scrive chiede tempo a chi legge. E il tempo è un bene raro. Chiede fiducia, e la fiducia è un bene prezioso. Nessun artificio, per quanto brillante, può sostituire l’onestà intellettuale di un pensiero vissuto.

La cosa che oggi più mi inquieta non è che un testo possa essere prodotto da una macchina. È che, spesso, non siamo più in grado di distinguere tra ciò che è stato pensato e ciò che è stato generato. La differenza non è estetica, è etica. Il pensiero nasce dal limite, dall’attrito, dall’esperienza, non dalla somma delle parole corrette.

Ecco perché non accuso nessuno. Non ho bisogno di giudicare l’operazione, né chi l’ha orchestrata. L’esperimento ha funzionato. Questo è un dato. Ma mi interessa di più ciò che ha rivelato: una certa fragilità del nostro discernimento, una crescente dipendenza dal fluido, dal leggibile, dal già digerito.

Forse non siamo stati ingannati. Forse abbiamo voluto esserlo. Perché è faticoso dubitare. Perché la verità è lenta, mentre l’illusione è pronta da servire.

Non tutto ciò che si dice merita di essere creduto, ma tutto ciò che si scrive dovrebbe essere pensato,” mi sono annotato oggi, quasi per ricordarmi perché continuo a scrivere. Perché continuo a leggere.

C’è bisogno, oggi, di una nuova lentezza. Non quella malinconica del nostalgico, ma quella vigile del filosofo. Rallentare per vedere. Per ascoltare. Per distinguere.

Il mio errore, in fondo, è stato utile. Mi ha fatto rivedere il modo in cui accedo ai testi. Mi ha fatto capire che, in questa epoca ipermediata, il mestiere più importante non è scrivere bene, ma leggere meglio. E leggere meglio significa tornare a porsi le domande fondamentali: chi ha scritto? perché? con quali intenzioni? con quali prove?

Non cerco verità assolute. Ma pretendo coerenza tra forma e sostanza. Tra firma e pensiero. Non è troppo. È il minimo.

Oggi, 15 maggio, ho capito che la mia vigilanza deve essere ancora più fine, ancora più allenata. Perché il mondo non ha smesso di raccontare storie. Ma chi ascolta deve essere pronto a interrompere il racconto, quando il suono è più forte del senso.

Scrivere è ancora possibile. Credere è ancora possibile. Ma serve giudizio. E serve rispetto.

Per chi legge. Per chi cerca. Per chi non si accontenta di ciò che sembra pensiero.

Pubblicato il 20 maggio 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto